Pagine di Maura Del Serra



 

 

BARBARA FIORELLINO
 
"La Fenice" di Maura Del Serra


 

 

        Ho avuto notizia di quest'opera di teatro su Juana Inés de la Cruz da un articolo di Dario Puccini apparso su "Il Messaggero" in data 2-10-1991, intitolato Una femminista in convento, articolo che però non diceva se fosse stata mai rappresentata; ho poi saputo dall'autrice che il lavoro è stato letto a Milano, nel teatro "I filodrammatici", da parte della compagnia "I Rabdomanti" il 14-2-1993, ma mai rappresentato. Baso le notizie che darò in questo capitolo esclusivamente sul testo, che cito qui come Del Serra 1991. [1]
        Completamente diverso da quello di Dacia Maraini,  [2] il lavoro di Maura Del Serra si presenta come una pièce in versi (endecasillabi e martelliani) basata sul dialogo, senza altre citazioni che i richiami impliciti, sparsi un po' dovunque nel testo, all'opera della poetessa messicana, e con personaggi più simbolici che reali. Sei di essi hanno un nome (oltre a Juana, il Viceré don Francisco, la viceregina doña Soledad, l'arcivescovo don Leyes, l'amica suor Teresa e il confessore don Segundo), che non coincide con quello reale degli omologhi storici ma ha di solito un evidente valore emblematico. Altri sono semplici ruoli: la madre superiora, i cortigiani,  [3] i prelati.
        Nel dialogo si esprime tutta la personalità di Juana Inés così come l'ha immaginata l'autrice: filosofa prima di ogni altra cosa, intellettuale che riflette sulla realtà e sulla conoscenza, anima che si interroga su se stessa, ma soprattutto figlia della sua terra e portatrice di problematiche moderne rispetto all'immobilità del contesto.
        Non molti i personaggi, pochi - solo tre - gli scenari. I due atti in cui è diviso il lavoro si possono suddividere a loro volta, rispettivamente, in due quadri  [4] e in tre, a seconda dell'ambientazione. I materiali narrativi si organizzano come segue:

  • atto I quadro I (pp. 17-32): stanza attigua alla cella di Suor Juana, con libri, carte, strumenti matematici e musicali, astrolabi ecc.; Suor Teresa chiama Juana per i Vespri e annuncia don Segundo, il confessore, che la ammonisce per i suoi interessi troppo vasti. Torna Teresa e Juana le racconta di sé.

  • atto I quadro II (pp. 32-60): a corte giungono echi di disordini sociali. Il Viceré riceve Juana per chiederle di scrivere un componimento per il compleanno della viceregina. Conversano a lungo; poi il viceré si allontana per parlare al popolo in rivolta. Juana ha un colloquio con la viceregina, che si accorge dal suo atteggiamento dei sentimenti amorosi che la protagonista nutre per lei. Si sentono dei colpi e si apprende che il viceré è morto negli scontri.

  • atto II quadro I (pp. 63-81): stessa sala del quadro precedente; ora è viceré l'arcivescovo. Riceve Juana dopo averla fatta attendere tre ore, la redarguisce per tutti i suoi scritti e per la Lettera a suor Filotea. Lei firma col suo sangue un voto di rinunzia a se stessa e alle sue opere lasciando stupito l'arcivescovo.

  • atto II quadro II (pp. 81-88): stessa stanza dell'inizio del I atto, ora vuota. La superiora informa don Segundo del fatto che Juana ha venduto tutti i libri e s'è ritirata in una capanna a fare penitenza.

  • atto II quadro III (pp. 88-91): Suor Juana è allo stremo. Muore; la capanna dove si trova va a fuoco, Suor Teresa e don Segundo ne trovano il corpo, rimasto intatto.

        Mario Luzi, nella nota introduttiva a Del Serra 1991, afferma:

La drammaturgia di Maura Del Serra è lineare come una dimostrazione: è affidata al processo di autocoscienza e alla progressiva lucidità dei suoi conflitti. Il dialogo le è sufficiente, i personaggi non sono mai più di due sulla scena, e l'"altro" è sempre solo la spalla o la sponda dell'unico vero attore, in questo caso Suor Juana: tutto è in lei e da lei.  [5]

        È, infatti, dal dialogo molto più che dall'intreccio che è possibile trarre gli elementi che interessano questo lavoro, alla ricerca dell'immagine di Juana de Asbaje presentata nel testo. Do quadro per quadro una breve analisi.
        Fin dalla prima battuta di Suor Juana compaiono le citazioni implicite e i riferimenti alle sue opere: la Risposta a Suor Filotea soprattutto. Poco dopo, a don Segundo che la rimprovera risponde in modo da evocare la Risposta, di nuovo, e il Sogno. Elementi biografici sono inseriti in modo accuratamente mediato, mai didattico, sotto forma di riflessione su se stessa da parte di Juana, al contrario degli elementi riguardanti la situazione storica, il cui inserimento risulta un po' meno spontaneo. L'argomento della discussione è la libertà di pensiero, contrapposta all'accettazione di una fede che non deve conoscere il dissenso. E nel successivo commento che di questo dialogo Juana fa con l'amica Teresa, per due volte chiama se stessa "segno di contraddizione", con un'espressione di Luca 2, 34 citata nalla Risposta che implica la stessa identificazione con la figura di Cristo, prima di citare, anche qui implicitamente, versi dal componimento OC 49  [6] che introducono l'immagine che dà il titolo, non inquadrabile in nessuna categoria, neanche in quelle apparentemente ovvie stabilite dall'appartenenza all'uno o all'altro sesso.
        Alla figura di Cristo fa riferimento anche l'immagine biblica del seme che, per dare frutto, deve morire, qui usata per sottolineare la mancanza di sintonia tra la protagonista e il suo tempo. Un elemento che rimanda alla modernità è presente in una frase che ricorda le tensioni della poesia contemporanea: "nell'unica certezza di quello che non voglio, /che non sono [...]".  [7]
        In quello che ho chiamato secondo quadro, all'inizio, alcuni cortigiani fanno in modo di darci altre informazioni sulla situazione politica e sociale; parlando poi col viceré criticano Suor Juana per il suo atteggiamento favorevole agli indios. Subito dopo inizia la conversazione di Juana con il viceré che appare raffinatissima, per tematiche e per estensione delle stesse; al rapporto tra i due personaggi è attribuito uno spessore umano e intellettuale notevole. Si tratta all'incirca dello stesso rapporto denso di calda stima che c'è fra i loro omologhi nel film di María Luisa Bemberg Yo, la peor de todas, presentato al Festival di Venezia nel 1990, ma la costruzione del dialogo è tanto più elaborata, frutto nell'opera di Maura Del Serra di una riflessione profonda su aspetti riguardanti, accanto a Juana de Asbaje e il suo tempo, anche noi e il nostro.
        Si parla di epistème e di rapporto con la realtà: "la scienza non è altro che un far fronte al mondo";  [8] e se, qui e oltre, sembra di sentire echi del conflitto d'epoche descritto nel Galileo di Brecht, subito li si stempera col correttivo dato dal fallimento dell'impresa di conoscenza tentata nel Sogno. Don Francisco dice addirittura, nel commentare i tempi, che

[...] appare
un lusso cieco pensare a se stessi,
teorizzare i rapporti fra pensiero e azione.  [9]

        Teoria e prassi, viene da pensare; problematiche che vanno ben al di là di quelle apparenti, come nel caso della colonia che è detta

Il grande crogiuolo
alchemico vivente di razze e di culture.  [10]

        Con terminologia anche qui dei giorni nostri e riferimento all'insieme di razze che popola un paese giovane soltanto di nome

[...] le sue membra, i meticci, gli indios, i mulatti,
sono antichi come la loro terra.  [11]

        Juana si pone lucidamente alla difesa dei rivoltosi, tanto da far parlare il viceré di "passione democratica".  [12] La Spagna, dice Juana, sta mandando funzionari incapaci.
        Probabilmente attribuire con tanta decisione sentimenti democratici e favorevoli a indios, meticci e mulatti a Juana de Asbaje, poetessa di corte, aristocratica per elezione se non per nascita (qui peraltro detta dai cortigiani "oscura / suora d'incerti natali"),  [13] è eccessivo nelle proporzioni politiche e nella lucidità storica descritte, ma nella pièce funziona benissimo a disegnare il personaggio voluto dall'autrice.
        Se la discussione sui problemi della colonia si apre a prospettive storiche molto ampie, quella sulla conoscenza è altrettanto interessante, portata avanti in modo da introdurre le tematiche della rivoluzione scientifica del Seicento:

Io non potevo, io non posso applicare
le teorie proibite e le scoperte esaltanti
di Keplero e Copernico, non posso
discutere di Erasmo e di Cartesio,
i cui libri con gran rischio e segreto
giungono dalla Francia: posso solo
sforzarmi di comprendere, di ordinare i gradini
delle scienze e delle arti in una scala più ampia,
più complessa, forse più tortuosa
di quella medievale, ma come quella ancora
diretta al Cielo [...].  (14)

        Quei libri giunti dalla Francia possono forse destare qualche perplessità, nella loro esattezza bibliografica; si sa che Sigüenza y Góngora, amico di Sor Juana, conosceva l'opera degli astronomi copernicani, ma non mi risulta che ci siano prove del fatto che lei abbia mai avuto accesso a questi testi, tranne che per il caso di Erasmo, citato da Sor Juana nel Neptuno alegórico.  [15] L'elenco serve probabilmente più ad allargare il discorso a prospettive più ampie, segnalando allo stesso tempo il limite della ricerca possibile alla protagonista. Alla traduttrice dei tre excerpta del Sogno interessa segnalare in cosa la ricerca verso la realtà di colei che in alcuni testi appare addirittura una empirista in nuce differisca, e in cosa somigli, a quella che ha portato alla nascita della scienza moderna.
        Il successivo dialogo, tra Juana e la viceregina, tratta prima del clero - diviso tra preti poveri che fanno da mediatori e alti prelati che aspettano gli eventi  [16] - e poi dell'amore che consuma Juana in segreto, e che lei spiega alla viceregina, in brani fitti di evocazioni di suoi testi, come una specie di prigionia tormentata della quale doña Soledad si scandalizza, ricordando i racconti sull'infanzia che Maura Del Serra trae dalla Risposta a Suor Filotea. È qui che Juana dice, con le parole di OC 48  [17] che evocano da vicino la traduzione di Paoli, di considerare il suo corpo "equidistante dai due sessi".  [18]
        L'atto II inizia con quello che ho chiamato quadro I, quasi completamente occupato da un lungo dialogo tra Juana e l'arcivescovo, che diventando viceré ha realizzato l'unione anche formale tra il potere religioso e quello temporale. Si tratta di un'unione che realmente si era verificata in Messico con il viceré precedente, Fray Payo, ma che evidentemente l'autrice sfrutta qui per il suo valore simbolico, al quale non è estraneo il fatto che il prelato si chiami don Leyes. La rivolta in cui è morto don Francisco è ormai sedata, ma a prezzo della repressione e dell'irrigidimento dei controlli a ogni livello.
        Don Leyes fa quello che deve fare un personaggio con quel nome: redarguisce Juana per portarla al rispetto delle regole. Cita più o meno esplicitamente vari testi: la Risposta, la loa che precede Il divino Narciso, i villancicos, il sonetto in cui dichiara la fede nell'esperienza OC 152  [19], la Lettera atenagorica, il tutto a ritmo incalzante e infarcito di citazioni tratte dai suoi scritti. Ciò che mette maggiormente in risalto è l'atteggiamento sconveniente nei confronti degli indios, individuato come principale tra i motivi di rimprovero, e il fatto di vedere il mondo come un problema.
        Anche Juana risponde con brani fittissimi di citazioni implicite, non solo dalle sue opere. Tra queste riconosco parole o tematiche che rimandano alla Leonor di Los empeños de una casa e del romance OC 2; poi, forse, si riprende il discorso sulla Fenice a partire da p. 79, quando Juana dice di essere fuori dal suo tempo. Alla fine firma col suo sangue, davanti al vescovo stupito, una dichiarazione di rinuncia alle sue opere e a se stessa che di fatto, si fa capire, la porrà sotto la giurisdizione divina direttamente, senza più mediatori.
        Il quadro seguente potrebbe essere detto di spiegazione o di raccordo. La superiora e il confessore commentano perplessi la scelta di Juana, definita ascetica, di vendere tutti i libri e gli strumenti che possedeva, dandone il ricavato in beneficienza e ritirandosi in un luogo isolato, in forza di una decisione nella quale la madre superiora dice di non saper distinguere l'umiltà dall'orgoglio. Il confessore appare preoccupato per il suo equilibrio psichico e vuole vederla; ottiene di accompagnare Suor Teresa, che deve portarle le provviste.
        Questa sezione è certo un falso storico, ma è funzionale a preparare lo sviluppo successivo; rispetto alla realtà documentale offre la possibilità di interpretare la scelta di Juana, oggetto dell'interesse di tanti critici e comunque misteriosa, come un supremo atto di libertà di se stessa invece che come una sottomissione. La stessa fragilità, la volontà di autodistruzione implicita in questa scelta sono in realtà, in questo contesto, atti di grande forza morale che rendono il personaggio emblematico nella sua coscienza profonda e dolorosa di non poter più esistere in un'epoca ostile.
        Ci si ricollega così a uno degli argomenti trattati all'inizio nel dialogo tra Juana e Teresa:

La tua testimonianza
avrà il futuro dei frutti più ricchi
dopo la morsa del gelo. "Se il seme
non muore, resta sterile": ricordi?  [20]

        Poi, l'ultima scena ci presenta il sofferto ultimo monologo di Juana, quarantatré versi di intenso lirismo i cui vocativi ("cara notte", "vita nuova" e "suprema ragione"), contrapposti all'io ("la mia notte solitaria", "ora che sono / su quella soglia che chiamano morte" e "sopra la mia ragione"), fanno parte di un asse oppositivo che si concretizza nel dolore dell'espiazione volontaria che Juana ha voluto per sé. La notte qui non sembra essere quella del Sogno, e nemmeno una noche oscura che possa portare a un incontro mistico con Dio, ma piuttosto riferirsi a un'esperienza di purificazione:

Ora so: dolore e amore,
mistero e intelligenza hanno lo stesso
rapporto, che ci sfida e ci misura [...].
Noi siamo segni che cercano segni,
ma nel segno che tutti li decifra
diveniamo preghiera, una preghiera in cammino [...].  [21]

        Juana muore invocando la vita eterna; la sua morte non fa che portare alle estreme conseguenze quella "teologia rovente di sussulti"  [22] che aveva spaventato la viceregina. Ora, Juana è investita da una luce bianca che si fa gradatamente più accesa e rossa, tramutandosi in incendio. Don Segundo e suor Teresa trovano il corpo di Juana intatto,

[...] come
trasfigurato in un sonno perfetto
in una assoluzione non umana.  [23]

Come un auto sacramental, il testo si chiude dando lode a Dio. E chiunque conosca il mito della Fenice può immaginare che quest'assoluzione sia dovuta alla presenza, in Juana e nella sua ricerca, di qualcosa di sacro e non umano, che trascende la normale misura del tempo, dato che la fenice

ya se vive, ya se muere,
ya se entierra, ya se nace;
la que hace de cuna y tumba
diptongo tan admirable
que la mece renacida
la que la guardó cadáver.  [24]

        Guardando più in generale il testo nel suo complesso, colpisce il rigore della costruzione, che utilizza come centrale il problema del conflitto tra Juana e il suo tempo, tra il tempo interiore e quello imposto dall'esterno. L'elaborazione dei materiali, scelti con accortezza sulla base di fonti di ottima qualità, è intensa e approfondita, fondata su una conoscenza dei contesti storici e culturali più ampia e sull'esperienza personale di traduttrice di parte del Sueño. L'interpretazione dei problemi sociali relativi agli indios e del significato, in questo contesto, dei villancicos mi sembra tratta, in maniera rimeditata, da Puccini 1967  [25], ed anche se gli esiti sono in qualche punto simili ai punti di vista molto meno complessi di Maraini 1980, è evidente che Maura Del Serra distingue bene tra le diverse etnie e che non fa la stessa confusione in materia di lingue. L'allestimento complessivo presenta una grande coerenza e un filo conduttore deciso.
        È chiarissimo nella pièce che Juana non può scrivere liberamente anche perché è una suora; la qualità dei suoi rapporti con la gerarchia ecclesiastica è analizzata con molta sensibilità, senza cadere alla tentazione facile - che pure gli elementi storici avrebbero autorizzato - di demonizzare o ridicolizzare i membri della chiesa che l'hanno ostacolata. D'altro canto, Juana ammette con Teresa che

[...] non è il nostro sposo celeste
ad impedirmi di crescere i frutti
della maternità spirituale
che mi ha concesso; non è il nostro Sposo
a farmi vivere come un ostaggio
della storia, contesa fra passato e futuro
e rinchiusa nella mia stessa mente [...].  [26]

        Il suo percorso umano è descritto come dolorosissimo e personale, mentre l'unica concessione a un'interpretazione in qualche modo femminista dei suoi problemi con la gerarchia - anche qui perfettamente possibile a partire dai dati storici - è la battuta di una dama, calcata su un passo della Lettera di Suor Filotea:

È un peccato
che tanto ingegno non sia temperato
dall'umiltà, gloria del nostro sesso
e del suo stato monacale [...].

        Trovo soprattutto apprezzabile, in questo lavoro, l'apertura verso problematiche di grande respiro, attribuite a un personaggio che comunque nel suo tempo presentava interessi intelletuali molto vasti e profondi, e che queste problematiche siano state rapportate a quelle della storia successiva; tutto ciò ponendo esplicitamente Juana Inés in una dimensione universale ed extratemporale sottolineata, oltre che dal finale, dalle parole del viceré don Francisco:

Da terra, e controsole, è vana impresa
seguire il condor nel suo volo - il condor
o la Fenice favolosa [...].

        Un'ultima parola merita lo stile. Non riesco a concordare con quanto dice Luzi nella prefazione sul fatto che Maura Del Serra non faccia troppe concessioni al barocco, anche se è vero che non eccede con le dosi. Dopo aver analizzato la sua traduzione del Sueño ne sento gli echi nella costruzione di molti versi. Basti qui un esempio.

gozosa mas suspensa			gioiosa ma stupita
suspensa pero ufana			stupita ma spavalda  [27]

        Sintatticamente il legame tra i tre aggettivi, in questo brano del Sueño, è dato per coppie, ponendone uno come termine medio. In un modo molto simile, in Del Serra 1991, a p. 47 si legge:

assurdo quanto ingiusto ed ingiusto quanto vile.

E questo non è l'unico caso. Le metafore di Juana de Asbaje vengono poi riprese in misura massiccia. Questo forse non fa della pièce un'opera barocca ma certo non relega il barocco a "qualche cerimonialità di linguaggio cortigiano".  [28] Il barocco a cui tende l'autrice non sembra essere quello della mera decorazione, ma quello interiore che deriva da una comprensione profonda della visione del mondo, dei meccanismi del pensiero, dell'uso stesso delle immagini; è per questo che riesce a darci un personaggio così rielaborato eppure così credibile. Cosa c'è, in fondo, di più barocco e di più fedele allo stile di Juana de la Cruz che presentare lei stessa attraverso il procedimento di un'iperbolica, estrema allegoria?


 

NOTE

1) M. DEL SERRA, La Fenice, Siracusa, Ed. dell'Ariete, 1991. [torna al testo]

2) D. MARAINI, Suor Juana, Torino, La Rosa, 1980. [torna al testo]

3) Due dei cortigiani hanno un nome nel testo ma non nell'elenco dei personaggi che lo precede; non per questo danno però l'impressione di essere maggiormente caratterizzati. [torna al testo]

4) Divisione non esplicita nel testo, ma utilizzata qui per dare un'idea della sua struttura. [torna al testo]

5) Del Serra 1991, p. 10. [torna al testo]

6) "Válgate Apollo por Hombre". [torna al testo]

7) Del Serra 1991, p. 31. [torna al testo]

8) Del Serra 1991, p. 39. [torna al testo]

9) Del Serra 1991, p. 42. [torna al testo]

10) Ibidem. [torna al testo]

11) Del Serra 1991, p. 45. [torna al testo]

12) Del Serra 1991, p. 46. [torna al testo]

13) Del Serra 1991, p. 36. [torna al testo]

14) Del Serra 1991, p. 50. [torna al testo]

15) Questa almeno è l'opinione di O. Paz. Cfr. Sor Juana Inés o las trampas de la fe, Barcelona, Sei Barral, 1995 (1982), p. 333. [torna al testo]

16) Maura Del Serra tratta con molta sensibilità le tematiche religiose; dal contesto, ho la sensazione che voglia evocare una distanza tra chiesa dei poveri e vertici la cui problematica continua nella teologia della liberazione e in altri movimenti simili fino ai giorni nostri. [torna al testo]

17) Señor: para responderos, qui commentato a p. 77. [torna al testo]

18) Del Serra 1991, p. 59. Il verso di Juana de Asbaje era Sin que a uno u atro se incline, in Paoli 1983: "dai due sessi equidistante", ed appare improbabile che sia Paoli che Del Serra siano arrivati autonomamente a una traduzione così poco calcata sull'originale. In più si ha l'impressione, dai vocaboli scelti nel richiamare i versi di Juana de Asbaje, che l'autrice abbia consultato le traduzioni di Paoli, le quali d'altro canto all'epoca erano le uniche esistenti in italiano. [torna al testo]

19) Verde embeleso della vida humana, esaminato a p. 37 per aspetti esclusivamente relativi alla traduzione di alcuni termini; qui interessa piuttosto perché sembra essere, nel suo finale che esprime la fede in ciò che si tocca, una dichiarazione di empirismo. [torna al testo]

20) Del Serra 1991, p. 31. [torna al testo]

21) Del Serra 1991, p. 89. [torna al testo]

22) Del Serra 1991, p. 80. [torna al testo]

23) Del Serra 1991, p. 91. [torna al testo]

24) OC 49 (¡Válgate Apolo por hombre!). [torna al testo]

25) D. PUCCINI, Sor Juana Inés de la Cruz. Studio d'una personalità del Barocco messicano, Roma 1967. [torna al testo]

26) Del Serra 1991, p. 31. [torna al testo]

27) "L'Albero", fasc. XXXIX, n. 73-74, 1985. [torna al testo]

28) Luzi in Del Serra 1991, p. 11. [torna al testo]

Roma, 1998