Banca Dati "Nuovo Rinascimento"



GIAMPIERO GIAMPIERI

Il Tasso tra gli elisabettiani
Ipotesi su Amleto






Noi italiani, generalmente cattivi lettori (del nostro più ancora che dell'altrui), siamo conoscitori provinciali e superficiali dei nostri sommi poeti, i quali da Dante al Tasso (forse bisognerà deciderci a includere Marino) sono i padri delle moderne letterature europee: dal Portogallo alla Polonia, dalla Spagna alla Romania... Incluse naturalmente Inghilterra, Francia e Germania, al primo posto tra le nazioni che ci sono debitrici.

Tra i secoli XIV e XVI, ogni paese ebbe i suoi grandi scrittori, celebri prima in patria e col tempo anche all'estero. Ma solo gli italiani con Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto e Tasso (per limitarci alle vette) divennero autori universali, presto apprezzati e imitati in tutta Europa. Dovunque le loro opere – e, tramite esse, la nostra lingua – discesero rinnovatrici, accendendo la fiaccola "inconsunta" della grande poesia. Piovendo di letteratura in letteratura, quei capolavori suscitarono i «color vari» della moderna arte europea. Mentre la tendenza francese e tedesca è quella di sottomettere, snaturandola, la cultura altrui, l'arte italiana, impostasi solo per la verità della sua bellezza, ha sempre saputo, trascolorando, sparire dietro la sua stessa incontenibile forza generatrice. Arte cattolica significa (nel secolo XVI) arte ben più tollerante e universale di quella luterana o calvinista.

Torquato Tasso, il più cattolico, il più "controriformistico" dei nostri poeti, ha avuto paradossalmente lettori molto più perspicaci tra i protestanti che non tra gli ostinati pastorelli dell'arcadica Italia. Quanti grandi spiriti nordeuropei, da Spenser e Milton a Klopstock e Rousseau, hanno tratto vantaggio dai tormenti del povero poeta (a proposito di cui Chateaubriand ha scritto che «le génie est un Christ»)! I protestanti, specialmente quando fu di moda essere romantici, avevano addosso l'ansia di approfondire smanie e dolori del loro nazionalistico soggettivismo. Noi italiani, gente allo sbaraglio, senza nome e senza identità per secoli, avevamo invece perso di vista (e ancora non l'abbiamo ritrovata) l'ansia di verità con cui i poeti della nostra nazione avevano scavato nella coscienza di noi cattolici. Così, poiché avevamo smarrito la chiave di lettura, nell'Ottocento la nostra letteratura, facendosi italiana, si fece contemporaneamente nazionale e fraintesa. Una letteratura gloriosamente nazional-fraintesa! Bella ma vuota. Ritenuta priva di spessore, incapace di esprimere nonché di suscitare vere prese di coscienza.

Nelle nostre scuole nemmeno si sospetta che razza di "faro" sia stato il Tasso nei secoli, e da quante sentinelle (per usare un'immagine di Baudelaire) il suo grido di dolore sia stato ripetuto in Europa. Per trecento anni egli ha alimentato la fantasia degli artisti, inclusi olandesi, russi, croati, cecoslovacchi... La sua fortuna nell'Inghilterra elisabettiana fu tale che non è insensato avanzare una teoria come quella che ora andiamo a sostenere. Il Tasso non è solo l'"italo Amleto" per eccellenza: è Amleto tout court. È lui l'archetipo, il modello, l'ispiratore di Hamlet (che, in quanto inglese, ha visto riconosciuta la sua grandezza più e meglio che se fosse nato italiano). Figuriamoci se, leggendo il Re Torrismondo, qualcuno dei nostri critici poteva durar la fatica di sospettare che il tragico manichino tassesco, rigido prodotto del nostro misero teatro cinquecentesco, avesse avuto qualcosa da insegnare a Shakespeare, il signore di tutte le problematiche, di tutte le prese di coscienza! Per quanti decenni si è gracidato in Italia che il Torrismondo era un fallimento! Per Mario Praz tale tragedia «anchilosata... da un vuoto schema classicistico» è un «dramma insieme decrepito e puerile, e in ogni caso da non reggere al confronto con qualsiasi dei minori elisabettiani». E se questo fallimento estetico di un genio italiano imperfetto avesse contribuito, proprio lui, alla nascita del personaggio più famoso del teatro moderno...?

Nel 1584 Scipio Gentili dedica a Elisabetta I una versione latina della Gerusalemme liberata, pubblicata a Londra. Nel luglio 1594 la compagnia degli Admiral's men rappresenta la seconda parte di un dramma, Godfrey of Bulloigne, la cui prima parte poteva essere il dramma Jerusalem, recitato dagli Strange's men il 22 marzo e il 25 aprile 1592. Sempre nel 1594 Richard Carew fa stampare la sua traduzione inglese dei primi 5 canti della Gerusalemme col testo a fronte.

Appartiene a questo periodo una testimonianza per noi fondamentale: a Londra ci furono numerose repliche di una commedia, purtroppo perduta, il cui titolo era Tasso's Melancholy. In un inventario della compagnia troviamo menzionati Tasso's Picture e Tasso's Robe. Sappiamo inoltre che nel 1602 (quando Hamlet veniva rappresentato al Globe Theatre), Thomas Dekker revisionò il testo di Tasso's Melancholy per una nuova messinscena.

Che cosa sapevano del Tasso gl'inglesi dell'epoca? Da dove potevano attingere notizie? C. P. Brand ci informa che erano disponibili, per esempio, i due volumi di Lettere familiari pubblicate dal Licino nel 1588. Sta di fatto che fin dal 1584 qualcuno seguiva attentamente, dall'isola, la sorte e la produzione letteraria del recluso di Sant'Anna. Un tal Giovanni Castelvetro scriveva dall'Inghilterra al gentiluomo ferrarese Ludovico Tassoni: «Né mi resta altro che pregarla di favorirmi di scrivermi se il povero Tasso vada componendo cosa alcuna, o no: che Vostra Signoria sappia, che un illustre cavaliere me l'ha domandato, dicendo che Sua Maestà gli ha imposto d'informarsene; e componendo egli cosa che vaglia, mi farebbe un segnalatissimo favore a mandarmene un esempio, onde ne lo prego quanto posso e so; assicurandole che questa Regina non stima meno avventuroso il Serenissimo nostro Duca per avere codesto gran poeta cantate le sue loda, che sì facesse Alessandro Achille, per aver egli avuto il Grande Omero; e mi dicono che ella ne sappia già molte stanze a mente».

Altri inglesi seguivano incuriositi la vicenda del Tasso. Gabriel Harvey, amico di Spenser, considerava esemplare quella follia. Rammentandola in più di una occasione, parla ad esempio di «crankiness of... imagination... more puissant than the fury of Tasso». Anche in Inghilterra circolò assai presto la voce che voleva il poeta folle per amore di Leonora d'Este. Scipio Gentili vi fa riferimento nella prefazione della sua traduzione e nel 1593 John Eliot scriveva, del Tasso, «this youth fell mad for the love of an Italian lass, descended of a great house, when J was in Italy».

Essendo tanta la celebrità in vita, è probabile che certi episodi clamorosi, dopo aver fatto il giro delle corti italiane, approdassero anche in Inghilterra. Mentre parlava con Lucrezia d'Este il Tasso, in un attimo di furore, scagliò un coltello contro un servo spione. Come resistere alla tentazione di accostare l'episodio alla scena in cui Amleto uccide quello spione di Polonio, nascosto dietro un arazzo nella camera di Gertrude? Questa scena era già nelle Histoires tragiques del Belleforest, la più probabile fonte diretta di Hamlet. Ma come non avanzare l'ipotesi che l'avvenimento ferrarese, presente in Tasso's Melancholy, fosse noto a uomini di teatro quali Thomas Kyd e Shakespeare?

Tornando ora a Gabriel Harvey, già nel 1572 egli aveva parlato dell'«excellent Tasso» come di uno dei grandi poeti italiani. Venti anni dopo, paragonando Spenser all'Ariosto, lamentava l'assenza di un «English Tasso». In Palladis Tamia (un trattato particolarmente prezioso per gli specialisti, in quanto consente di ricostruire la cronologia di molte tra le prime opere shakespeariane) l'erudito Francis Meres mette Tasso insieme a Dante e ai suoi poeti inglesi preferiti.

Ma esistono altri dati. Edmund Spenser ha imitato la Gerusalemme in diversi punti della Faerie Queene (in particolare nel canto XII del libro II). Nel 1600 esce la famosa versione integrale di Edward Fairfax, giudicata memorabile da lettori illustri (opera importante anche dal punto di vista della storia della metrica inglese). E già da tempo altri poeti ancora, di grande rilievo, guardavano a Tasso e alla sua produzione. Primo fra tutti sir Philip Sidney che, sembra, visitò Padova proprio per conoscerlo (ma non è certo che l'incontro sia avvenuto). Samuel Daniel e Michael Drayton si rifanno al modello tassesco nei loro poemi epico-storici. In particolare Samuel Daniel (un italianate che sposò la sorella di John Florio, viaggiò nel nostro paese, conobbe il Guarini) considerava il Tasso «the wonder of Italie» e giudicava «that admirable poem of Jerusalem comparable to the best of the ancients».

Ora, saltando le varie traduzioni e imitazioni (dall'Aminta, dai sonetti, dai madrigali) arriviamo a Thomas Kyd, l'iniziatore della splendida stagione del teatro elisabettiano. Nel 1588 egli tradusse il dialogo tassesco Il padre di famiglia (The House-holders Philosophy). Questa è una notizia diversa dalle altre finora rammentate. All'autore della Spanish Tragedy infatti è attribuita anche la paternità del cosiddetto Ur-Hamlet (versione preshakespeariana del dramma, la cui esistenza è stata postulata dagli studiosi per spiegare derminati riferimenti e allusioni altrimenti inspiegabili). Ammessa l'esistenza di tale dramma, che sarebbe stato rappresentato a Londra nel 1589, possiamo almeno provarci a inseguire questo fantasma, vago ma indubitabile: nella mente di Kyd, in quel periodo, avvenne un processo creativo che, passando anche attraverso uno dei Dialoghi del Tasso, si concretizzò in "qualcosa" di relativo ad Amleto, un testo teatrale che giunse fino a Shakespeare. Pur non possedendo tutto ciò che fu scritto da Kyd negli anni 1588-1589, quanto sappiamo è sufficiente a metterci una pulce nell'orecchio.

Tramite la Spanish Tragedy possiamo introdurre un sospetto nuovo in un mistero che rimane fitto. Hieronimo è un "padre di famiglia" di cui Kyd rappresenta l'intenso amore per il figlio ucciso, un amore così disperato da sconfinare nella follia. È possibile dimostrare che anche Thomas Kyd, come altri elisabettiani, s'interessò alla vicenda del Tasso malato di mente? La pazzia di Hieronimo, insieme vera e simulata, è da ricondurre in qualche modo a quanto Kyd poteva sapere del poeta napoletano? L'intreccio della Spanish Tragedy, a differenza di Hamlet, non presenta nulla che faccia pensare al Tasso. Tuttavia già il personaggio di Hieronimo costituisce, di suo, un indizio interessante. Simulando e dissimulando per portare a termine la vendetta, a volte egli naufraga davvero nel suo buio tormento, altre volte ricorre a una demenza che in quel momento non è vera. A tratti l'abisso è lì, pronto a accoglierlo; subito dopo, respingendolo, lo fa tornare in sé. Da solo, o con persone fidate, Hieronimo si lascia andare al delirio; ne riemerge quasi contro voglia. In mezzo ai nemici, entra e esce arbitrariamente dalla follia; così sconcerta chi, altrimenti, potrebbe indovinare il suo gioco angoscioso. Come poi farà Amleto, Hieronimo impedisce agli altri di capire che cosa stia effettivamente succedendo. A mezzi come questi ricorre (al prezzo della propria umiliazione) chi, sapendosi agnello tra lupi, ha deciso comunque di realizzare la sua vendetta.

Gli studiosi hanno rilevato che «è più o meno negli anni attorno all'inizio del nuovo secolo che si nota una tendenza a presentare al pubblico in forma più complessa e ambigua il motivo della follia simulata» (Vanna Gentili). Per The Duchess of Malfi (1614), a proposito della famosa "madmen scene" è stato fatto il nome del Tasso. John Webster fa sfilare dei pazzi davanti all'atterrita eroina del dramma: secondo F. L. Lucas (curatore delle Complete Works di Webster) sull'autore avrebbe agito il ricordo della sorte del Tasso. Quella follia non poteva essersi già imposta a Thomas Kyd, che del Tasso era addirittura traduttore?

Per esempio, lo strazio di un padre di fronte all'uccisione del figlio è un tema squisitamente tassesco. Nel Rinaldo, poema del Tasso diciottenne, l'eroe ammazza in duello Ugone e lo decapita sotto gli occhi di Carlo Magno. Lasciando poi l'accampamento dei Franchi, Rinaldo assiste alla disperazione del padre di Ugone che piange sul cadavere mutilato del figlio. Bagnando di lacrime il «nudo teschio», il vecchio giura di vendicare l'omicidio (canto VII). Nel canto XI altra uccisione di un figlio sotto gli occhi del padre. E, nella Gerusalemme, Solimano trucida uno dopo l'altro i cinque rampolli dell'esterrefatto Latino.

Forse Kyd aveva intuito l'importanza che il rapporto genitori-figli ha nell'opera del nostro poeta. Non potrebbe aver voluto attribuire, in via sperimentale, al personaggio di un padre l'angoscia di quello scrittore ormai privo di ogni legame familiare, abbandonato a se stesso, vittima della spietatezza della vita di corte? Avendo il Tasso come riferimento, il Kyd potrebbe essersi proposto di rappresentare la pazzia dal duplice punto di vista di un padre che perde il figlio e di un figlio a cui ammazzano il padre. Nella Spanish Tragedy non troviamo lo sgomento esistenziale del Tasso, diciamo così, posto direttamente a disposizione dello smarrimento di Hieronimo. Ma nell'Ur-Hamlet l'avvicinamento potrebbe esserci stato. Il Re Torrismondo (tra le cui fonti dirette o indirette, sappiamo, c'è anche quel Saxo Grammaticus che ci ha tramandato la storia di Amleto) era uscito nel 1587. Nella Spanish Tragedy non troviamo granché di tassesco da segnalare. Quando Hieronimo esclama:

O eyes, no eyes, but fountains fraught with tears,
o life no life, but lively form of death
(atto III, scena II)

il secondo verso ci fa pensare a Germondo che esclama:

O mia vita non vita, o fumo, od ombra
di vera vita, o simolacro, o morte!

Il verso «the night, sad secretary to my moans» può richiamare il famoso «e secretari del suo amore antico» di Erminia. Ma si tratta di somiglianze vaghe.

Se invece, come cercheremo di dimostrare, tra il Torrismondo e Hamlet ci sono punti di contatto, a chi risalgono? Fu Kyd, come sembra probabile, a avvicinarsi al testo italiano, e Shakespeare vi giunse tramite lui? Anche loro, come gli altri elisabettiani, frugando in quell'opera e in quella vita, ne ricavarono notevoli illuminazioni? A quel destino che (lo capiranno poi anche Rousseau, Goethe, Byron, Baudelaire...) racchiudeva un messaggio di grande importanza, i drammaturghi inglesi seppero imporre il significato che esso aveva: era inconfondibile, ma rischiava di non venir messo bene a fuoco. La parabola esistenziale del Tasso sembrava un fallimento insensato e caotico. Tale era apparsa a Montaigne. Gl'inglesi, invece, furono tra i primi a riconoscervi bellezza e verità.

Non è soltanto una questione di fonti; c'è in gioco molto di più. Per questo (e per cominciare a rendere al Tasso un po' più di ciò che veramente è suo) dobbiamo tentare di porre il problema in modo nuovo. Prima di tutto bisognerebbe ricercare in Saxo Grammaticus quello che l'autore del Re Torrismondo può averne derivato. Poi, dato che nella storia di Amleto come la narra Saxo non troviamo nulla della complessità strutturale e psicologica dello Hamlet, dovremmo provare a considerare il capolavoro di Shakespeare anche alla luce dell'importanza che la figura del Tasso aveva allora, nel periodo elisabettiano. Oltre all'uomo di teatro, drammaturgo e regista, c'era l'uomo di sventura, il cortigiano folle, il bravo spadaccino... tutti aspetti che ritroviamo in Hamlet. Anche Amleto è un dotto, un intellettuale perseguitato da un potere che esaspera in lui la «precisa e tesa comprensione della ragione che gli ha fatto perdere la ragione» (come afferma Montaigne, del Tasso). Ossessionato da un complesso edipico che lo rende visionario, Amleto si sente ed è spiato nei corridoi di una insidiosa reggia rinascimentale. Uccidendo Polonio, commette un parricidio trasposto; infatti, oltre che di Ofelia, Polonio è padre di Laerte, alter ego ostile e aggressivo del protagonista. E pensiamo ancora a Amleto che, dopo quel gesto, deve lasciare Elsinore; a lui che, essendo avvelenato, muore durante un duello. È quasi come se la vita del Tasso e le sue angosce, osservate da lontano, dall'Inghilterra, fossero state colte in quel che più avevano di generosa, teatrale volontà di catarsi. Non solo ma, sovrapposta alla narrazione di Saxo, la vicenda del poeta italiano illumina e completa il significato dell'antico eroe danese.

Amleto ci sconcerta perché, al di là delle figure letterarie da cui discende, riproduce un essere umano vero, in carne e ossa. Riproduce un artista della cui vita e delle cui opere un altro, anzi due poeti, congiuntamente, hanno colto l'essenza, il segreto. Con Shakespeare s'impone una capacità finora inedita in teatro di osservare la realtà di ogni giorno. È un realismo altrettanto potente di quello con cui, nella Divina Commedia, vengono captati i movimenti interni e esterni del protagonista. Se lo «strano e ricco» spettacolo offertoci da Amleto è un'interpretazione della figura del Tasso, allora noi siamo chiamati a confrontare quelle peripezie teatrali col senso stesso della poesia che il Tasso ricavò dalla sua sofferenza. Bisognoso d'aiuto (un aiuto richiesto con prepotenza disperata, da italiano del sud), il Tasso non riuscì però a far arrivare il suo messaggio a qualcuno che, capendolo, fosse in grado anche di salvarlo. Shakespeare ha inteso non far cadere quel messaggio nel vuoto. Hamlet non nasce da una approssimativa riutilizzazione di fonti, messe insieme in modo imperfetto per ricavarne solo un nuovo dramma. (Né HamletPinocchio sono capolavori involontari). C'era l'urgenza di materializzare una consapevolezza con cui l'umanità, anche se ogni volta la respinge, aveva e ha bisogno di venire alle prese. Ed è sempre la genialità del singolo, dell'individuo misteriosamente dotato, che offre alla propria epoca certe prese di coscienza.

Torquato Tasso, poetando come ha poetato, vivendo come ha vissuto, ha dato origine, oltre al suo personale, a un mito parallelo e autonomo. Non portando il suo nome, materializzandosi in Inghilterra e non in Italia, questo mito deve però a lui la propria nascita. Il Tasso è stato il primo artista moderno che, offrendosi in pasto agli altri, ha voluto rendere utile in senso, diciamo pure, didascalico il suo tormento. Voleva, divenendo un'allegoria vivente, esser seguito nei frenetici andirivieni della mente: da dentro a fuori, da fuori a dentro. Familiarizzandosi con l'interiorità sconvolta di lui, gli altri avrebbero potuto imparare a convivere un po' meglio con la loro fragilità. Anche Dante si era analizzato in modo magistrale, per indurre il lettore a durare la tremenda fatica che costa il venire a capo di se stesso. E Goethe poi, che molto aveva riflettuto su Amleto, specchio della sua soggettività, si mise nei panni del poeta di Sorrento quando volle mettere in scena la sua dolorosa fuga dalla nevrosi. Quasi avesse captato la connessione Tasso-Amleto!

All'origine di Hamlet dobbiamo presupporre dunque uno o più personaggi letterari (dall'eroe di Saxo e del Belleforest al Torrismondo tassesco) e "quel" poeta vivo e vero che ha vissuto fino in fondo il suo speciale destino. In Hamlet confluiscono i costruiti tormenti tragici di Torrismondo e le non programmate angosce reali del Tasso. Il dramma inglese nasce dalla consapevolezza di una dualità che ora si impone come tema, smascherando la definitiva inconciliabilità di vita e teatro. Proprio nella denuncia dell'impossibile convergenza Hamlet risulterà ancora catartico: solo facendosi problematico, il teatro può ancora rappresentare la vita. La religiosità di Sofocle, l'orrore di Seneca, o di un Giraldi Cinzio, non bastano più. La nuova tragedia diventa un "giallo" dell'anima, un'indagine costretta a spingersi nei labirinti della soggettività moderna, così obliqua e ipocrita. E il rischio è quello di perdervisi. Una volta scoperte le proprie responsabilità, l'uomo antico sa, in modo definitivo. Edipo non ha dubbi, non torna indietro. Venire a sapere, per lui, significa espiare. Invece l'Edipo moderno non fa mai scoperte sicure, certe, oggettive. Si perde a metà strada tra l'intuizione della colpa (solo intravista, mai creduta vera fino in fondo) e la malafede dell'ignoranza. L'umanità, invecchiando, è sempre meno disposta a riconoscere la necessità di pagare per i suoi errori. I sensi di colpa di un uomo come il Tasso, di un personaggio come Amleto non sono fenomeni patologici di una mente malata. Esprimono la sofferenza di un'anima vigile, costretta a "vedere" verità paurosamente nascoste, che il mondo preferisce ignorare. Chiuso nella cella di Sant'Anna, il Tasso scopre che un artista disperatamente sincero resta sepolto vivo nella tomba delle sue consapevolezze. Nessuno vuole condividere nulla con lui. Morendogli addosso, quelle verità diventano bugiarde inconsistenze.

Shakespeare comprese che l'ansia di redenzione si era fatta nel Tasso frenesia. Quell'intelligenza superiore gliela avevano trasformata in demenza. Anche Amleto tenta di tradurre in messaggio positivo la "follia" che è costretto a recitare di fronte a chi dovrebbe capirlo. La saggezza diventa pazzia proprio per la resistenza che gli altri oppongono. I Tasso, gli Amleto non possono tirarsi indietro. Sono nati proprio per questo: per indurre gli altri a capire. Teatro e vita ormai sono un fallimento speculare. L'insinuarsi dell'uno nell'altra sta a ribadire quanto sia profonda la loro rispettiva inconsistenza. A teatro si va a deridere la cattiva imitazione della vita o a fingere di impegnarci in un tentativo di capire che lascia il tempo che trova. Oppure si va a dimenticare (ma per poco) il brutto fardello di un'esistenza senza riscatto. Mentre si vive neppure si sospetta che, recitando meglio la nostra parte, da commedianti più coraggiosi, potremmo introdurre nella stupida serietà quotidiana la dignità della menzogna teatrale. E così forse ci salveremmo.

Ciò che Tasso non realizzò nel puro dominio dell'arte lo chiamò ad essere tramite quella commistione di vita e poesia che fu sua caratteristica inconfondibile. Come poi anche Goethe, Shakespeare si servì di questa confusione per illuminare (e quindi diventare ancor più) se stesso. Ma noi italiani, sempre sfiduciati e pronti al lamento, non abbiamo saputo utilizzare il calvario del nostro poeta a scopo conoscitivo. Anche Leopardi, che sentì in lui un'anima fraterna, lo adoperò più per compiangersi che per conoscersi.

Shakespeare invece da uno come il Tasso si fece aiutare a identificare meglio il moderno Edipo rispetto all'antico. Da una parte abbiamo l'uomo effettivamente macchiatosi di parricidio e incesto. Dall'altra c'è chi, senza aver commesso nessun delitto, davanti al tribunale della coscienza sente di essere incestuoso e parricida. Tra questi due estremi si situano Torrismondo e il poeta che l'ha concepito. Se Sofocle e Shakespeare sono spariti completamente dietro i loro capolavori, il personaggio Tasso non scompare neppure nel suo Re Torrismondo. (Ecco uno dei motivi per cui, va detto, questa magnifica tragedia non può competere in grandezza oggettiva coi due testi capitali del teatro europeo). Ma Shakespeare comprese che la poesia e la vita del poeta italiano non andavano disgiunte. Bisognava fonderle insieme, se si voleva cogliere l'autentica lacerazione dell'uomo moderno. Il messaggio lanciato dal Tasso non sarebbe pervenuto tanto facilmente alla coscienza del pubblico. Per renderci familiare quel grido d'aiuto, Shakespeare ci ha fatto cogliere la vicenda nella sua complessa teatralità.

Edipo mostrava i rischi dell'irruenza istintuale a un popolo che era troppo giovane e impulsivo per non essere pericoloso a se stesso. Gli Ateniesi non dovevano dimenticare che la passionalità eccessiva li riconduceva dentro la preistoria, nell'orrore che il mondo greco aveva appena rimosso. Col Re Torrismondo il Tasso proponeva un aggiornamento dell'Edipo. Invecchiare non vuol dire diventar saggi. Impossibile che l'uomo attuale, tornando sui suoi passi e inciampando nelle sue verità riposte, decida di far luce sulle brutture da cui proviene. La civiltà, pur favorendo l'evoluzione, non ci libera dall'eredità del male; ci rende solo sempre più insinceri. L'originaria ferocia è rafforzata dalla tendenza collettiva a dimenticare. E la colpa nell'uomo non è qualcosa di vago o di generico: si chiama incesto, si chiama parricidio. Essa si indurisce a mano a mano che l'uomo, per liberarsi dei propri tormenti, non trova altra strada che quella di tuffarsi nella completa ignoranza di sé. (La scienza dovrebbe diventare il nostro riscatto; ma non è né disinteressata né innocente per diventarlo davvero). Il Tasso prende dunque l'Edipo greco, già colpevole eppure baldanzoso, sicuro, e lo ribalta nel nordico Torrismondo, corroso dal dubbio e dal rimorso. Non dobbiamo dimenticare che siamo nel secolo XVI. Probabilmente il Tasso (e noi italiani di lui non abbiamo capito nemmeno questo), volle rappresentare nella sua antica barbarie, non ancora superata nel '500, quell'uomo nordico per il quale Lutero aveva costruito il suo progetto di salvezza. Forse intendeva suggerirci che neppure per un'umanità più genuina della nostra, meno schiacciata dal peso della civiltà, sarebbe stato possibile sottrarsi al retaggio della colpa. Una volta entrati nella storia, il destino è segnato. Sofocle doveva insegnare ai Greci a prendere le distanze dalla bestialità non ancora sufficientemente rimossa. Il Tasso si sentiva investito del compito opposto: di fronte al consolidarsi della repressione degli istinti (che intuiva più feroce nel mondo protestante che non in quello cattolico), bisognava faticosamente richiamare l'attenzione sulla natura ormai irriconoscibile di un interno terrore. Il male è ora l'antica istintualità divenuta un veleno che agisce corrodendo da dentro. Il primitivo mondo in cui si muovono, smarriti, i personaggi del Re Torrismondo mette a fuoco un paradosso (che rivela quanto fosse profetica anche la mente di un genio italiano, meridionale come Giordano Bruno). Nel protagonista, la remota barbarie coabita con la perplessità tormentosa di una modernissima, cinquecentesca nevrosi. Mescolando le prospettive, bruciando le tappe della storia e i tempi del divenire, il Tasso probabilmente ha inteso illuminare, con un sorprendente corto circuito, il senso della nostra vicenda europea. Non c'è scampo per nessuno, in Europa: non per il nord protestante, non per il cattolico sud.

Assecondando la volontà di dimenticare ciò che siamo, ci consumeremo in pericolosi progetti di innocenza a tutti i costi, così caratteristici del "rivoluzionario" mondo moderno. Invece, poiché non potremo ritornare mai più innocenti, dovremmo aver chiara la natura della nostra colpevolezza. Ci sarebbe da scavare, scavare, fino alla fonte dell'inquinamento. Abbiamo bisogno di un sapere che ammetta la realtà del male. Ma la nostra coscienza non mira che a sbarazzarsi dei suoi spettri intollerabili. Tra tutti l'ospite più indesiderato, quello che più morde, da dentro, è il parricidio. Ecco la scoperta sensazionale fatta da Torquato Tasso (o meglio consolidatasi in lui) durante quel soggioro in Sant'Anna che fu anche un ininterrotto, devastante soggiorno nell'inferno dell'inconscio. Torrismondo si scopre incestuoso, ma non parricida. Dalla tragedia in cui ci viene proposto un aggiornamento dell'Edipo re è sparito il parricidio. O meglio: l'autore, consapevolmente, lo ha trasformato in un forte impulso suicida. La sparizione attesta non la scarsa importanza, bensì la profondità ormai insondabile da cui quella colpa ci aggredisce. Se il Tasso l'ha raggiunta è stato grazie al rovello della sua mirabile intelligenza, non perché l'impresa sia facile. Civilizzandosi, facendosi quindi meno trasparenti, anche i generosi come Torrismondo non riescono più a scrutare dentro di sé. La tenebra della coscienza, moltiplicando il tormento, impedirà alla morte di essere liberatrice. Divenuto un ignavo dantesco, l'uomo se ne va, senza scoprire né perché è vissuto, né perché muore torturandosi. Il Tasso ha eliminato il parricidio affinché, riandando intertestualmente all'Edipo Re, ricavassimo le dovute conclusioni. Compresa l'importanza della geniale sparizione, Kyd-Shakespeare (questo drammaturgo, diciamo così, a due teste) per prima cosa fa apparire il fantasma del padre, all'inizio di Hamlet. Il protagonista assiste al ritorno del contenuto più importante della rimozione. Così, di fronte al padre ucciso, Amleto, mentre si compiace esultando della sua veggenza («O my prophetic soul!»), non sa di essere rimasto anche lui irrimediabilmente intrappolato nei rimorsi assurdi di una colpa che non ha commesso.

Anche se si possono chiamare in causa altre fonti, diremo che questa apparizione è assai tassesca. Già si sapeva, prima ancora che fosse edita la biografia del Manso, che il Tasso parlava con gli spiriti. Il messaggero è dedicato alle conversazioni che il famoso genio tutelare ha col poeta, intrattenendolo sulle arcane verità sospese tra cielo e terra. (Come non pensare al memorabile, citatissimo: «Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia»?) Poteva Thomas Kyd, il traduttore de Il padre di famiglia, ignorare quest'altro celebre dialogo? Il Tasso, anticipando Kafka, aveva scoperto che dove finisce la soggettiva lotta psicologica col padre inizia la sconcertante avventura con Dio. Ostinandosi a parlare con gli spiriti, egli mostra di aver concentrato tutta la sua volontà e la forza del suo amore nell'attacamento verso i genitori. Da oltre la morte genitori e figli continuano a cercarsi, a interrogarsi. Shakespeare ha giustamente risolto e concretizzato le vaghe apparizioni tassesche nello spettro del padre. Così viene messa a fuoco la lotta che si combatte dentro di noi; una lotta il cui scopo e il cui senso ci sfuggono, perché essa è incomprensibilmente a favore e insieme contro di noi.

Una puntualizzazione importante. Sono in molti a sostenere che i Saggi di Montaigne, tradotti in inglese da John Florio, esercitassero un influsso determinante sugli elisabettiani. Specialmente sui drammaturghi; in particolare proprio sullo Shakespeare di Hamlet. Nell'Apologia di Raymond de Sebonde (Saggi, libro II, cap. XII) Montaigne scrive del Tasso: «Infiniti spiriti sono travolti dalla loro stessa forza e duttilità. Che salto ha fatto ora, per la propria concitazione e per il proprio fervore, un uomo tra i più penetranti, ingegnosi e conformi allo spirito di quell'antica e pura poesia che vi sia stato da lungo tempo tra i poeti italiani? Non lo deve egli a quella sua letale vivacità? A quella chiarezza che l'ha accecato? a quella precisa e tesa comprensione della ragione che gli ha fatto perdere la ragione? Alla curiosa e laboriosa indagine delle scienze che l'ha condotto alla stupidità? A quella rara attitudine agli esercizi dell'anima che l'ha ridotto senza esercizi e senza anima? Io provai ancor più dispetto che compassione vedendolo a Ferrara in uno stato così pietoso, sopravvivere a se stesso, disconoscere sé e le sue opere che, a sua insaputa e tuttavia sotto i suoi occhi, sono state date alle stampe scorrette e informi». Un brano come questo ci invita necessariamente a riflettere. Gli studiosi italiani si fanno in quattro per ribadire la profondità dell'influsso di Montaigne sui drammaturghi elisabettiani. Più o meno gli stessi critici non esitano a giudicare il Re Torrismondo «un dramma insieme decrepito e puerile», inferiore al più scadente dei prodotti elisabettiani. Ebbene, data l'importanza che il tema della follia simulata ha avuto per Shakespeare e per i suoi contemporanei, non possiamo fare a meno di notare una cosa. Esplorando l'altra faccia del nostro cervello (la faccia "lunatica"), quanto più coraggio ha avuto il Tasso del filosofo francese! Davanti allo spettacolo del poeta che in Sant'Anna spreca penosamente la sua intelligenza, Montaigne prova solo uno stupore indispettito. In quel caso, gl'inglesi lo avevano capito, intelligenza e spreco erano due facce della stessa medaglia. Il francese esprime la sua stizza con frigide antitesi e barocchi giochetti di parole. No, le cose non stanno come si ostinano a insegnarcele a scuola! Non fu la saggezza d'un francese, fu la "pazzia" d'un napoletano a illuminare la mente più geniale che l'Inghilterra abbia prodotto. Shakespeare, come Milton, Goethe, Rousseau, Byron, come cento altri geni di prima grandezza, era molto più fratello di Tasso che di Montaigne.

Consultando John Florio, converrebbe vedere come si presenta nella traduzione inglese del '500 il brano sopra citato dell'Apologia di Raymond de Sebonde. Anche solo leggendolo in una versione in italiano moderno (quella succitata di Fausta Garavini), il brano offre interessanti punti di contatto con le famose parole di Ofelia:

O, what a noble mind is here o'erthrown!
The courtier's, soldier's, scholar's, eye tongue, sword;
th'expectancy and rose of the fair state,
the glass of fashion and the mould of form,
th'observed of all observers – quite quite down,
and J...
now see that noble and most sovereign reason
like sweet bells jangled, out of tune and harsh;
that unmatched form and feature of blown youth
blasted with ecstasy! O woe is me
t'have seen what J have seen, see what J see!

Ofelia, la testimone più intimamente partecipe di quella follia, prova compassione di Amleto, ma non si può dire che si renda conto di ciò che succede dentro di lui. Invece Amleto penetra col suo acume la femminilità disarmata della fanciulla. Ofelia è in lui, è parte di lui: è la sua stessa debolezza. Infatti, là dove il principe resistendo cresce e si fortifica, lei cede al dolore, si lascia sopraffare. (Dal nome della donna è possibile ricavare, anagramma imperfetto, folia, che può farci pensare al francese folie, dal latino follis). Che Shakespeare abbia voluto affidare alla fragile Ofelia il compito di riecheggiare il poco penetrante necrologio dell'intelligenza del Tasso recitato da Montaigne?

Chissà quanto ci dispiacerebbe, a noi italiani, se un giorno dovessimo ammettere, definitivamente, che proprio un italiano, un meridionale, consentì al vecchio Edipo di trasformarsi in Amleto... Un napoletano l'archetipo del più celebre personaggio del teatro moderno! Quel Tasso-Amleto in cui perfino il più grande tra i drammaturghi non poté fare a meno, probabilmente, di riconoscere se stesso.




immesso in rete l'8 settembre 1997