Banca Dati "Nuovo Rinascimento" LETTURE DEL SONETTO MARIO BARATTO, La poesia di Michelangelo, in «Rivista di letteratura italiana», II, 3 (settembre-dicembre 1984), pp. 421-423 [...] Umorismo che sbocca talvolta a effetti di grande grottesco quando, in alcuni momenti del resto non numerosissimi, l'artista ci fa assistere alla condizione precisa di lui che sta lavorando e dipingendo, che sta faticando e sudando nell'elaborazione della propria opera. Forse val la pena di leggere il sonetto 5, caudato, accompagnato sul foglio da uno schizzo di disegno, che si riferisce al periodo tra il 1508 e il 1512, in cui M. attendeva agli affreschi della Cappella Sistina: I' ho già fatto un gozzo in questo stento, come fa l'acqua a' gatti in Lombardia o ver d'altro paese che si sia c'a forza 'l ventre appicca sotto 'l mento. 4 La barba al cielo, e la memoria sento in sullo scrigno, e 'l petto fo d'arpia, e 'l pennel sopra 'l viso tuttavia mel fa, gocciando, un ricco pavimento. 8 E' lombi entrati mi son nella peccia, e fo del cul per contrapeso groppa, e ' passi senza gli occhi muovo invano. 11 Dinanzi mi s'allunga la corteccia, e per piegarsi adietro si ragroppa, e tendomi com'arco soriano. 14 [...] Il lavoro faticoso dell'affresco, che implica non solo lo sforzo mentale, ma quello fisico di M., crea una specie di choc di ritorno, come di chi vedesse se stesso e il suo lavoro dall'estremo opposto, o si vedesse come Dante vede certi dannati di malebolge. Le immagini e i paragoni comici scattano allora con un eccesso che rende grottesca e derisoria, esasperata fisicamente in gesti deformanti, la figura di un artista che pure è tutto teso alla propria creazione. Il paragone iniziale con i gatti tende così a trasformare quasi inavvertitamente M. in un uomo-gatto, tutto contorto e impiastricciato, qualcosa di abnorme, ai limiti della follia surreale e magica, e pur intimamente connessa alla tragicità della sua condizione creativa. Ecco, allora, venire la coda del sonetto, più malinconica e grave, se pur ancora con lo stesso impasto linguistico, che ci apre un momento dell'animo di un pittore contrariato, di un artista che, come M. diceva spesso, non si crede pittore: Però fallace e strano surge il iudizio che la mente porta, ché mal si tra' per cerbottana torta. 17 La mia pittura morta difendi orma', Giovanni, e 'l mio onore, non sendo in loco bon, né io pittore. 20 [...] Il sonetto chiude con un topos di modestia cui non c'è da fare un affidamento assoluto: resta comunque evidente l'umorismo di chi accetta la propria situazione, e insieme sa che quanto essa ha di comico non basta a distruggere, tutt'altro, la terribile serietà del proprio lavoro. Avremmo certo potuto citare versi piùù significativi; ma desideravo servirmi di un caso-limite per mostrare come in realtà l'elemento essenziale del personaggio di M. in queste rime è proprio nella coscienza di essere insieme un oggetto derisorio e comico, ma anche un'anima tormentata e tragica, e nella contemporaneità con cui egli vive questi due aspetti. Il suo umorismo è dunque prettamente connesso alla sua insolubile situazione di crisi: propria di chi non si acqueta mai, e sa di non poterlo fare, e né desidera del resto di farlo, in un'unica situazione, di chi non può risolversi nell'accettazione totale di una scelta, nella soluzione di quello stato di bivalenza che egli riesce a individuare in se stesso. È qui che cogliamo forse il personaggio che ci proponevamo di cercare all'inizio: non l'autore delle Rime, ma proprio il personaggio che è costruito dalle Rime, che è presentato dal testo. E ora che lo abbiamo in qualche modo individuato, che lo abbiamo almeno sfiorato, psicologicamente e stilisticamente sdoppiato, lucido e incapace di appartenersi e di dimenticarsi totalmente, posso anche considerare legittimamente concluse, magari con un «non-finito» ben tipico di Michelangelo, anche queste mie rapide osservazioni di lettore. immesso in rete il 20 dicembre 1995 |