Pagine di Maura Del Serra


NUOVI CODICI ESPRESSIVI PER IL TEATRO DI DOMANI
("Hystrio", n. 4, 1996)

Il premio “La Camera Rossa” aperto ai drammaturghi impegnati nel rinnovamento del linguaggio, un incontro svoltosi a Roma per cercare di definire una semiologia della scena muovendo dall'analisi di un testo di Maura Del Serra su Nijnskij e dalle riflessioni di Alfio Petrini che ha coordinato la ricerca, infine il progetto di un Centro Nazionale di Drammaturgia “Teatro Totale”: tre fasi di un percorso che si propone di contribuire non soltanto in sede teorica all'avvento di una teatralità rinnovata.



     Una fra le tante cause che hanno indebolito il teatro è stata la sua ridotta capacità, nel confronto con le altre forme di spettacolo del secolo, di andare oltre i suoi modi espressivi tradizionali, per aggiornare ed arricchire il proprio linguaggio con l'apporto delle altre arti e delle moderne tecniche. Il teatro – salvo i contributi innovativi della ricerca e della sperimentazione, per la verità non sempre originali in assoluto e in ogni caso poco influenti su un insieme restío ad accoglierli – si è accontentato di essere convenzione teatrale, ripetizione non soltanto di una funzione predeterminata in rapporto con la società che cambiava, ma anche di codici espressivi secondo cui lo spazio scenico doveva essere e restare, per l'essenziale, la cassa di risonanza della parola recitata, soltanto accessoriamente sostenuta da una gestualità dell'attore anch'essa prefissata, e dai contributi iconici e sonori costituenti le simulazioni di palcoscenico.


     Arretratezza espressiva

     Il discorso sull'arretratezza espressiva dell'arte teatrale, sul sottoimpiego della potenzialità di un linguaggio scenico totale, è spesso e volentieri giustificato con l'affermazione che il teatro è per tanta parte affermazione e rispetto della tradizione, dunque ripetizione delle convenzioni ed archetipi che ne sarebbero la pressoché immutabile sostanza, per non dire la sua “anima nobile”. Con il che – fatte salve, si ripete, le “innovazioni trasgressive”, ancora così considerate dall'insieme del sistema teatrale, della sperimentazione – si vorrebbe sostenere che il genere teatrale è essenzialmente, se non interamente, un insieme di regole e abitudini consolidate da non rimuovere. Ed è appena il caso di aggiungere che in tal modo non soltanto si riducono gli orizzonti artistici del teatro, ma si pone in maniera anacronistica il problema del ricambio e dell'allargamento del pubblico, ormai abituato ad altri linguaggi mediatici.
     L'idea di far coincidere lo specifico teatrale con la regola della sua immobilità è oltre a tutto vistosamente inesatta. Tutta la storia del teatro sta ad indicare che la lingua della scena non è mai rimasta circoscritta, nei suoi periodi d'oro, alla sola questione della phonè dell'attore, ma ha cercato i contributi delle altre arti e l'impiego delle tecniche più svariate. Gli esempi di questa complessità della lingua del teatro si riferiscono a tutti i tempi in tutti i luoghi: la tragedia greca modellata sulla ritualità religiosa; le Sacre Rappresentazioni medievali che adottavano le forme della liturgia; i teatri del Rinascimento e dell'età barocca portati ai fasti scenografici; la Commedia dell'Arte tutta giocata sull'espressività gestuale; la fusione nel canto fra parola e musica del Sei e Settecento teatrali; la riforme della Compagnia di Saxe e di Wagner; i contributi innovativi di Antoine, Copeau, Craig, Artaud, Mejerhold e Stanislawvskij fino ai maestri della nuova scena della seconda metà del secolo, Strasberg e Beck, Grotowski e Kantor: tutte fasi di un perpetuo rinnovamento delle forme del teatro, in rapporto con la cultura e la società. Rivoluzione teatrale, dunque, o ritorno alle origini il discorso che qui, nelle pagine che seguono, si va facendo per un teatro totale, nel richiamo di due esperienze promosse dalla compagnia teatrale romana della Camera Rossa; il Premio di Drammaturgia Multicodice la cui prima edizione è stata promossa nel settembre '95 in collaborazione con “Hystrio”, e il convegno Il silenzio riempito tenutosi nel maggio scorso al Teatro dell'Angelo della capitale, come riflessione conseguente al Premio? Forse l'una e l'altra cosa; in ogni caso un rifiuto della “tradizione immobile”, la proposta di fare teatro, fin dal momento della elaborazione testuale, attingendo senza limitazioni precostituite a tutti i codici espressivi possibili, visivi, sonori, luminosi, ritmici, polidimensionali. Un teatro – ha detto Alfio Petrini, che di questa lingua “globale” del teatro è assertore appassionato – come luogo di transizioni e miscele eterogenee, che dal dire di una drammaturgia di parola (ma la parola nega le leggi fisiche perché il teatro è corpo, la parola recitata è corpo, la voce è un fatto materico…”) passa al fare, alla totalità di un'arte polisemica. Si è detto all'incontro di Roma, provocatoriamente, che l'invenzione di un teatro totale può essere fatta risalire all'età della pietra: quando l'uomo delle caverne, raccontando con parole a noi ignote una sua caccia al bisonte, “fece teatro”: e nel farlo incise sul muro della spelonca, davanti al branco umano attonito, la sagoma dell'animale ucciso: e rafforzò il suo racconto con l'azione mimica, con l'audio di un temporale nella vallata, con il video dei riverberi del fuoco. Era più di una boutade; reggeva il confronto con quell'altra secondo cui faceva teatro totale anche Samuel Beckett, quando immergeva il dialogo di Vladimiro e Estragone, sull'attesa ontologica di Godot, nei codici archetipici del teatro circense.
     Niente di nuovo sotto il sole, dunque, in un certo senso. Se il discorso sul teatro multicodice riemerge nel panorama della nuova drammaturgia è proprio in opposizione con un teatro di routine, la cui semiotica è andata restringendosi al testo recitato, con l'aggiunta di pochi elementi sussidiari.
     Di questa esigenza di puntare, al contrario, su un insieme che inglobi la totalità dei segni della scena, linguistici, gestuali, visivi, sonori, etc., amalgamati in un progetto espressivo unitario, si era discusso a Carpineto Romano presenti gli autori che avevano partecipato alla prima edizione del Premio di Drammaturgia Multicodice; e le indicazioni emerse erano state a tal punto interessanti ch'era stata sollecitata da parte della compagnia della Camera Rossa l'iniziativa di istituire, in collaborazione con la municipalità e altri enti locali, un vero e proprio laboratorio di scrittura scenica multicodice, come work in progress destinato in primis agli autori. Il progetto – mi si dice – avanza, ed ha già a Carpineto la sua sede predestinata; per il resto molto dipenderà, ovviamente, dall'impulso che in un sistema teatrale riformato si vorrà dare alla ricerca e alla sperimentazione. Più che mai chiamate, oggi, non a restare fuori o contro le vecchie forme di fare teatro, ma ad agire per perfusione sull'arte scenica nel suo insieme.
     Intanto, per andare oltre le enunciazioni teoriche, con l'incontro al romano Teatro dell'Angelo si è voluto organizzare la discussione intorno ad uno dei testi ch'era stato premiato nel settembre del '95 a Carpineto, successivamente pubblicato su questa rivista: Lo Spettro della Rosa di Maura Del Serra, docente, poetessa e saggista che in questi anni ha volto le sue attenzioni al teatro. Quest'opera, che evoca il genio e la follia del ballerino Waslaw Nijinskij, la cui fama resta legata alla mitica stagione dei Balletti Russi del primo Novecento, è impostata sul registro del monologo interiore, ma proiettato sulla scena con frequenti ricorsi alla multimedialità; con il che l'autrice è riuscita – come aveva rilevato la giuria – ad andare oltre la letterarietà della scrittura con suggestioni ed esiti di apprezzabile teatralità.
     Un testo siffatto è parso particolarmente adatto per esemplificare il discorso di un teatro multicodice. Per condurre, insieme, una sorta di “lezioni di anatomia” di comune utilità per l'autrice e per i fautori di un Teatro Totale. Le pagine che seguono – l'autoanalisi testuale della Del Serra, la relazione di ordine più generale di Alfio Petrini e una sintesi del successivo dibattito – danno conto, crediamo, di un incontro impegnato. E testimoniano di una volontà di ricerca che non a caso è stata possibile anche grazie al sostegno del comitato per le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche del C.N.R.


     Materializzare il testo poetico

     Nella sua densa relazione Maura Del Serra spiega come all'interno di un proprio personale “laboratorio drammaturgico”, senza contaminazioni o imitazioni sospette, semplicemente partendo dalle esigenze espressive insite nel tema, abbia rappresentato – ossia “materializzato” sulla scena – l'incarnarsi del corpo danzante di Nijinskij, del suo rapporto panico con la natura e del suo bisogno di assoluto. Oltre i confini di un assunto poetico ideato e costruito con la parola, l'intreccio di gesto, danza, musica e luci; le valenze simboliche degli oggetti, degli elementi scenografici, dei colori e dei suoni, la frammistione di dati biografici e intuizioni poetiche, il gioco di figure reali e di apparizioni fantastiche, il topos mistico della Rosa Bianca, pianta morta che rifiorisce: tutto concorre a costruire un linguaggio teatrale complesso e omogeneo. E pone particolari problemi di messinscena, soprattutto per ottenere l'amalgama di materiali così disparati, col sussidio di tecnologie appropriate.
     La “lezione di anatomia” così condotta nell'incontro al Teatro dell'Angelo non ha portato né doveva portare a conclusioni per così dire alternative. Essa ha fornito però motivi di riflessione e stimoli. Soprattutto, ha confermato che nuovo dev'essere l'approccio ai problemi relativi alla scrittura teatrale. Nel futuro, progettato laboratorio per il teatro multicodice, il discorso continuerà.
     Possiamo dare per acquisiti, nel frattempo, alcuni punti che potrebbero forse apparire ovvii se non fossero spesso dimenticati nella pratica teatrale. Il primo – è bene ribadirlo – è che la parola teatrale non è la phoné ma la risultante di un concorso di elementi, la gestualità in primis, ma con essa molti altri, che nell'insieme costituiscono la lingua parlata dell'attore sulla scena. La parola parlata in teatro è corpo: una componente fra le altre della semiotica teatrale. Un secondo punto è che, nel fare teatro oggi, occorre andare oltre una concezione ormai inerte, perciò superata, di un “teatro di parola” che in questa seconda metà del secolo è stato via via intrusione della letteratura sulla scena, alibi per gli interventi non sempre leciti della cosiddetta regia critica, strumento di affermazione mattatoriale dell'attore e via dicendo, ma che ha finito per contenere e limitare le possibilità espressive dell'arte drammatica e, di conseguenza, indebolire lo specifico teatrale nei confronti degli altri generi dello spettacolo.
     Un terzo punto consequenziale, è che la scrittura teatrale è chiamata a realizzare una sua rivoluzione copernicana, che tenga conto del mutato contesto – mutato nelle forme e nei contenuti, nelle funzioni culturali e sociali, nell'impiego della téchne – con cui, appunto, si fa teatro. Non più secondo il copione tradizionale consegnato al regista, agli attori e ai tecnici, il discorso delle dramatis personae appoggiato alle didascalie di una “scena mentale”, quella dell'autore che scrive, ma la ricerca, fin dal principio della creazione teatrale, di una espressività scenica totale.
     Un quarto punto: fare del Teatro Totale non significa, assolutamente, ricorrere all'uso gratutito, fine a se stesso, dei nuovi strumenti forniti dalla tecnologia elettronica, credere che sia sufficiente fare interagire l'attore con l'attrezzeria informatica o cose simili, inaugurando una sorta di “marinismo” tecnologico. Significa, invece, puntare verso una nuova espressività che osservi e mantenga, nessuno escluso, l'insieme dei codici teatrali offerti dalle risorse del nostro tempo, senza inutili nostalgie per forme canoniche del passato, senza altrettanto inutili feticismi per le tecnologie applicate alla scena. In un equilibrio delle varie e complesse componenti dell'evento teatrale, fra recupero di quanto è essenziale di una memoria del teatro e le proposte formulate attraverso la ricerca e la sperimentazione.
     Il discorso – sincrono a quello di una riforma del sistema teatrale – è appena avviato. Iniziative come il concorso per una drammaturgia totale della Camera Rossa, la “lezione di anatomia” sul testo intercodice della Del Serra di cui diamo conto e, stante la promessa del Comune di Carpineto Romano, l'avvio di un laboratorio per un teatro multicodice sono momenti, tappe iniziali di un processo di rinnovamento.

UGO RONFANI
(pp. 46-47)


 

 

DALL'IMAGO PASSIONIS DI NIJINSKIJ
ALLA RICERCA DELLA LINGUA DEL TEATRO



     Mai come nel nostro tempo – tanto disamorato di ideologie e confusamente assetato di valori, di mitologemi radicanti, di forme formanti la coscienza collettiva creaturale e civile, da sentirsi e pensarsi tragicamente come tempo della fine – il teatro ha avuto l'esigenza cogente di ritrovare una ratio e un logos conoscitivi ed operativi degni di una “casa di cittadini e creature” (come suona il verso finale di una mia poesia): di diventare non un ornamentale, manieristico e logorroico castello di maschere (ormai nude sì, ma di senso) bensì “un corpo attraverso cui passano le grandi storie dello spirito”, secondo la ben nota definizione di Camus: e quindi un luogo di materializzazione, di incarnazione e di crescita dell'anima nella scena della parola e del gesto, un corpo polifonico, policromo, polimaterico delle voci di dentro (cfr. il mio intervento Il corpo delle voci, nei “Quaderni del Battello Ebbro”, giugno 1993, e il complementare Scena e visione, in “Hystrio”, n. 2, 1993). Credo il teatro di poesia – che è il mio idioletto della splendida, plurima, agglutinante e senz'altro magica lingua teatrale – capace di fare fruttificare in tal senso il testo che l'autore (il poietés) ha a sua volta tradotto dal sottosuolo interiore e seminato nella pagina pensata e sentita more scaenico, facendone appunto, da mythos, logos, forma plastica (fondendo utopia e tradizione, come ho detto altrove).


     Cometa umana

     La mia intenzione inventiva, in tutti i miei lavori drammatici e particolarmente nello Spettro della Rosa, è stata quella di aprire una finestra euristica, di forgiare e proporre, secondo le mie forze e quelle del personaggio, uno strumento di mimesi e metessi conoscitiva della coscienza; uno strumento sempre imperfetto e sofferente della propria imperfezione, grondante di festa e di lutto, di luce e di sangue, di catartica innocenza ritrovata attraverso la lacerante esperienza; in una misura e con risultati che mi confesso non in grado di anatomizzare a parte objecti (sia pure al modo analogico delle elisabettiane anatomies of wit): perché l'opera, nascendo dal pensiero del cuore e riproducendo l'oggettività e ad un tempo l'illusorietà del mondo e della parola stessa, al modo in cui la veste riproduce il corpo, coincide, per il suo autore, con la danza medesima dell'anima, divenuta, come qui la figura sacrificale del “mio” Nijnskij, inconoscibile a sé ma splendente di senso, come è il mondo: figura, anche se imperfetta, dell'incarnazione, che annoda la verità al mistero.
     Nijnskij è un personaggio “eccessivo”, come tutti quelli dei miei testi teatrali, personaggi-emanazione del rapporto fra anima e storia; è – non solo storicamente e biograficamente – persona, figura del viaggio dell'anima quasi al suo stato puro, anche fisicamente: penso a quella purezza incantevole di anghelos (che è la stessa, ad esempio, dei visi adolescenti di Simone Weil o di Lorenzo Milani: visi assoluti, regali, alati) e che abbaglia sia nelle superstiti immagini sorridenti di Vaslav, sulla scena e fuori, sia nel suo struggente Diario (pur offertoci per ora mutilato, e solo recentemente reintegrato nella versione francese) che mi ha commossa di strazio e teneramente costretta, “con le ginocchia della mente inchine”, prima ad ascoltarlo con ricettività assoluta, medianica, e poi a chiedergli con muta trepidazione di consentirmi di tradurre nel mio ritmo interiore, senza tradirla, la sua presenza di cometa: di chiamarlo col suo vero nome. Ho adottato (ma meglio sarebbe dire sono stata adottata, al modo in cui Rimbaud diceva “on me pense”) per questa in-fusione una sorta di monologo corale, fortemente nutrito di scansioni ritmiche e di apparizioni sceniche (le ombre, le voci, i corpi fantasmatici proiettati dal “corpo sottile” della coscienza torturata di Nijinskij, che fu davvero una psiche, una farfalla (in lui, si può dire parafrasando Valéry, “l'âme est la danse”, e il danzatore è indistinguibile dalla danza, secondo il celebre verso di Yeats): una farfalla animata, posseduta dal soffio e dal dàimon della danza come giustificazione esistenziale e vita assoluta, impastata primordialmente di terra e cielo; e che perciò chiedeva, nella difficile “traduzione”, parole che fossero quasi omericamente “alate”, e insieme forti, plasmate, coi “piedi saldi a terra”, scandite su un'alchimia metrico-ritmica interiore che fosse inscindibilmente sua e mia, e che mirasse a ricomporre il tragico rovescio mondano della parabola di Nijinskij étoile europea (il caos apparente della passione, della guerra, della dissoluzione schizofrenica) in un agonico ma coerente diritto, in una parabola, appunto, di cometa, di spersonalizzante, “femminile” e misteriosamente salvifico annullamento dell'io (quell'io-altro di cui tanto si è nutrita, e ammalata, l'arte occidentale): fino al ricongiungimento oblativo col divino universale, sentito nella travolgente pienezza della vita cosmica, nel flusso tragicamente gioioso e incomunicabile (in-fantile) di una danza ormai negata al corpo esiliato, separato, recluso, al dieu de la danse divenuto – per la moglie, per la figlia, per Diaghilev, per i medici e il mondo – una creatura inerme, aliena, perdente e perduta.


     Apollo e Dioniso

     Per esprimere la natura cruciforme del personaggio e il suo cruciato tendersi fra alto e basso, fra desiderio fisico e bisogno spirituale, fra élan dionisiaco del corpo e geometria apollinea dell'anima (un tendersi che la danza formalizza da sempre in figure simboliche non verbali, etimologicamente alogiche) per captare questo molto russo, dostojewskiano e pasternakiano (e di Pasternak sono assimilati al testo dei versi) sogno di verità e di grazia, di apocalittico ed apocatastatico bianco, che la violenza e il dolore del mondo, interiorizzati, rifanno sventura, pesantezza, ananke (rosso e nero): ho appunto usato scenicamente i registri simbolici della cromia alchemica, interagenti col simbolismo esplicito e drammatico delle ombre e delle posizioni del corpo, tutti mimanti il linguaggio “transmentale” del viaggio estremo in ciò che viene etichettato come pazzia (e negli stessi anni '10 dei Balletti Russi e delle avanguardie europee, Aleksej Kruèenych elaborava appunto il suo linguaggio mistico-futurista “zaum”). Ho cercato di comunicare in quel modo come il tentativo del soggetto-persona Nijinskij, quello di dire l'indicibile, di noter l'inexprimable, diventi dolorosamente e gioiosamente (come in ogni amore) un essere l'indicibile, essere il docile object trouvé di un'arte sconosciuta; e sono ricorsa, com'è naturale in un teatro di poesia, agli oggetti-segni, ai correlativi oggetti simbolici, fra cui in primis la rosa bianca (topos mistico occidentale e dantesco, così come l'offerta del cuore che chiude l'opera) che, nel tempo ritrovato dell'epifania finale, rifiorisce dalla pianta secca sul davanzale (sulla soglia della coscienza: e l'immagine è anche un omaggio al film testamentario di Tarkowskij, Sacrificio: dal regista-poeta russo molto a me caro, che ha espresso con grande efficacia simbolica l'esigenza di un nostos catartico degli uomini verso la bellezza come verità, prendeva spunto anche il soggetto del mio Andrej Rubljòv).
     Questa vocazione testimoniale ha comportato per molti artisti occidentali “assoluti” (fra cui Nijinskij) appunto il sacrificio dell'io, del corpo mentale, e la scoperta, insieme straziante e liberatoria, del legame che la bellezza, nella sua sostanza di verità vissuta, ha col dolore e la morte, ma anche con la suprema leggerezza interiore, con la suma desnudez di San Juan de la Cruz e, appunto, delle icone di Rubljòv (leggerezza raggiunta col sacrificio della conoscenza dialettica anche da un'altra mia eroina, la barocca Juana Inés de la Cruz, che realizza carnalmente il suo nomen-omen di “Fenice”): l'ilare, raggiunta semplicità francescana e taoista che traspare dalle poesie di Hölderlin recluso nella torre sul Neckar e firmate Scardanelli, ovvero quello che Camus chiamava l'essere “solitaire et solidaire”, e che qui Nijinskij esprime inizialmente dichiarandosi “solo e semplice”, obbediente alla sua legge deietta ed eletta di spoliazione, di autodistruzione dell'identità, che lo apre ad una circolarità interiore assoluta, rendendolo musilianamente “uomo senza qualità”, o, come dice Rumi, “capace di tutte le forme” del cuore e dell'anima, di tutti gli stati: figlio, padre, fratello, marito, moglie, madre, pianta, Dio, oggetto. Nijinskij è dunque la figura mistico-dostojewskiana del puro che, al contatto lacerante con l'orrore del momdo, diventa “puro folle” e segno di contraddizione (è ancora, in fondo, la sorte riservata sotto tutti i cieli all'artista, al poeta “totale”, non integrato, che non possa, non sappia o non voglia tradire, “mediare”, vendere, rendere virtuale la sua martyría: pensiamo rapidamente, sincronicamente, ancora a Hölderlin, e poi a Campana, a Celan, a Simone Weil, alla Cvetaeva e ad Esenin, a Pasolini, ad Artaud...).
     Questo ossimoro vivente, questo excessus del camminare “lungo una spada”, come diceva di sé Rebora, ho cercato di restituirlo appunto attraverso quella che mi è apparsa – in senso letterale, visivo – l'unica soluzione espressiva possibile, ossia una calibratura paziente dell'ascolto, una traduzione dell'estremo in un medio (un medium) che lo contenesse e lo “mixasse” in un ne quid nimis semantico lavorato a fondo in ogni tessera, in ogni respiro sintattico e fonico (è un testo endopoetico, costruito, come ho detto, su misure e flussi ritmico-versali evidenti). L'interazione degli altri “codici” ad analoga funzione (poesie, brani musicali, disegni, pittura, simbolismo gestuale, cromatico ed alchemico) non ha senso di collage citazionistico, bensì di cospirazione enarmonica, organica alla metafisica creaturale che il testo esprime (e che credo connaturata al teatro, in quanto grembo di incarnazioni-apparizioni, di archetipi del destino umano, solo in superficie mutanti col mutare delle forme storico-culturali).
     È questo il testo in cui meno ho sentito di aver “preso la parola” e quello da cui più mi sento filiata, presa dalla parola-presenza del suo protagonista (che avvertivo, letteralmente e con grande forza, dietro le spalle mentre scrivevo), come lui fu preso e lasciato dalla sua danza, prima visibile e poi invisibile, tradotta dal silenzio e ritradotta nel silenzio, che è giunta a contenere, nel suo giro vertiginoso, tutti i colori dell'anima, fusi in quello che Simone Weil chiamava “il patto originario fra lo spirito e il mondo”: del quale qui, insieme, già mettiamo in scena, in pectore, le tracce e i segni.

MAURA DEL SERRA
(pp. 48-49)


 

 

IL PENSIERO DEL CORPO:
TROVARE IL TEATRO NELLA SUA TOTALITÀ



     1. Il regime ha ucciso la cultura, la cultura ha ucciso la parola. La necessità di ridare vita alla parola/voce si associa alla consapevolezza che le parole vive, rimbalzando contro il muro di gomma delle parole morte diventino mute. Mentre sento la fatica che fanno le parole “a risalire a tutta la pagina / a tutte le righe / alle cose intorno a cui erano preventivate”, non ho visioni, ma fantasmi. Il movimento del desiderio e il movimento del pensiero sono in profondo contrasto sotto la pressione dele ombre sghignazzanti del dirigismo istituzionale pubblico. Ombre che lasciano tracce dure a morire. Ne traggo grande ispirazione e penso che c'è ancora molto da fare, tutti assieme, per realizzare il sogno di una grande civiltà delle idee: l'unico progetto capace di contenere in sé, come l'atto della creazione, l'eterogeneo e il contraddittorio di lingue, linguaggi e culture diverse. La parola “globale” prospera sul versante economico. Coincide con il “mercato globale” ed è tollerante verso lavoratori di tutte le razze soltanto perché implica lo sfruttamento. Sul versante della produzione culturale la tolleranza è paradossalmente minore e la categoria della “totalità” cede il passo al “sequestro”, alla dipendenza secolare della cultura dalla politica.


     Sulla vecchia scena

     2. Per i letterati il teatro è il luogo dove un gruppo di attori declama un testo in modo da renderlo comprensibile, mettendo in risalto il valore della parola. La parola come ideologia. Per lo spettatore sulla linea dell'uomo medio e del pensiero debole è un'occasione di svago. Per lo spettatore colto è la rappresentazione di un classico, perché classico è bello, fa cultura, a prescindere dalla qualità della realizzazione. Per l'attore medio è prima di tutto “se stesso”. Per lo scenografo è la plasticità dell'impianto scenico al servizio del progetto di regia, dato il complesso che ha nei confronti del regista. Per il costumista è il decoro dei costumi che appaga lo sguardo. Per il musicista sono le atmosfere o gli stacchi che accompagnano gli stati d'animo dei personaggi. E per il regista? Per i “metteurs en scène” nazionali il teatro è un testo, un produttore, ventotto giorni di prove, un cocktail di attori convocati alla prima riunione di compagnia per leggere “senza intonazioni” e ascoltare il verbo della loro “messa in scena”. La répétition per cercare “il modo più giusto” di dire quelle benedette-maledette parole dattiloscritte. La répétition per “fissare le battute” e per “fare la memoria”, con inesorabile perdita di senso. Finalmente “si va in piedi”, si “fanno i movimenti”. Le sedie si spostano, le sigarette si accendono e si spengono, le camminate s'intrecciano sulla scena, le braccia tagliano l'aria fritta dalle parole messe in forma di dialogo. A dritta sgorga il lamento supplice dell'attore “se stesso”, che non sa dove mettere le mani, dove entrare, cosa fare; e dice intanto le sue battute. A manca, il nostro metteur en scène suggerisce “più dolce, più caldo, più freddo, più ironico, soffiato, timbrato... chiediti come si recita una commedia grottesca e troverai la soluzione”. Una mazzata per l'attore “se stesso”. Già, come si recita una commedia grottesca? Lo sgomento aumenta, il corpo si irrigidice ancora di più, l'anima – già latitante – abbandona definitivamente il corpo dell'attore, che piega il capo sulla scrittura nemica. Al venticinquesimo giorno accade il miracolo. Arrivano le scenografie, i costumi, l'attrezzeria: una bella luce, un tocco di trucco, una musichetta d'atmosfera e lo spettacolo è pronto per essere consumato. Il regista è contento, il produttore è contento, il primo attore e la prima attrice se la cavano con il talento personale. Del pubblico non si hanno per ora notizie. Solo l'attore “se stesso”, dietro la maschera di un vago compiacimento, trascina verso casa una tragedia personale; non ha ancora scoperto come si recita una commedia grottesca, e spera che qualcuno glielo spieghi alla prossima scrittura. E per il critico, cos'è il teatro? Una noia travolgente, dice. Salvo alcune eccezioni, aggiunge con sorriso bonario. Andare a teatro è, dunque, una sorta di condanna, un cerimoniale funebre col morto imbalsamato? Per il drammaturgo il teatro è ispirazione e abilità nell'inventare dialoghi in rapporto alla psicologia dei personaggi. Per i poeti-drammaturghi è la stessa cosa, con la differenza che i dialoghi li scrivono usando la parola poetica, convinti che la poesia del teatro scaturisca dallo scrivere il teatro in poesia. Nel riconfermare con ciò l'immeritato privilegio della parola ad essere unica ed esclusiva produttrice di linguaggio, i poeti producono a volte testi che, alla prova del palcoscenico, risultano tra i meno poetici che si possano immaginare. Un equivoco che non sposta di una virgola il problema: l'opera resta nel recinto ben noto della realtà doppiata e comunica attraverso il linguaggio figurato. Non tutto lo scenario teatrale si presenta così, ma il paradosso rivela sempre un pezzo di verità.

     3. “Cos'è il teatro?”, chede il discepolo all'eremita. “Una fontana”. “Perché una fontana?”. “Se non ti va non è una fontana”, conclude l'eremita, insegnando al giovane che niente e nessuno può mai risolvere simili enigmi. Dalla parabola parafrasata emerge questo significato: la ritrattazione deve restare possibile e il rilancio sempre ammesso: “la domanda non resta senza risposta, ma, siccome la risposta non la risolve mai, regna l'eterno tornare da capo” (G. Banu). “Tornare da capo” vuol dire ridefinire e rilanciare “l'arte del teatro totale” (Wagner), quella tradizione – ora immobile – in cui Eschilo e Sofocle appaiono più interessanti di Euripide.

     4. Lo Spettro della Rosa è, per noi, l'ambito di riferimento. Si muove nella direzione del “teatro totale”. Quattro i protagonisti: le ombre, Nijinskij, il pubblico e l'Ombra. Il corpo è lo spazio scenico del dramma. Il corpo è il centro e il centro del corpo è il cuore. Un cuore che passa da un corpo ad un altro corpo ed evidenzia il passaggio da un corpo muto ad un corpo vivo. È una delle fabule possibili: quella che scelgo per sviluppare un ragionamento sulla cultura duale, sul teatro totale, sull'arte dimenticata dell'attore.

     5. Sulla prima questione torna alla mente il prologo di un libro di Franco Rella, illuminante: “non ci sono due vie – attacca la prima voce – o almeno quello che ci porta nell'apparenza del non vero genera comportamenti ingannevoli su cui si fonda un ethos che porta all'oscuro. Questa non-luce deve essere combattuta e vinta, o perlomeno dobbiamo illuminare l'opaco della sua non-verità con la luce della verità”. (È su questo presupposto filosofico che si è sviluppata la metafisica della luce e la civiltà delle ideologie. Attraverso la cultura nazionale ed europea. Negano, di fatto, la congiunzione di valori eterogenei e contraddittori, e il mistero della vita). La seconda voce risponde: “Ma se l'uomo di luce combatte e vince l'uomo dell'ombra, allora egli non è l'uomo, è solo una parte di esso. Perché l'uomo è colui che sta tra la luce e la tenebra, tra la vita e la morte: è una soglia; il suo luogo è assurdo, desituato e insituabile, anche in riferimento alla verità. E l'orrore non sta nell'essere senza domicilio, ma piuttosto nell'essere costretto in un luogo, in un domicilio”. (È ciò che capita a Nijinskij). “Sono fantasmi – ribatte la prima voce – quelli che lei solleva. Quella parte oscura che vuole sollevare contro la verità, non conta un niente”. “Piuttosto che famtasmi – conclude la seconda voce – sono quelle visioni che l'uomo scorge nella sua luce interiore. Se lei considera questa parte dell'uomo niente, è costretto a considerare la generazione dei mortali uguali a zero, uguali a niente”.


     Un amore bianco

     Dunque i poli costitutivi della cultura umana sono due, e abbiamo bisogno di entrambi per raggiungere quella che è stata chiamata sapienza. Abbiamo bisogno della contesa e dell'unità dei due poli. Abbiamo bisogno del luogo dove s'incontrano carichi di tensione, dove coesistono senza annullarsi reciprocamente. Abbiamo bisogno del luogo dove le cose conservano la differenza, dove la verità si mostra in un rapporto teso come non-verità, luogo della bellezza, luogo della bellezza come soglia, perché “Dio ci ha dato solo enigmi” (Dostoevskij), “perché l'amore è concordia di esseri discordi, che mantengono discordia e differenza in quanto nell'amore non c'è dominio” (Weil). Come nel testo: “Non c'è lamento nella completezza. Non c'è separazione nel giardino”. Le cose devono diventare, devo venire ad essere nella contesa, e soltanto lì può emergere la differenza, soltanto lì può nascere la creazione artistica. “Il mio amore è bianco – aggiunge Nijinskij, – non è rosso”. È bianco come la forza della crazione. È il bianco della abdicazione e della decreazione di Dio, che si è ritirato dal mondo che ha creato. Non è rosso come “l'immagine sfigurante” della decreazione, rappresentata dalle forze della distruzione e della guerra. Il sogno di Nijinskij è diverso dal sogno dei potenti: volendo conquistare il mondo, si allontana dalla realtà in modo irrimediabile. Essi preferiscono il sogno alla realtà, Nijinskij desidera invece la realtà del sogno. La soglia è lo spazio dove sono “compresi mutamento, passaggio, maree, significato” (Benjamin). Hölderlin ci ha rivelato la cesura nel linguaggio dei tragici, Benjamin l'ha riscoperta nei luoghi parigini “in cui non si può sostare più di un istante”. Proprio in quell'istante si pongono come soglia, perché le immagini del presente e del passato trovano una loro unità prefigurando le future configurazioni. “Rapporti / cose intere o non intere / qualcosa di unito e di diviso / intonato e stonato: / da tutte le cose Uno / e da uno tutte le cose”: un frammento eracliteo, da cui Marcovich estrae quattro questioni fondamentali. Primo, il mondo è fatto di valori opposti e contrari, e di ogni coppia se ne “può fare una unità”. Secondo, questo presupposto è “la ragione della sottostante unità (metafisica) di questo ordinamento del mondo”. Terzo, “la più importante ragione della unità degli opposti consiste in una costante tensione o conflitto; quattro, i limiti dell'anima mai potranno essere raggiunti, da nessuna parte, sulla superfice della terra, perché la sua misura è nascosta nella profondità del corpo umano, cioè del sangue”.

     6. Il rinnovamento del teatro sta appeso all'orizzonte dell'uomo di Marcovich. “Teatro totale”, dunque, come riferimento drammaturgico ad un sistema di segni; come lavoro multicodice e intercodice di scrittura scenica, che non esclude l'utilizzo delle nuove tecnologie, a condizione che siano in-scritte in funzione espressiva; come tabularità del testo e non come sommatoria di segni; come congiunzione di atti materiali e immateriali; come compresenza di linguaggi logico/discorsivi e di linguaggi estensivi. Due i passaggi fondamentali: il passaggio dalla “realtà doppiata” alla “realtà creata”; il passaggio dalla scrittura alla in-scrittura, in quanto “i linguaggi non lineari, geroglifici, vanno predisposti nella fase augurale e preparatoria, così da svolgere un compito orientativo sul come autentico della teatralità. Contengono segni, arcani, metafore, immagini in attesa di fisicizzarsi nelle coordinate del tempo e del movimento”. (F. Bartoli). Non si tratta, scrivendo i dialoghi, di affidare “il resto al regista”, perché il lavoro multicodice e intercodice va pensato prima, previsto al momento della tessitura drammaturgica. Così, drammaturgia e regia s'illuminano a vicenda.

     7. Se è vero che l'uomo è misura di ogni cosa, mutamento e trasformazione, luogo dove transita “il materiale” e “l'immateriale”, anche il silenzio riempito è valore intrinseco al “teatro totale”. Il sielnzio riempito non è il silenzio figurato. Significa vedere le cose in modo rovesciato, teatro “doppio” della vita, dramma e passione sempre ri-cominciata. Silenzio riempito non è neppure silenzio muto. Muto significa messo a morto, trovarsi in stato di agonia. Con il valore di attesa, enigma, cifra nascosta dietro la corazza del segno, diventa “vuoto attivo”, cioè riempito, predisposto alla creazione artistica. “Il silenzio secondo Chevaler – è un preludio che apre alla rivelazione, il mutismo ne segna invece l'arresto... Uno avvolge i grandi avvenimenti, dà grandezza e maestosità alle cose; l'altro le copre di disprezzo e degradazione”.


     Realtà animalesche

     8. Le differenze tra “teatro totale” e “teatro di parola” sono evidenti e reali. Esistono e sarebbe bene che vivessero nei luoghi istituzionali dell'eterogeneo e del contraddittorio. In attesa che si realizzi questo spazio di libertà, tornando da capo, metto in discussione il monocentrismo della parola, come premessa per un possibile rinnovamento del teatro e per l'accensione di un arcobaleno culturale. Gli spettacoli che spiegano tutto, che si dispiegano attraverso forme psicologiche o mimetiche sono insopportabili. E sono d'accordo con Nijinskij/Del Serra: “Basta col falso sublime romantico” – riferito alla danza, ma anche al teatro, credo. “Basta con quella grazia morbida e sdolcinata... Il Novecento chiede un'altra forma: linee dritte, angolose, cadenzate; pause scandite; piedi saldi a terra. Geometrie del caos, linguaggio dell'energia. Prima di Apollo, prima di Dioniso; prima di Orfeo, del canto, della grazia. Un viaggio dall'alto nel profondo, ai primordi”. Sì, abbiamo bisogno di “fauni sconvenienti, dai vili movimenti di bestialità erotica e dai gesti di pesante impudicizia”. Abbiamo bisogno di “realta animalesche”, contro parole/voci sequenziali, compiaciute del proprio segno ideologico. Abbiamo bisogno di riaprire il dibattito, anche sul teatro come fine e teatro come mezzo. Abbiamo bisogno di drammaturgie che – all'interno di un sistema di segni –, martorizzino la parola/corpo a colpi di martello, come a “colpi di mazza” Van Gogh costruiva la pittura.
     La parola può essere accettata a condizione che venga messa alla gogna; presa a colpi di martello, fino a violarne l'armatura; usata per rivelare gli aspetti più belli e più terribili della vita, fin dentro i meandri dell'indicibile – senza forma e senza limite, producendo di certo effetti critico/propositivi più efficaci rispetto alle tesi enunciate dal teatro razionalistico edificante. La realtà ricreata è un fatto che va riconquistato contro la pretesa della parola di doppiare la realtà. È opinione diffusa che il “linguaggio della parola sia il linguaggio più alto”, se non addirittura l'unico. Questa cultura è falsa e corrompente. “La parola si è calcificata, i singoli tempi si sono congelati, insaccati nel loro significato in una terminologia schematica e ristretta” (U. Artioli), e i linguaggi che ne conseguono non fanno altro che descrivere sentimenti, fatti o psicologie. La parola trattiene, delimita ed esaurisce il pensiero, lo strangola. Diventa padrona assoluta del palcoscenico, costringendo attore e regista a trovare solo il modo di dirla, prigionieri del “valore di definizione”, traduttori involontari di un linguaggio in un altro linguaggio.
     Il problema del fare teatro non può essere soltanto un problema di parola immersa nelle culture razionalistica e materialistica. Il linguaggio di superficie mette insieme valori opposti e contrari per separarli superarli nella prospettiva edificante della metafisica della luce. Nascosta la falsa sostanza sotto una veste apparentemente “vera”, perché – come afferma Florenskij – “non è pensata con il suo contrario”.
     Lo “stato di arresto” di cui parla Benjamin si riferisce appunto ad una dialettica che deve manifestare le differenze senza risolverle. L'arresto della dialettica e la inconciliabilità dei contraddittori sono intuizioni straordinarie, a cui la cultura teatrale non può rinunciare, se non con effetti mutilanti. La parola/voce che racconta passioni e sentimenti, non diffonde il profumo della poesia. Conta la posizione poetica nella realtà. E contano i valori intrinsechi, cifrati, velati, perché solo il linguaggio della poesia attraversa il tempo e parla al cuore degli uomini. I limiti della “promozione” a favore del “teatro di parola” non risiedono negli elementi costitutivi della “promozione” stessa – che rimane lodevole –, risiedono piuttosto nell'errore dei presupposti culturali e metodologici.

     9. Il testo di riferimento, Lo Spettro della Rosa, richiama molte questioni di quel “tornare da capo”, rappresentando una drammaturgia importante, anche se non perfetta, nella prospettiva del “teatro totale”. È un continuum torrenziale di segni linguistici ed extralinguistici. Un insieme di corpi testuali diversi – logico/discorsivi, spaziali, materici, luminosi, visivi –, tutti capaci di produrre linguaggi –, che trovano un punto di ancoraggio della diversità di segni, spazio geometrico di strutture con funzioni di mediazione, corpo senza organi generatore di un linguaggio unitario che non può essere disintegrato in segmenti di dialogo. Il passaggio continuo dalla parola parlata alla parola fisica non è solo, a volte, segnale di spossessamento del corpo. È cesura, soglia. La parola fisica si scioglie in quella parlata, facendo trasudare il nero esistenziale del tempo passato – figurato e distanziato in ombre –, e portando in primo piano il processo rigeneratore del tempo presente –, che sradicato dalla realtà, mostra una realtà addizionata. Le ombre che svolazzano nella scena/corpo del protagonista sono come i corvi sui campi di grano di van Gogh: punti neri, buchi, fiori, semi di una rosa “divorata dai bruchi”, capaci di generare una nuova rosa, cioè una nuova vita, che “rivive e rifiorisce e non si sa come”.
     Una drammaturgia al limite della drammaturgia. In-scrive i segni nel corpo del protagonista per rifare la creazione. Non è un conflitto di sentimenti. È allucinazione e sgomento. È “un vortice di polvere in un raggio di luce”. È la danza di un uomo/uccello; è la danza di una farfalla che ha “sulle ali la polvere di tutti i vostri sogni”. È la trasformazione di un solido che si dissolve nell'aria lasciando tracce che resistono più che possono. È il soffio ardente della “luce rossastra” simile alla lava ribollente di un cratere: “Giù, dentro il ritmo obbediente della terra, dentro le sue vene magnetiche... Tutto è battito, ritmo, volo di desiderio. Ogni cosa per poter esistere, danza”. E danzando, di nuovo vola, salta, rimbalza in aria, cercando quel filo celeste – irraggiungibile –, che Nijinskij sentiva “formarsi nella spina dorsale” quando entrava in scena. Un filo celeste di cose indicibili, impalpabili, eppure vere. Un filo celeste che sta “dietro la musica, le figure, i colori”. Un silenzio riempito: “quando mi fermo sull'ultima nota, sento vivere ancora come traccia”. E sulla “luce che cala”, il turbine scompare, mentre il protagonista ricade “nella carne, in mille pezzi”. Di Vaslav Nijinskij (il diverso, l'ambiguo, l'opposto, il folle, colui che ama sua moglie e suo marito, che non avrà mai un figlio perché non è mai stato suo figlio...), vale la cesura finale. Al massimo della sofferenza umana, offre il suo “cuore di gioia”, affinché il mondo possa guarire dal suo dolore. Il cuore come centro del centro del corpo. “Luci multicolori, poi buio” dice la didascalia. Forse Maura Del Serra, dopo aver guardato lo strano e il diverso di una “collezione” già nota ci fa trovare di fronte al gesto di un rovesciamento. Rigira il “panno caldo e grigio” di Benjamin e ci mostra “una fodera di seta dai colori più smaglianti”. “Poi buio”, che potrebbe essere la fine di una fine o l'inizio di un sogno. Attraverso quella ferita – che è transito, che è soglia – entriamo nel centro dell'essere umano e Nijinskij entra nel cuore del mondo. “Poi buio”: forse un silenzio riempito dal gesto di abbracciare una rosa. Buio su un luogo “in assenza di luogo”, perché “sradicandosi si cerca (e si trova) più realtà” (S. Weil). Fino alla pazzia.


     Il silenzio riempito

     10. Nella prospettiva del “Teatro Totale” non si possono saltare alcune considerazioni sull'arte dimenticata dell'attore, perché il silenzio riempito è una pura estensione spaziale ed è diretta conseguenza del pensiero del corpo. Se la cultura duale non è “passata” nella cultura nazionale, il “teatro totale” non trova attori nel mercato. Ciò pone la questione della formazione professionale. Se è vero che esistono diverse drammaturgie, diversi stili, linguaggi, poetiche e produzioni teatrali, le scuole di teatro dovrebbero formare attori in rapporto alla domanda variegata che esiste. Ciò non accade. E chi può, provvede da solo. Dell'attore “se stesso” sembra parlare Nijinskij, riferendosi a D'Annunzio: “Pensava troppo, non mi sentiva, non sentiva nessuno. Era rinchiuso in un alveare di parole, parole, parole...”. Squarzina puntualizzava su una rivista che gli attori italiani recitano dal collo in su. Il fatto che nelle varie scuole di teatro s'insegnino improbabili materie come “impostazione della voce”, “movimento scenico”, “comportamento” o strane “psicotecniche”, sta a dimostrare la scarsa responsabilità assunta dai sedicenti “maestri” nei confronti degli allievi innocenti, della cultura teatrale e del cosidetto mercato. Se il teatro è corpo, anche la parola è corpo. Ma, se la parola è corpo, la voce è un fatto materico, parte integrante del corpo umano.Quindi, se si vuole lavorare sulla voce, si deve lavorare sul corpo e per lavorare sul corpo non c'è bisogno di quegli insegnanti.
     Grotowski, dopo averci raccontato di essere passato attraverso una prima fase sbagliata, dal 1959 al 1962, definita “via positiva”, e una seconda fase, corretta, con inizio nel 1966, chiamata “via negativa” – ci ha dato indicazioni molto chiare: 1) fare il “teatro povero”, perché quello “ricco” è “ricco di difetti”; 2) considerare lo spettacolo teatrale come un “atto biologico e un atto spirituale”; 3) puntare sull'“atto totale” dell'attore, “un atto di denudamento, un atto grave e solenne di rivelazione dell'organismo dell'attore in cui la consapevolezza e l'istinto si congiungono”; 4) condurre la ricerca nella direzione del movimento che va dalla cosa al come. Una rivoluzione metodologica. Grotowski nella prima fase cercava “una perizia creativa”, cioè tecnica. Riconosce di aver sbagliato e passa a lavorare sulla cosa, cioè sulle azioni fisiche, perché ogni azione fisica contiene in sé respiro, ritmo ed energia; contiene in sé il come. Le azioni fisiche producono percezioni, sensazioni, immagini, sentimento e pensiero. L'obiettivo della formazione diventa sviluppare conoscenze e abilità attraverso pratiche individualizzate e personalizzate, tese al superamento degli ostacoli di ordine fisico e psichico che impediscono o limitano l'atto “totale” dell'attore. Gli esercizi sono finalizzati allo sviluppo integrale del corpo umano, come un tutt'uno che non può essere ridotto a segmenti. E il risultato finale, visibile, è lo sviluppo differenziato della soggettività degli allievi, i quali devono apprendere, subito, che la pratica teatrale è legata al fare; che il dire, è un effetto del fare; che serve acquisire l'abilità di autogestione dei processi vitali piuttosto che le tecniche. “La tecnica è ciò per cui faccio qualcosa. Viene da chi per cui faccio qualcosa... è l'esito manifesto di una relazione di obbedienza a qualcuno che mi fa fare qualcosa. C'è nella tecnica, una facilità formidabile a vivere, che è l'infanzia remota dell'attività negativa del farsi fare” (C. Castellucci).


     Quel pazzo di Artaud

     Quando Nijinskij dice che capisce quello che sente e sente attraverso la carne, pone la metafora sulla funzione dell'attore e fa riferimento all'ambito del “pensiero del corpo”: sostanza e metodo di un fare teatro straordinariamente nuovo in quanto torna fedelmente da capo. Nijinskij/attore è corpo e anima allo stesso tempo. È un dio che ama Nijinskij “non quando è narciso ma quando è dio”. Sente di essere un dio, “in carne e sentimento”: il dio che è qualcosa in più del mondo visibile, palpabile e udibile. Sta nella forza della materia. Sta nella polvere felice della terra sollevata dal volo del passerotto. Sta nel “soffio che trapianta nell'aria la sua animalità”.
     I processi vitali e la didattica del “pensiero del corpo” riguardano l'attore. Il movimento che va dalla cosa al come è una metodica che interessa, in modo diverso, attori, drammaturghi e registi. “L'attore ha la funzione di trasformare i corpi... perché il grido / organicamente / e il soffio che l'accompagna hanno il potere di elevare il corpo, di condurlo ad uno stato d'azione, di folgorazione delle sue parti interne, d'ebollizione vera delle sue potenze, delle sue facoltà e delle sue voci, che esige uno sperpero esagerato di volontà e di sensibilità”: un frammento che la dice lunga su come ragionava quel pazzo di Artaud. Se l'attività di pensiero – come è deducibile dal presente quadro sinottico – prevale sull'attività fisica, la quantità/qualità nera di materia invadente tocca il processo nel luogo della contesa. Il corpo dell'attore rimane duro e friabile come il carbone. Se manca il piacere, prevale l'edonismo, che implica il rifiuto del proprio corpo. È l'amore che divide, non è l'odio. L'odio raggela, pietrifica. L'amore scalda, scioglie e separa gli infiniti elementi che costituiscono il mondo interiore dell'attore, il dio che sta dentro di lui. Separandoli, acquista la facoltà di utilizzarli ad uno ad uno, conservando l'armonia del corpo e raggiungendo la dimensione della creazione artistica.

     11. Alcuni accaniti censori di un tempo, ora ridotti a burosauri della dialettica di superficie mi accusano di linguaggio criptico. Lo scopo è evidente. Si tratta di servitori di parole figurate ridotti a fare quattro chiacchiere tra di loro, senza più occhi ed orecchi, su una rivista ridotta ad interessarsi di un teatro ridotto a “idee sulla realtà” nella scenografia dei tetri anfratti ideologici. “Cattivi testimoni sono orecchi ed occhi per quelli che hanno anime da straniero”, in quanto non gli consentono di osservare “le armonie del cosmo, effetto di tensioni contrastanti, come quella dell'arco e della lira”. Ma, ora che il mio maestro Strehler si è pronunciato sulla necessità di rinnovamento del teatro pubblico, affermando cose che molti artigiani della generazione saltata vanno dicendo e facendo da un bel po' di anni, è probabile che quegli occhi e quelle orecchie si aprano un poco al cosmo eracliteo.

ALFIO PETRINI
(pp. 50-53)


 

 

IL DIBATTITO

Un laboratorio multicodice


 

     Essendo “il silenzio riempito” un incontro destinato ad aprire un dialogo, gli interventi venuti dal pubblico in risposta alle tesi espresse dai relatori possono essere un interessante angolo prospettico da cui osservare le finalità dell'intera operazione.
     Dopo l'ampia e fervida esposizione di Alfio Petrini e quella conclusiva di Ugo Ronfani, il primo a prendere la parola è stato il vice-sindaco di Carpineto Romano, Emilio Cacciotti, il quale, dichiarandosi convinto dell'importanza culturale del “teatro totale”, ha ribadito la volontà del suo Comune di porsi come referente geografico e organizzativo nell'ambito del progetto per la realizzazione di una casa per drammaturgia multicodice e intercodice.
     Pasquale Sabatelli, musicista al Teatro dell'Opera di Roma, ha poi aggiunto il contributo della propria esperienza personale, sottolineando la drammatica separazione fra i diversi linguaggi scenici. L'orchestra ha la sua funzione musicale, il regista-sacerdote gestisce autonomamente l'organizzazione del palcoscenico e il direttore tenta una sorta di compensativa comunicazione mimica; ma il risultato è un teatro non teatro.
     L'intervento di Gianfranco Calligarich, esponente di una scrittura drammaturgica che egli stesso ha inserito nel teatro di parola, ha poi portato la direzione del dibattito verso il nocciolo della questione: la contrapposizione dialettica, cioè, fra stile “ufficiale” del teatro italiano e l'avventura proposta da Petrini. Pur riconoscendo l'intensità delle emozioni provocate in lui da diversi spettacoli di teatro non di parola, Calligarich, in quanto scrittore “transfuga” dal cinema e dalla televisione come sceneggiatore, ha puntualizzato una posizione nella quale non è possibile fare a meno di pensare lo spettacolo teatrale anche come il racconto di un personaggio o lo sviluppo della storia.
     Botta e risposta poi si sono alternate fra Daniela Ardini, regista nonché studiosa di filologia greca e latina, e il provocatore Petrini. Alle obiezioni mosse dalla Ardini contro la necessità della teorizzazione di un problema che invece nella prassi teatrale sembrerebbe non sussistere, dal momento che il teatro è per sua stessa definizione totale, Petrini ha risposto cogliendo l'occasione per ribadire i concetti fondamentali del suo progetto.
     Differenze ce ne sono – egli ha detto – nonostante che sia il teatro di parola che quello totale abbiano pari dignità e pari diritto all'esistenza. In primo luogo, differenze nell'ignoranza del teatro di parola per il fatto che la parola derivi dal corpo, che la parola sia corpo, in secondo luogo nella natura stessa del teatro totale, natura che si fonda sulla cultura duale, sulla rappresentazione non solo di ciò che è visibile ma anche di ciò che è invisibile, sull'attore integrale. Natura che si incentra sulla spazialità dei corpi e non sulla gestualità, dal momento che fa riferimento ad un sistema di segni invece che solamente ad uno, cioè quello verbale.
     A conclusione della giornata l'intervento di un giovane laureato del Dams, Mario Datteri che, riferendosi al pensiero galileiano si è chiesto perché essendo il pensiero appunto entità corporea, fosse invece in questi dibattiti sempre l'attore a trovarsi al centro delle dinamiche teatrali. Questo intervento ha dato l'opportunità ad Ugo Ronfani di tirare le somme della giornata sottolineando come apparenti divergenze espositive possono essere in realtà il risultato di un gioco di sovrastrutture linguistiche generazionali, e come la soluzione del problema si trovi al di là delle impostazioni teoriche, nell'esercizio della prassi teatrale.

FRANCESCA PACI
(p. 52)