Pagine di Maura Del Serra
Omaggio a Maura Del Serra
per i suoi quindici anni di scrittura
GIULIANO INNAMORATI
L' architettura della poesia
Ho fra le mani questo libro, Meridiana, che è l'ultima raccolta di poesie di Maura Del Serra, che ha avuto l'anno scorso il Premio Nazionale Dessì, quindi uno dei maggiori riconoscimenti per i nostri poeti nazionali: abbiamo qui questa sera Claudio Varese, Presidente del Premio cha ha tributato questo omaggio, meritatissimo, a Maura Del Serra. Dunque, voi sapete che il lavoro comune fra me e Maura è di molti anni ormai: collabora all'Università di Firenze, presso la mia cattedra, da molto tempo, quindi si può dire che io ho visto pian piano, non dirò nascere la sua poesia (perché probabilmente albergava in lei prima che ci conoscessimo) ma, insomma, tutta la sua attività pubblica, a cominciare, si capisce, da quella critica: dal suo primo lavoro che è il risultato di un'ottima - non c'è bisogno di dirlo - tesi che discusse con me in Facoltà sulla poesia di Campana, quando ancora c'era, sì, una notevole tradizione critica intorno a questo poeta, ma, al di là dei lavori di scavo e di interpretazione che la generazione ancora precedente alla mia aveva compiuto (e basta pensare a Oreste Macrì, qui presente) c'era necessità di un lavoro di rinnovamento e di rilettura al quale, con un ingegno e con un coraggio molto notevoli, si accinse Maura Del Serra: questo lavoro poi confluì nel primo volume da lei pubblicato, che è appunto intitolato L'immagine aperta, seguito dall'altro, Dino Campana. Direi che, come accade ai giovani autori più fedeli a se stessi, le scelte dei titoli delle sue prime opere hanno sempre un segno, sono il risultato di una scelta interiore, e vengono dettate piuttosto da un'intuizione fatta a specchio di sé che non da motivazioni di carattere commerciale, di stimolo e di generica attrazione del pubblico: già nel titolo, L'immagine aperta, c'è qualche cosa che tocca nel vivo della sua continuità il lavoro di Maura, e non soltanto quello critico ma, come vedremo fra poco, anche quello di poesia: appunto in questo senso, di un'immagine in Campana, nel poeta, in quel poeta, che non è consegnata come definitiva, ma è invece sentita come attiva, è un'immagine che tende dinamicamente a proporsi non soltanto come produttiva di una catena di altre immagini, ma in se stessa - nella poesia - aperta ad una continuità di partecipazione: quindi non segregativa, ma partecipativa. Questi dati, queste indicazioni, possono essere proposte come elementari spie della continuità che è propria del lavoro di Maura: in questo senso io sarò condotto a ricordare il suo lavoro critico, non tanto per - come dire? - predilezione o scelta di maestro e poi collega, e perché l'ho avuto più familiare, più vicino, l'ho visto più direttamente crescere; non per questo - perché in verità la poesia di Maura mi è sempre stata "consegnata" e offerta, e io l'ho riposta, anche se non ne abbiamo mai parlato, come succede, per certo rispetto e anche pudore reciproci che cementano le amicizie più sicure: quindi ho visto anche la sua poesia nascere e l'ho seguita nel suo crescere - ma perché l'atto critico, l'avventura critica di Maura è non solo parallela, come sempre accade, ma intimamente legata alla sua poesia. Questa indicazione potrebbe essere un avvertimento semplicissimo di coerenza e di rapporto onesto e diretto fra il proprio lavoro intellettuale di carattere conoscitivo, interpretativo in senso professionale, diretto agli altri autori, e ciò che è invece il proprio lavoro, il proprio discorso più intimo e segreto. Non solo e non tanto questo voglio dire, quanto che il discorso critico di Maura Del Serra, a cominciare dal complesso e talvolta quasi intimidatorio discorso prosastico sul poeta Campana, si dichiarava e si mostrava essere, più che una collaborazione, una traduzione continua, ininterrotta, di quella poesia, guardata e vissuta a specchio della propria coscienza, e non soltanto della propria intelligenza e del proprio giudizio. Dell'opera critica di Maura Del Serra (palese nella mostra che non ho ancora visto, ma che raccoglie i suoi lavori) converrà almeno indicare alcuni titoli: ma quello che con molta energia voglio dire è che, citandoli, non intendo in nessun modo magnificare uno schedario, e tanto meno una collana di belli o bellissimi titoli di carattere accademico o critico: tutt'altro: desidero invece, già dalla nominazione dei titoli, accumulare le prove del discorso che sto facendo, cioè della comunicazione integrale e continua - dirò poi perché in forme diverse - di un medesimo lavoro, caratterizzato da una costante di creatività. Di volta in volta si avverte, nel discorso critico di Maura, una sospensione, che dà luogo a un lavoro altro, che continua nella sua produzione poetica: ecco, se ho citato prima, per Campana, L'immagine aperta, gli interessi di Maura tendono a muoversi in una direzione coerente e costante a questo suo primo lavoro: soprattutto il saggio L'avanguardia distonica del primo Evola ci rimanda di nuovo ad un momento della cultura e del pensiero che esce dalle misure della riflessione filosofica più accreditata, conosciuta o maturata nell'ambito del nostro primo trentennio o quarantennio del secolo, e ci rinvia piuttosto a quei pensatori o saggisti che si muovono in una sfera di esperienze di carattere spirituale o spiritualizzante, di scavo nel mondo di una religiosità irrazionale, che è poco frequentato e poco vicino ai temi "normali", ufficiali, della cultura nazionale. Questa indicazione ha una riprova nel saggio immediatamente seguente (il titolo mi sembra eloquente: Trans-umanismo e teosofia: l'uomo-Dio in Onofri e in Solovëv): ma ecco che, tornando ai poeti, siamo di fronte ad uno dei più grandi italiani, di cui finalmente abbiamo un'edizione leggibile [si riferisce all'edizione Scheiwiller 1982; alle forti riserve avanzate a questo punto su tale edizione da Oreste Macrì, Innamorati risponde] [...]. Sì, che l'edizione sia orribile sono d'accordo con te, ma almeno i versi si possono leggere [...] perché noi abbiamo fatto un corso su Rebora, e siamo dovuti ricorrere a fare fotocopie dell'esistente, e su testi del tutto improbabili, e questo nell'anno di grazia 1986, di fronte a un poeta della statura di Clemente Rebora! [...] Ma Rebora poi è un poeta difficile, ha tutta una sua vita appartata e addirittura, poi, segregata al pubblico nella sua precisa, e decisa, scelta di carattere religioso che volontariamente l'ha fatto uscire dal dibattito critico: sicché per noi più giovani (parlo di quando eravamo giovani - e non parlo evidentemente di Maura, ma di me) Rebora era già un mito: i nostri maestri ce lo "passavano" come una specie di fossile scomparso, che forse prima o poi sarebbe riaffiorato. E a farlo riaffiorare ha contribuito in questi tempi anche il lavoro di Maura Del Serra, la sua indicazione precisa fin dal titolo: il saggio su Rebora è Lo specchio e il fuoco: ed è evidente che queste espressioni totalizzanti, questi rapporti brucianti, luminosi, di rifrazione, che ritornano nella titolazione di Maura, sono un suggerimento, anzi una imposizione poetica, pur essendo, in partenza, titoli di opere critiche. Del resto, anche il saggio su Nietzsche, Temi e revulsioni pitagoriche nel pensiero di Nietzsche, ha un titolo che indica quanto il nutrimento dell'esplorazione della poesia moderna voglia e tenda, da parte di Maura, ad attuarsi su ricerche di base e su esperienze coraggiose, tutte a proprio rischio: e non un rischio accademico, ma un rischio della propria coscienza, del proprio sapere totale, delle proprie delusioni e delle proprie conquiste su terreni reali, difficili, quelli in cui è molto raro poter piantare una qualsiasi bandiera, e dire: questo è terreno mio. Così, non fa stupore giungere alle Figure aritmologiche nelle "Laude" di Jacopone; non è solo con una spinta da italianista professionale che Maura Del Serra si volge a recuperare Jacopone e la sua numerologia simbolica, ma con lo slancio di una poesia che "traduce" altre coscienze religiose, che esprime un punto di conquista spirituale, conferma la testimonianza di un itinerario spirituale e religioso, legato alle figure anche più complesse e ruvide della tradizione espressiva italiana [...]. Ma, continuando, incontriamo ancora da una parte Claudel e Jahier, Boine, ecc.: ed è chiaro che la zona di ricerca di carattere segnatamente primonovecentesco, per quello che tocca la letteratura italiana, non si dispone secondo il criterio dell'indagine sistematica al fine d costituire un panorama informativo, anche se polemico, della poesia italiana moderna: è invece un altro tipo di esperienza, non lineare ma costituente un "bacino di raccolta" di un materiale poetico non fermo, ma di un distillato in continua fermentazione, di un movimento critico quasi sapienziale da parte di Maura. Potrei continuare parlando degli altri suoi studi, ma era questo, in fondo, che mi premeva additare, questo senso di una ricerca che non vuol pagare oboli alla storiografia, quanto invece prodursi come avventura che ha il suo corrispettivo, il suo grande pendant, nella produzione poetica.
Il nutrimento della poesia di Maura è di carattere internazionale, la sua esplorazione è autenticata dalla ricerca che ha fatto su alcuni poeti spirituali e mistici inglesi del Seicento e dell'Ottocento, come pure della tradizione filosofica ed "esoterica" di certo gongorismo spagnolo, così come (ed è assai interessante) ritornando con le traduzioni dal tedesco su autori che appartengono a questa stessa tradizione ascetica. E, avvicinandoci alla poesia di Maura piuttosto che al suo peculio di esperienze critiche, direi che tra la componente mistica e quella ascetica è la seconda che va privilegiata, proprio perché al fondo del suo poetare c'è, ed emerge, non tanto il momento dell'annullamento, quanto invece una spinta, diciamo, "in salita", una carica vettoriale, che tuttavia ha precisi riflessi nell'esistenza terrena e nella mondanità affettiva, intellettuale, indagativa e sentimentale a cui è, non tanto ancorata quanto piuttosto tessuta, impregnata. é questo l'aspetto della poesia di Maura che è per me il più difficile ad intendere, perché mentre nel caso della sua letteratura critica ho sempre come punti di confronto gli autori di cui parla, nel caso della poesia i referenti assoluti che vengono coinvolti nel suo discorso mi restano estranei, sono lontani dalla mia esperienza umana e intellettuale, dai miei modi della conoscenza: sicché io divento per un verso un lettore turbato, per un altro verso quasi privilegiato nel ricevere il messaggio formale, la forte carica di originalità e di persuasività, di sedimento umano, diretto, storicamente per me traducibile nell'avventura della personalità dell'autore, che ha scritto quella determinata poesia in quel momento. Ma il punto vero, autentico, di cui intendo bene il discorso, rimane in qualche modo da me separato: è una condizione quasi paradigmatica che si verifica nei confronti della poesia di Maura e di altra consimile, e nei lettori, in generale, di qualsiasi autentica poesia: c'è sempre in noi "utenti" una capacità di ricezione che è anche scrutinatrice, repentina, anche arbitrariamente esigente, riguardo a ciò che il poeta ci viene dicendo: sicché è per me affascinante la straordinaria tastiera di sviluppo del canto, dei canti, o del discorso (ci sono queste tonalità diverse nella poesia di Maura: ora canto, ora discorso, ora sentenza, ora scoperta): e sono affascinato e persuaso soprattutto nei momenti in cui avverto non solo la ricchezza della tastiera letteraria, ma anche l'avventura formale e le soluzioni "piene" della sua poesia, in cui si fondono agevolezza ed ardua profondità [...]. La poesia di Maura è dinamica, indica un'orbita di movimento: penso ad esempio a quanto Dante è presente (non necessariamente il Dante del Paradiso ma anche quello delle due prime cantiche) ed è sempre tradotto e condotto ad avere delle armoniche paradisiache; mentre, di fronte alla palese soluzione "in progresso" della poesia di Maura non mi interessa giocare (come succede invece che piaccia fare coi poeti di media statura) all'indagine delle fonti - qui sento Montale, qui echeggia Ungaretti [...] - che è tipico del nostro mestiere di "esperti", è il sentire "come ha lavorato", "come è nato": è un gioco, questo, una tentazione di qualsiasi lettore colto, che qui non lo sfiora, non ne ha bisogno, perché la poesia di Maura supera quest'ostacolo anche quando più decisamente vuole avvalersi - quasi a specchio o a rifrazione - non già dell'autorità, ma dell'esperienza implicita in quelle altissime citazioni (penso per esempio ad una poesia, L'alleanza, dove ad apertura c'è un testo di San Juan de la Cruz). Di là da questo, il mio incontro più diretto con la poesia di Maura è nei versi e nei momenti di tensione angosciosa, o in quelli sorridenti, quasi (e questo si avverte particolarmente nella raccolta Meridiana) che una specie di segreto al limite dell'ironia gioiosa governi il guardare le cose, i momenti e i fatti della vita. Sono questi i punti, e in genere le poesie più raccolte, dove l'intonazione è quasi di favola, di andamento e di ritmo quasi "infantile": che è il risultato di una serie di scelte foniche, ritmiche e intellettuali precise, che stanno dietro alla costruzione, al momento edificativo della poesia. Del resto, nell'insieme tutte le raccolte (particolarmente La gloria oscura, che mi è assai cara) ma ancor più l'ultima, Meridiana, è costruita (giustamente è stato notato anche dal prefatore) proprio come libro, e questo elemento di costruzione globale viene a corrispondere al sentimento della poesia che Maura ha e che dianzi dicevo "edificativo": al di là del testo delle singole poesie, che del resto non sono mai singole - è questa un'altra caratteristica del poetare di Maura: non possono essere mai considerate "perla" singola in sé conclusa, e cavabile fuori da quello o da altro possibile contesto, ma fanno discorso, si compongono, alla fine, in comunicazione ed esortazione: è appunto una leggibilità del costruire, quasi dell'esortare e confortare l'umano. In questo senso, leggendo Meridiana, mi veniva di continuo in mente un'aggettivazione sul dover essere della poesia, che è di un grande poeta, anche lui a suo modo religioso, e religioso "a rischio": Campanella parlava di poesia "architettonica": la poesia "ha da essere architettonica", proprio perché deve non costruire le figure - che so? - di un tempio, ma deve edificare, "architettonizzare", la verità: la verità comune a tutti gli uomini. Mi guardo bene dal fare confronti assurdi fra Campanella e Maura: ma ci sono certe parole, certe analogie di funzioni definitorie che creano delle familiarità altrimenti impensate e impensabili: in sede di poesia, avvengono parentele molto più "curiose" di quelle che le storie letterarie possano registrare. In Maura è evidente questo impegno, questa volontà a che la poesia sia pasto, cibo comune, non consolatorio, ma per l'appunto costitutivo e ricostitutivo dell'essere delle persone nella vita. Questo è in fondo il senso che viene dall'ultimo volume, più sereno e insieme più libero, più sciolto: un senso di grande maturità e responsabilità di coscienza che questo poeta mostra, di là e insieme ai suoi valori effettivi di poesia.
Credo che il giudizio del "critico competente" abbia un senso, di fronte alla poesia di Maura, solo se il critico competente misuri se stesso alla stregua di quell'"uomo comune", ricco e povero della sua vita, della sua nascita e della sua morte nello stesso tempo, a cui in fondo la poesia di Maura si riferisce.
27 Aprile 1988, Villa di Groppoli (Pistoia) (inedito)