Pagine di Maura Del Serra


INTERVISTE



Testo dell'intervista rilasciata da Maura Del Serra alla emittente televisiva T.V.L. in occasione dell'assegnazione del Premio "Ceva" 1986 alla raccolta poetica Concordanze, Firenze, Giuntina, 1985

       Abbiamo il piacere questa sera di avere nei nostri studi la Dottoressa Maura Del Serra, che è una pistoiese, insegnante alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Firenze, ma soprattutto è una poetessa: ha vinto già numerosi premi letterari, il Premio Traiano, il Ceppo-Proposte, e sabato riceverà il Premio Nazionale di Poesia Città di Ceva. Ricevere con sole tre raccolte liriche tre premi di poesia nazionale, vuol dire essere già consacrati alla grande poesia?
       Questo è abbastanza discutibile; potenzialmente, nell'ambito del sociale, forse potrebbe voler dire questo, però non è necessariamente così, perché quello che dovrebbe contare è la qualità del testo: per fare un gioco di parole, è il testo che dovrebbe far testo più che i giudizi delle giurie; in questo caso, trattandosi di una giuria particolarmente qualificata, naturalmente il riconoscimento fa piacere a chi, come me, conduce da sempre un lavoro molto appartato e solitario; però non direi che cambi niente nelle tappe del mio itinerario interiore, perché il lavoro del poeta è sempre un lavoro sotterraneo di scavo e di ricerca sul quale i riconoscimenti non incidono; possono incidere sul suo narcisismo, sul suo senso di autoconsiderazione, ma non toccano in nulla la sostanza del suo lavoro; quindi potrei rispondere insieme sì e no alla domanda.

       Ecco, però, sul narcisismo del poeta incide di più un riconoscimento da parte di grandi critici, e quindi l'ottenere la soddisfazione di un premio, o il riconoscimento da parte del pubblico, del lettore?
       Visto che la società letteraria ormai da molti secoli, o almeno dal Settecento, è estremamente elitaria e frantumata, e il concetto di pubblico è ormai quello di un pubblico potenziale - in parole povere, il poeta non sa più per chi scrive, ed ha in mente, quando scrive, un pubblico universale, quindi anche astratto, che è poi una sorta di specchio di se stesso; certamente nella pratica finisce poi per aver udienza prevalentemente presso i cosiddetti addetti ai lavori, che sono i critici ed un ristretto manipolo di lettori. Si crea un po' il famoso problema della "torre d'avorio", della destinazione del messaggio - e qui non è certo il caso di coinvolgere questi problemi che sono molto complessi. L'ambizione del poeta - e questa non viene dal suo narcisismo ma nasce davvero dal profondo - è l'ambizione e l'esigenza di rivolgersi a tutti, quindi ad un pubblico potenzialmente universale, e non agli addetti ai lavori.

       Quindi, la poesia è o no comunicazione?
       Certamente è comunicazione al grado più alto, essendo comunicazione sempre potenziale perché dipende dalla "qualità" del poeta: grado più alto che a volte finisce per escludere - almeno in apparenza - i gradi inferiori, quelli che i linguisti chiamano della denotazione, e per essere un linguaggio altamente comunicativo, altamente selettivo e metaforico; quindi si crea davvero un problema di comunicazione alla seconda o alla terza potenza, ma certamente la poesia è comunicazione, come lo è la musica, come lo è il linguaggio di tutte le arti: una comunicazione molto intensa, cristallizzata.

       Ecco, Lei ha vinto e sabato, dicevamo, riceverà il Premio Ceva 1986 di poesia, ottava edizione, con il volume che vedete alle nostre spalle [sul video] Concordanze; la motivazione con cui Le hanno assegnato il Premio dice: "La poesia di Maura Del Serra si nutre di una straordinaria ricchezza di forme simboliche e di costruzioni allegoriche, sostenute da una fervida ispirazione religiosa e da una acuta sensibilità verso i valori formali della poesia". Lei si riconosce - o meglio, il libro può riconoscersi in questa motivazione?
       Direi di sì è una motivazione sintetica, ma mi sembra che la Giuria abbia colto tutto sommato il carattere del libro, che è appunto quello di rintracciare le "concordanze" fra i diversi livelli della creazione, i diversi piani dell'essere, quindi fra divino e umano, fra cielo e terra, fra sensi e spirito, e anche fra linguaggio e mondo. Sostanzialmente direi che il lavoro mio, come quello di ogni poeta, è un lavoro (in senso lato, in senso etimologico) religioso, che cerca di collegare e, appunto, di far concordare i piani della creazione; è anche un lavoro di logica, anche questa intesa in senso etimologico: logica viene da logos e il logos è la parola, ma è anche il Verbum, quindi lo Spirito creatore del mondo: la logica poetica è la lingua della creazione. Per la piccola parte che io posso riceverne, testimonio di questo processo.

       Lei ha pubblicato tre raccolte di liriche: L'arco nel '78, La gloria oscura nell''83 e Concordanze nell''85; i titoli di queste tre raccolte possono in qualche modo essere presi come chiave di lettura della Sua poetica?
       Certamente, per quanto ogni titolo rispecchia in sintesi il carattere profondo, il messaggio, la motivazione che l'autore cerca di far giungere al lettore. L'arco esprimeva ancora una tensione irrisolta, dal personale, dall'io, dal soggettivo, verso l'oggettività, e la esprimeva appunto in forme molto tese, ellittiche, a volte anche astratte; La gloria oscura è un titolo un po' barocco che si riferisce alla condizione umana, che è appunto quella di essere gloriosa, ma oscuramente gloriosa, perché è una condizione di potenzialità e non di "atto" quindi nel titolo l'ossimoro è solo apparente. Concordanze è forse un po' il titolo globale che riassume i precedenti e cerca di portare alla piena luce questo processo, per cui i diversi piani dell'essere vengono a concordare fra loro; quindi cerca di rendere ragione delle antinomie che animano la nostra presenza nel mondo e di comporle in armonia.

       Perché si scrivono poesie, perché si fa poesia?
       Questa è una domanda... giustamente "provocatoria", che da sempre è stata fatta ai poeti; adesso però ci si limita appunto a chiedere ai poeti perché si scrivono poesie: Platone diceva che il poeta era un essere divino, sommamente temibile, che bisognava incoronare e poi cacciare dalla città, quindi era molto sentito questo suo quoziente di testimonianza dell'assoluto, fino ai limiti della pericolosità, della sovversione; era sentito molto questo suo potere di invenzione, di immaginazione che può cambiare il mondo, anche se poi i modi in cui il poeta lo fa sono sempre complessi e difficili, non immediati. Si scrive poesia (nel mio caso, ma credo di poter parlare per tutti i poeti) perché il terreno di partenza e quello di arrivo sono sempre comuni, è soltanto nel luogo intermedio che le tappe cambiano - si scrive poesia per testimoniare, per gettare un ponte, per fare - mi perdoni il termine - i "pontefici", anche qui in senso etimologico, per stabilire dei legami autentici fra sé e il mondo, e questo lo si fa per tutti, a nome di tutti: il poeta è semplicemente un testimone, e non ha, in questo senso, nessun diritto all'autoesaltazione, a un senso di elezione "profetica" o di demiurgia particolare: è un testimone, un interprete dell'umano; è un traduttore dall'invisibile al visibile e viceversa, quindi, se è un buon traduttore avrà il merito appunto di aver ben tradotto questo testo invisibile che leggiamo tutti e da cui tutti siamo letti.

       Una curiosità che forse molti nostri telespettatori avranno e che io personalmente ho tutte le volte che mi accosto a un testo di poesia: come nasce la poesia? La poesia è un artificio letterario oppure nasce spontaneamente?
       Direi senz'altro che alla base della poesia c'è quello che i romantici chiamavano l'intuizione, l'ispirazione, la théia moira dei Greci, quindi una visione: infatti il vocabolo idea testimonia di questo: l'idea è una visione. Da questa visione immediata, che è intuizione di corrispondenze fra uno stato dell'essere e uno stato dell'apparire, e che si focalizza in una immagine-guida, il poeta deve poi portare alla luce un discorso, proprio un logos: quindi deve ricorrere alla tecnica, a tutta la strumentazione letteraria, culturale, ideologica - nel caso di chi ha un'ideologia che gli fa da supporto -: la poesia è l'uno e l'altro, è visione e tecnica; nella sua radice prima è visione, intuizione, una intuizione - diciamo - logicamente sviluppata.

       Maura Del Serra quanto porta del poeta nella sua professione di insegnante universitaria, e viceversa?
       Forse potrebbero dirlo meglio gli allievi, gli studenti; certamente credo di portare molto, nel senso che non riesco a insegnare per puro mestiere, con una trasmissione meccanica di dati culturali, ma nell'insegnamento - trattandosi poi di letteratura italiana, nel rivisitare la nostra tradizione, che è poi forse per due terzi tradizione poetica, ne do una reinterpretazione, spesso anche molto personale; quindi porto senz'altro molto di questa tradizione nella poesia e viceversa.

       Un'ultima domanda: qual è, se esiste, quali sono, se esistono, i suoi poeti?
       Qui ci vorrebbe davvero un lungo discorso, potrei citare moltissimi nomi e nessuno: non mi riconosco in una particolare "scuola", in un particolare filone, anche se spesso la critica (penso in particolare a Macrì) ha creduto di poter accostare il mio nome all'ermetismo fiorentino; non mi sento di rifiutare ma neanche di sottoscrivere pienamente questa attribuzione. Ci sono certamente delle voci elettive con cui mi sento in comunicazione al di là del limite spazio-temporale (alcune sono state indicate da Luzi o da Barberi Squarotti): potrei citare i nomi di Emily Dickinson o di Simone Weil che è una poetessa-filosofa, una grande pensatrice, e poi Dante, il barocco europeo e la musica barocca, e poi soprattutto gli elisabettiani, Donne, Vaughan, Herbert che anche ho tradotto - e anche la tradizione platonica, l'alchimia, i testi biblici ed evangelico-gnostici, il misticismo medievale, la tradizione buddista e taoista, quella indù del Vedanta; che però non sono in realtà testi poetici nel senso stretto della parola, nel senso limitato di "lirico" che si dà correntemente a questo termine. Poi nel nostro Novecento - oltre alla tradizione simbolista europea - i nomi che ho più presenti sono quelli di Rebora, Onofri, Betocchi, Luzi, la Guidacci, per la qualità direi più intensamente testimoniale, religiosa, nel senso che prima dicevo.

       Bene; dopo Concordanze?
       Dopo Concordanze ho in preparazione il quarto volume di poesie, che si chiama Meridiana e uscirà ad anno nuovo; un volume per la verità molto più nutrito del precedente, e che segna anche una svolta, perché porta all'interno dell'espressività molto verticale di Concordanze una più ampia orchestrazione di voci, di temi-personaggio, anche nel senso teatrale della parola. Spero che il volume non solo abbia una buona accoglienza, ma che porti un contributo non formale ma sostanziale al panorama della poesia contemporanea.

       Bene, quindi dopo Concordanze un'altra raccolta, e, speriamo, un altro premio.

Intervista andata in onda
nei notiziari RAI del 15 ottobre 1986






Incontro con Maura Del Serra

       Abbiamo chiesto a Maura Del Serra, che associa al suo lavoro poetico una consistente attività critica, qual è secondo lei la funzione della poesia nella società contemporanea. Ha risposto:
       Nella società attuale, minacciata da una forma di barbarie tecnologica e da un nuovo analfabetismo interiore, la poesia, per essere davvero tale, deve tornare ad assolvere coscientemente la sua funzione di sempre, che è quella di traduzione, di "ponte" attivo fra tempo ed eterno, divino ed umano, storia e natura, coscienza e mondo, ovvero di scienza sperimentale dell'invisibile che fonda ed esprime il visibile, la superficie variegata dell'esistenza e dell'esperienza; deve cioè ritrovare la propria funzione testimoniale, agonica, non nel senso di una arroganza dell'intelligenza, ma in quello di un quotidiano e non chiassoso poiein che combatta per farsi paradigma, anche minimo, di verità, e per farsi quindi lingua universale dell'anima, contro le superstizioni, gli idoli ideologici, i razzismi, che dividono la mente degli uomini dal loro cuore. La parola poetica deve combattere per essere luce della realtà, per "non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere", come suona la celebre formula di Spinoza che dà il titolo ad una mia poesia inclusa in Meridiana. Al di là degli estetismi e dei demiurgismi di eredità romantica (che sono in fondo la nostra "cultura dello scacco") la poesia deve ritrovare la propria misura, umile e totale, di respiro della vita, alla quale deve sempre metter capo. Insomma, non il barocco mondo-libro di Mallarmé e di Borges, ma il libro-mondo vivente, non inventariabile ma conoscibile con la mente del cuore.

       E quali potrebbero essere, a suo parere, gli autori e i testi poetici che assolvono a questa funzione, diciamo, "religiosa"?
       È difficile non dare risposte soggettive, proiettive, a questa domanda pur fondamentale; ognuno ha la sua via privilegiata e i suoi compagni di strada nel suo viaggio, nella sua odissea interiore, ognuno ha i suoi "maestri", che possono benissimo essere autori e testi comunemente considerati di secondo o terzo ordine, misconosciuti o addirittura oscuri: l'unica lingua ha dialetti infiniti, tanti quanti sono gli esseri. Tuttavia, per quel che riguarda la mia esperienza, posso dire che gli autori-guida restano i classici della nostra koiné (Platone, Dante, Shakespeare, Goethe, ecc.: i grandi mediatori creativi fra le idee e il mondo): includendo ormai in questo concetto anche le grandi espressioni delle tradizioni orientali, che, come sempre alle origini, coincidono con la poeisa e la letteratura: quindi la Bibbia e i Vangeli, ma anche lo gnosticismo, il buddismo e l'induismo, il taoismo ecc. Ma, come dicevo, si può trovare luce e sostegno intellettuale e morale in opere antiche o contemporanee anche meno totali, più modeste, purché contengano il presupposto della poesia come verità, cioè il ritrovamento del "patto originario fra lo spirito e il mondo" come diceva Simone Weil.

       Quali sono in particolare gli autori, anche moderni, che sente più vicini?
       Credo di aver già dato qualche indicazione attraverso la risposta precedente: oltre agli autori e alle tradizioni che ho citato e al di là dello schermo della "contemoporaneità" che sento abbastanza illusorio (non si è contemporanei della propria epoca ma di tutti gli uomini, in qualunque civiltà e periodo storico vissuti, che sono nella nostra stessa posizione, al nostro "punto" interiore) – posso dire che sento vicini gli stilnovisti, i sufi persiani (che sono in buona parte ispiratori dei primi) e fra loro i poeti Rumi e Attar, San Juan de la Cruz, il Tasso, i "poeti metafisici" inglesi, in particolare Donne, Herbert e Vaughan, ma anche Hölderlin, Emily Dickinson, Hopkins, Leopardi, Michelstaedter, il miglior Onofri e Rebora: insomma gli esponenti della poesia come "mania dell'eterno" (secondo la celebre e un po' autoironica espressione di Rebora) piuttosto che come letteratura, "mestiere" forzatamente incline alla menzogna e al fittizio. Ma scintille vive di questa "mania" sono presenti anche, ad esempio, nei romantici inglesi e francesi, nei simbolisti russi, in Melville, in Rilke, in Eliot o negli espressionisti tedeschi... Resta da vedere quanto e come questo folto manipolo di amici-maestri o di "affini" abbiano agito o agiscano tuttora nei miei versi.

       In quale rapporto si trovano la sua attività poetica e il suo lavoro critico?
       La critica, come attesta il suo etimo, istituisce con gli autori un rapporto fondato sul giudizio analitico, anche se alla base di questo c'è sempre a sua volta un rispecchiamento (il famoso problema dell'"artifex additus artifici") una componente di empatia, di affinità elettiva, di corrispondenza anche dialettica; la poesia è una attività più diretta e totalizzante, perché è fondata sulla parola-cosa (non per nulla, in ebraico, davar ha entrambi i significati): ma, in quanto tale, è anche più rischiosa, più verticalmente esposta alle illusioni e ai naufragi, anche se, al suo meglio, è sempre universale, impersonale, corale. Il rapporto fra il critico e il poeta è, diciamo, quello fra il regista e l'attore impegnati in uno stesso testo, o, se si vuole, quello fra lo scriba e il profeta (che poteva e può anche essere un falso profeta!).

       In quale misura ritiene che i critici che si sono occupati della sua poesia ne abbiano colto i temi e gli aspetti fondamentali?
       È difficile e un po' imbarazzante rispondere; non sta al poeta giudicare i suoi lettori-giudici, ed è giusto che ogni critico privilegi la sua chiave di lettura, estraendo il suo "sapore" personale dal testo, che vive anche di queste rifrazioni, così come un cristallo vive dei colori che se ne fanno sprigionare muovendolo. Finora la critica che mi ha riguardato ha evidenziato da varie angolazioni e con vari strumenti le componenti conoscitive e religiose della mia poesia (Luzi, Barberi Squarotti, Carifi, Valli, Gerola: questi ultimi con più attenzione ai dati stilistici e formali): permane, mi sembra, un certo disagio della critica letteraria di fronte alla meta-letterarietà di gran parte (per me la parte essenziale) della mia ricerca: di qui l'insistenza di taluni critici nel ricondurre un po' forzatamente la mia poesia nelle coordinate ristrette del panorama postermetico nazionale, alle quali sinceramente non mi sembra corrispondere, o corrispondere solo in minima parte; si tratta di abitudini a prospettive regionali e di clan, che il tempo, spero, correggerà e "aprirà".

       Che cosa significa per lei tradurre testi poetici e qual è il criterio che ha ispirato la scelta degli autori da Lei tradotti?
       La poesia, come accennavo, è sempre una traduzione, una mediazione fra linguaggi (fra "codici", come dice legalisticamente la linguistica): il linguaggio dell'invisibile, quello del visibile in cui il primo si proietta costituendo il reale, il linguaggio dell'io e dell'anima individuale, e infine il linguaggio denotativo, "basic", ovvero la lingua comune di cui il poeta si serve come materia prima del suo lavoro, paragonabile alla trasmutazione alchemica. La traduzione da altri poeti (la più naturale per un poeta) è finora la sola che ho affrontato per intima necessità, e perciò con gioia; è quindi una ulteriore traduzione, un filtro conoscitivo transitivo (un dono) e insieme una sorta di sfida cavalleresca, di duello fra amici-rivali in nome della dama (Bellezza o Verità o Realtà che dir si voglia).

       Sappiamo che ha terminato di scrivere un dramma in versi, La fonte ardente, ispirato alla figura di Simone Weil. Come è nato questo suo ultimo lavoro e quali sono i suoi caratteri?
       Il dramma è nato da un'accensione, da una sintesi lirica del mio lungo rapporto di ammirata frequentazione, diciamo pure di devozione, nei confronti di Simone Weil, del suo pensiero filosofico-religioso integrale, radicale in senso etimologico, che è tutt'uno col suo "farsi ultima" nel servizio sociale e col suo slancio verso l'Assoluto, attuato quotidianamente dentro e al di sopra dell'ambiente di origine (la borghesia intellettuale francese e l'insegnamento "stoico" del filosofo Alain), poi l'approfondimento splendido e personalissimo della "source grecque", di Platone e delle matematiche, alla luce degli elementi di religio perennis che danno senso alla tradizione ebraico-cristiana e a quella indù delle Upanishad, fino all'esperienza volontaria nelle officine Renault (il suo battesimo sociale, così anticipatore), alla contrastata adesione alla sinistra e alla Resistenza, e alla morte per consunzione in Inghilterra, nel sanatorio di Ashford. Simone Weil è per me l'esempio più alto raggiunto nell'Occidente moderno della fusione cruciale e cruciata fra mente e cuore, logica "maschile" e mistica "femminile", scienza e fede, in una vera scienza della fede, in una martyría che è esemplare non solo per ogni cristiano, ma per chiunque non voglia essere prigioniero delle forze sociali e di quelle interiori, ma ne cerchi le leggi con ferma dedizione. Tutto questo (e molto altro che di lei si può dire e che solo in parte è stato detto, perché la sua figura di genio-donna ispira una specie di rispettoso sospetto) ho cercato di evocare nel dramma, che mi è nato di getto, in tre mesi, dopo una lunga preparazione (vedi le "voci" che già prendono corpo in Meridiana) servita a dar voce ai personaggi della vita di Simone: la madre, il fratello, le amiche, i compagni di studio e gli operai, Alain, Trotzkij in esilio, gli scrittori Simone De Beauvoir, Joë Bousquet e René Daumal, variamente legati al surrealismo, e infine Monsignor Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII, allora Nunzio Apostolico a Parigi. Un microcosmo denso, in cui mi sono calata di slancio, con un'empatia che, per quanto lucida, non mi consente per ora di valutare criticamente il risultato; i lettori – e chissà, forse un giorno gli spettatori – giudicheranno di questa mia particolare "traduzione" aggiungo solo che, pur recuperando il verso martelliano (settenario doppio) è l'opera di intenti più antiletterari e più, diciamo, "ecumenici" che ho finora affrontato.

in "Quinta Generazione"
luglio-agosto 1987






A colloquio con i poeti. Intervista a Maura Del Serra

     Incontro Maura Del Serra nella sua casa a Pistoia. Sono accolto con quella finezza che viene dal lungo affinamento dato dagli studi, dalla docenza universitaria, dalla segreta ricerca del significato del vivere e dello scrivere, dalla tensione del lavoro intorno alla parola.
     Accetta di dialogare sul proprio essere poeta, benché questa condizione conviva con quella della saggista, della traduttrice, dell'autrice di opere teatrali. Comprende bene la necessità di parlare di sé attraverso il dialogo, cioè di comunicare in modo diverso da quello che caratterizza le comuni interviste.

     Le chiedo dei suoi inizi, del suo scoprirsi poeta, dell'inizio di un'attività e di un rito il cui significato andrà svelandosi lungo gli anni, senza mai giungere all'ultima caduta di quel velo che, appunto, vela le cose.
     Del Serra: Da quando ho memoria ritrovo questo precoce cercarmi attraverso la lingua, man mano che l'andavo conoscendo. Era un cercarmi attraverso parole, cadenze, rapporto tra parola scritta e suono. Avevo delle mie lingue immaginarie e dei personaggi immaginari con cui parlavo. Poi ero molto legata a questo tipo di "ascolto", un po' magico.

     Cozzoli: Sì, capisco. So tuttavia che ci sono per i poeti due diversi inizi: una è quello cui lei ha fatto cenno, legato all'infanzia o alla prima adolescenza, istintivo e magico; l'altro, che segna il vero inizio e mette in gioco la responsabilità del poeta verso sé e verso gli altri, si colloca in un'età più adulta: e più critica. Così è stato anche per lei?
     Del Serra: Sì, direi verso i venticinque anni. Ho avuto una crisi personale, un forte trauma e da questo ho maturato una coscienza diversa, più matura della vocazione.

     Cozzoli: C'è qualcosa che può meglio definire questa nuova coscienza, magari verso la coscienza formale, oppure verso un più esigente confronto con sé? In che senso un poeta "nasce" veramente a se stesso e capisce che non può vivere altrimenti che seguendo la vocazione? Intendo un poeta e non un versificatore.
     Del Serra: Era proprio come una seconda nascita, una chiamata, come un dover dare la parola al mio essere nel mondo che si rivelava di nuovo, anche con un'intensità dolorosa. Una necessità e non una consolazione di tipo psicologistico.

     Cozzoli: Quando si manifesta questa vocazione, la persona, che sente questa chiamata, ancora non sa verso dove andrà? Oppure intuisce, anche oscuramente, una direzione e, in qualche modo, un fine del proprio essere chiamato alla poesia?
     Del Serra: Per me è stato così: non sapevo verso dove andavo, però "sapevo", nel senso di un'oscura pienezza interiore. Infatti il libro di versi del '78 si chiamava L'arco e dava il senso di questa tensione, di questo sentirsi proiettati verso una meta.

     Cozzoli: Un po' come la freccia di Apollo, che è anche profetica o, nel caso del poeta, autoprofetica...
     Del Serra: Il secondo libretto lo chiamai La gloria oscura per esprimere questa posizione, mia personale, di consapevolezza, anche se ignota, verso il "dove" andavo. La parola era il destino, il fatum in senso letterale, con l'Ananke che sta sopra. Veramente le parole come destino nostro.

     Cozzoli: Io ho sperimentato la sensazione di avere come un maestro interiore, un'interiore guida che mi aiutava a riconoscere se una certa cosa era "mia", se questa doveva fare parte della mia esperienza, oppure se la dovevo tralasciare. E questo senza sapere di cosa si trattasse, senza entrare nella diretta conoscenza di questa cosa. Insomma era come se la stessa curiosità fosse guidata da una ben più fondamentale, essenziale curiosità, alla quale non saprei che nome dare. Sapevo con sicurezza che di questa guida e voce avrei potuto e dovuto fidarmi. In realtà solo di questa mi fidavo, intuendo che questa era la sapienza di cui vivevo e per la quale, anche come poeta, vivevo. E questo, non deve apparire strano, non portava alcun disturbo alla normale attività quotidiana. Era normale far convivere l'oscuro e l'illuminato. Dico questo perché trovo anche nella sua produzione un riferimento continuo alla dialettica tra "oscuro" e "luminoso", come se questo "oscuro" fosse più intelligiente del chiaro razionale.
     Del Serra: Certo, è proprio la dimensione del saper-non-sapendo di san Giovanni della Croce. Anch'io ho questa esperienza del "maestro interiore" (è un'espressione molto bella questa), o del daimon socratico, ma credo che tutti i poeti abbiano questa "voce" che dantescamente "ditta dentro" e induce a seguire quello che dice. A volte è anche una senzazione fisica. Soprattutto quando scrivo per il teatro, ho la sensazione di una presenza dietro le spalle, come un sentirsi guidati, osservati, conosciuti nel senso paolino.

     Cozzoli: Ecco un altro punto su cui conviene soffermarci: la riscoperta dell'interiorità, dopo tanto sociologismo. Spesso però questa interiorità soffre anche a causa di un certo psicologismo (freudiano, junghiano o hilmaniano che sia). A me invece pare che ci siano segni nuovi, conseguenti al rinnovamento della spiritualità, o meglio, segni che lasciano intravedere un ritorno dello spirito proprio come realtà, spirito che non coincide con l'anima intesa psicologicamente. È un discorso antropologico questo: l'uomo è corpo-mente o corpo-anima-spirito? Lungo il corso dei secoli e dei millenni anima e spirito non sono mai stati coincidenti. Il discorso coinvolge anche i poeti di questo nostro tempo. Trova?
     Del Serra: Sì, è importante! In un tempo in cui si parla tanto di globalizzazione, in senso molto estrinseco, non si sente ancora il bisogno di un'equivalenza interiore, di una rinnovata coscienza cosmica. Quindi c'è un fondo da recuperare nel senso della vis poetica, della dynamis, dell'energia, della creazione continua. Bisogna essere inseriti in questo ciclo cosmico, in questo moto dantescamente riferito al Motore Immobile (che è Dio).

     Cozzoli: Se questa è la direzione della storia attuale, quale è allora l'importanza della poesia in questo contesto?
     Del Serra: Io credo che la poesia possa tornare ad essere un ascolto delle radici ed anche tornare ad essere una "scienza della traduzione", in senso filosofico e metafisico, una scienza-ponte, un attraversare "soglie".

     Cozzoli: Vorrei ora rivolgerle una domanda su qualcosa che più personalmente coinvolge i poeti e che riguarda la genesi dei suoi testi, il come nascono. Su questo tema i poeti, anche quelli da me ascoltati, testimoniano in modo diverso circa le fenomenologie, cioè quello che accade loro. Se si sente, potrebbe anche accennare al costo umano della creazione.
     Del Serra: Per me può essere una combinazione dei vari momenti sottolineati da ciascun poeta. Posso dire, però che c'è una visitazione iniziale, del daimon o dell'angelo. Nel mio caso però (e lo dice con un sorriso) non si manifesta con sudori o calori o stranezze particolari. Non c'è niente di spettacolare; c'è questa "voce" interiore che parte, che comincia a "parlare" con un verso, con una immagine. È come un suono-luce. Il primo verso, come si dice, è dato dal dio, poi subentra il mestiere. Al miracolo, come diceva Ungaretti, subentra il mestiere, a partire dall'ascolto attento della voce e delle immagini simboliche che discendono dalla prima. Questi "pezzi" devono essere messi insieme. Non è detto che l'immagine che si presenta per prima sia la prima del testo, può essere l'ultima. Il poeta "sa" quale è il posto di ogni immagine, di ogni verso, nel testo.
     Voglio dire però che l'"ascolto attento" deve continuare anche facendo altre cose. Questo lavoro continua anche quando l'attenzion-esteriore è rivolta verso altro. Sì, ci sono i due momenti: l'ispirazione e la tecnica. Ma l'inizio è dono dell'ispirazione, del dio. Se non ci fosse questo, il poeta sarebbe solo un versificatore, un fine letterato, non un vero poeta. Le parole devono essere cariche di anima. Ma, perché questo accada, dobbiamo saper ascoltare.

VITTORIO COZZOLI
in "Cammino" Periodico mensile
n. 3, marzo 2001, pp. 30-32






Il teatro della coscienza. Dall'icona della Trinità alla "santità umile", da Juana Inés de la Cruz alla Weil

       È una drammaturgia di "archetipi teatrali": ad ogni personaggio corrisponde una figura tradizionale, e questi insieme, in una polifonia, compongono una "scena della coscienza", sempre per dare rappresentazione ad una "catarsi" o a un sacrificio. Di Maura Del Serra esce ora l'Andrej Rubljòv (Le Lettere, pagine 82, lire 15000, con una nota di Ugo Ronfani), dramma in sei scene scritto nell'87-88. Le partizioni accompagnano la crescita della consapevolezza dell'artista, a confronto con personaggi che portano e dibattono altre teorie sull'arte, fino al compimento, la realizzazione dell'icona della Trinità. In un contesto storico di oppressione, la Russia tardomedievale, i dialoghi sono - oltre che con la società del tempo - con un teologo e un altro artista.
       Ma Maura Del Serra si è occupata anche di altri celebrati percorsi spirituali e sempre attraverso il teatro: "Ho scritto La Minima - dice - sulla fondatrice dell'Ordine delle Minime del Sacro Cuore in occasione della sua beatificazione: era un dramma sulla santità umile. Su Simone Weil, La fonte ardente, in versi, che ripercorre l'itinerario spirituale e vitale della filosofa nella Francia del tempo, un grande affresco dove c'è anche Papa Giovanni XXIII, in veste di nunzio apostolico a Parigi, che ha conosciuto Simone Weil negli scritti e si incontra con la madre di lei nell'epifania finale, dove una voce fuori scena recita un "prologo" di Simone Weil, un testo enigmatico che sancisce l'incontro misterioso tra l'anima e Dio. Ho scritto su Juana Inès de la Cruz nel dramma La Fenice: era chiamata "la fenice del Nuovo Messico", poligrafa dell'ultima età barocca, figura altamente sacrificale dominata dal segno del fuoco, morì curando le consorelle di peste e con un autodafé rinunciò alla brama moderna faustiana di conoscenza. Nel dramma Juana Inés de la Cruz muore nel fuoco di una capanna, in ascesi".
       "Scrivo sempre - spiega Maura Del Serra - di un cammino catartico. La mia vuole essere una scena della coscienza, della visione, un teatro dello spirito. Con Agnodice invece ho messo in scena una donna medico di età ellenistica, che si traveste da uomo e va ad Atene per esercitare, e provoca equivoci: qui mi sono riferita al teatro classico e plautino. È un lavoro polifonico, che nasce da orchestrazione di voci e personaggi, compone comico e drammatico. I miei personaggi - riflette la scrittrice - hanno valenze mitiche. Come nel simbolismo della croce si mira a compenetrare gli opposti di mito e storia, idillio e tragedia, maschera e volto, oppressione sociale e libertà creatrice dell'individuo. L'Andrej Rubljòv è un dramma con una componente ludica, comica, storica, attraverso le figure del mercante e del buffone. E Rubljòv è portavoce delle esigenze dell'incarnazione. Il mio è un teatro di archetipi".

       Sempre tra sacro e arte: perché questa scelta?
       È una vocazione. L'arte è sempre sacra. Nel Rubljòv, l'arte figurativa, nel monologo Kass, sulla Mansfield, quella letteraria, in un altro monologo su Nijinsky quella della danza. Per me Nijinsky era una figura cristologica, ha vissuto nella carne il conflitto tra assoluto e relativo, tra maschera e volto. C'è un contrasto tra il Nijinsky dei balletti russi e il Nijinsky di Dio: e queste sono sue espressioni.

       In Rubljòv il contrasto, il contraddittorio, è con un teologo e con un altro artista sui "modelli" di arte. Perché?
       Per un elemento dialettico, agonico. La croce è un incrocio di opposti, ed è sempre presente. È una dialettica che mira a dire le voci della coscienza. Detti e contraddetti che tendono ad una sintesi, a una catarsi, alla risoluzione dei contrari in un finale che è sempre abbastanza aperto, una risoluzione che può essere offertoriale.

       Perché offertoriale?
       Come in una catarsi c'è l'elemento del sacro, della religione, di una "religio" del cuore e della mente, che l'eroe, l'eroina additano sempre, per una giustizia della spirito che riscatti la storia. Nel Rubljòv è il finale con una catarsi visionaria su un piano interiore, una epifania di arte e sacro.

       Lei fa discutere Rubljòv con un teologo di formalismi bizantini e del rapporto dell'arte e dell'artista con il popolo e con i dogmi della Chiesa. A suo parere sono questioni che restano valide oggi?
       Su un piano universale sì, traducendo l'ortodossia conservatrice e le esigenze interiori dell'artista. Anche se oggi il rapporto è più fluido che nel tempo di Rubljòv. Se non c'è la Chiesa, c'è il rapporto con l'ecclesia interiore, con i dogmi. L'artista è teso - lo dice Simone Weil - a rintracciare il patto originario tra lo spirito e il mondo. È sempre la tensione tra dogmi rivelati o interiori e le esigenze individuali.

       E in questo dov'è raggiunta l'armonia?
       Viene dal contrasto, da canto e discanto che si compongono infine in un dialogo. Con Dante dico: "Diverse voci fanno dolci note": è come nella polifonia rinascimentale.

       Maura Del Serra per i suoi lavori teatrali svolge un lavoro di documentazione: "Leggo per l'inquadramento del periodo storico: saggi sui costumi, i vestiti dell'epoca, sulla politica e, se ci sono, i libri scritti dai personaggi storici. Mi ispiro anche per l'espressione linguistica, per tentare di ricreare l'epoca attraverso il linguaggio: ellenistico o barocco, dell'Europa degli anni Trenta o della antica Russia...".

       Maura Del Serra è anche poeta, insegna letteratura italiana moderna e contemporanea a Firenze ed è traduttrice da più lingue. Perché, dagli anni Ottanta, la scelta del Teatro?
       Mi considero poeta e continuo a pubblicare poesie. Ma il teatro è una forma orchestrale di poesia. La lirica è voce sola o quartetto, il teatro una sinfonia che offre possibilità più ricche. Le voci interiori della poesia hanno assunto una forma teatrale. Poesia e teatro sono forme complementari e parallele ma sono sempre musica, monodia e coralità.

       Come traduttrice ha lavorato su autori di molte lingue diverse...
       Shakespeare, Herbert, Thompson, Woolf, Mansfield, Parker, Lawrence, Hamburger dall'inglese, per il francese voglio citare Proust e Simone Weil, per il tedesco Else Lasker-Schüler... Per me la traduzione è complementare, uno specchio, bisogna creare una terza lingua, che non è né dello scrittore né mia. Anche qui c'è una scena, una rifrazione... Si dà voce a un'altra lingua, è sempre un'incarnazione. Ho continuato gli studi di italianistica, su Campana, Betocchi, Penna, Pasolini, ma penso che la letteratura italiana abbia senso se inserita in un contesto europeo... Anche Margherita Guidacci, di cui ho raccolto Tutte le poesie, sempre per Le Lettere, recentemente, era traduttrice per l'inglese e lo spagnolo... è congenere al poeta la dimensione sovranazionale, per una ricerca delle affinità elettive.

PIERANGELA ROSSI
"Avvenire" (Agorà)
20 giugno 2000






Natale 2001. Intervista rilasciata a TVL

       Siamo qui con la professoressa anzi con la poetessa Maura Del Serra. Natale e poesia: oggi è il tempo in cui in questo mondo occidentale e razionalistico abbiamo più bisogno di poesia perché non riusciamo a spiegare gli eventi solo con la razionalità...
       Certamente: la poesia “serve” quanto serve la vita stessa, e nella doppia accezione del verbo (anche una mia poesia è intitolata Servire). La poesia deve servire la vita, così come la vita “va a servire la poesia” perché ne è colma: al di la del dolore, dei problemi, delle incompiutezze e insufficienze della condizione umana, le radici della vita sono nella poesia e viceversa: sono madre e figlia che spesso si scambiano i ruoli, e oggi più che mai è necessaria questa simbiosi.

       La poesia ci aiuta a leggere l'evento del Natale: oggi siamo obbligati ad essere meno distratti, perché gli eventi ci hanno costretti a tornare dentro di noi. L'evento del Natale va forse letto più col cuore e con la poesia che con la razionalità…
       Direi con entrambe, perché la ragione non è altro che il cuore salito nella mente, così come la mente del cuore è quella che induce in noi la conoscenza. Del Natale va recuperata la dimensione etimologica di dies Natalis, vissuto come la nascita del Cristo in quanto Sol Oriens negli antichi culti misterici orientali: alla radice dell'inverno, nel colmo del buio, nasce questa nuova presenza del sacro che è l'anno nuovo ed è il Verbo incarnato… Oggi perciò è importante interiorizzare il Natale, recuperare questa radice profonda al di là di tutti i consumismi, di tutti gli stereotipi personali e tribali costrittivi, farne un evento interiore in senso spirituale e cosmico; “globalizzare” sì il Natale, ma nel senso di universalizzare la scienza della gioia che esso può portare.

       E tuttavia oggi il Natale sembra dividere, perché è un punto discriminante della storia, una pietra angolare che è stata scartata, e dove manca questa pietra fondante si sente l'incapacità di trovare risposte. Certo il terrorismo va combattuto, però viene combattuto con la guerra… In un punto fondamentalle del mondo, la Terra Santa, ebrei e mussulmani sono in un contrasto irrazionale che non è solo motivato da qualche metro di terra; d'altra parte l'Islam non conosce Gesù nella nostra accezione: ci sono molti motivi di riflessione…
       Sì, sono problemi molto complessi che al di là del piano socio-politico incidono nella quotidianità di ognuno di noi, ma che è difficile affrontare proprio nel vissuto quotidiano, perché oggi più che mai si ha un senso di impotenza, per cui pare che le grandi decisioni vengano prese al di sopra di noi, a livello planetario sì, ma nel senso massificato del termine: invece è importante risentirsi alle radici del sacro, dell'anno, di questa pietra angolare della storia che è il seme stesso della renovatio da portare dentro ciascuno e nelle comunità, al di là di tutti i fondamentalismi e gli integralismi che provengono dalla mente, in particolare da quella occidentale costruita sui dualismi (bianco-nero, buono-cattivo, giusto-ingiusto…). La dialettica non va certo annullata ma integrata su un piano superiore, da un alto che inglobi anche il profondo che ne è lo specchio: è difficile, ma c'e in tutti questo bisogno dei valori fondamentali, soprattutto da parte dei giovani e degli “uomini di buona volontà”, che è poi il senso di una giustizia che sia anche giustezza e misura interiore: è cosmos, dicevano i greci, che è insieme mondo, ordine e bellezza. La bellezza che salverà il mondo, evocata da Dostojewskij, non è una utopia, ma una scienza che va costruita dentro di noi e portata poi nel sociale, su scala insieme creaturale e civile. Questo vale la pena di fare, a Natale e tutto l'anno.

       Il recupero di questa dimensione interiore è allora un modo per comunicare con chi sembra avere pensieri diversi, come l'Islam: è questo il modo di porgersi senza annullarsi?
       Certamente! Se pensiamo alla ricchezza di interazioni fra tutte le culture, in questo caso dell'Islam che ci è sotto gli occhi – alla ricchezza di interazioni fra l'Islam e la nostra civiltà greco latina e medioevale, se pensiamo ad esempio che tra le fonti della Divina Commedia c'è il Libro della Scala che descrive l'ascensione di Maometto al terzo cielo; se pensiamo all'opera di paziente trascrizione dei nostri codici letterari e filosofici nell'Islam medievale, vediamo che le radici dei nostri classici appartengono anche all'Islam e viceversa, attraverso l'aristotelismo ed il neoplatonismo, sentiamo che non è possibile che tutto questo vada perduto sul piano meramente sociopolitico, nel regno della forza, come dice Simone Weil. Bisogna preservare questa ricchezza e perseguire con paziente costanza un linguaggio comune, che pure esiste perché in Europa tutti i dialetti culturali sono dialetti di un'unica lingua: va trovato un esperanto culturale, qualcosa di più dell'inglese.

       Mi pare che da parte della poetessa gli auguri siano improntati senz'altro alla speranza, vorrei dire all'ottimismo, certo alla fiducia…
       Sì, un ottimismo vigile e critico, perché i problemi sono molti e gravi, in questo momento storico: ma non bisogna mai dimenticare che la storia non è fine a se stessa, una ruota insensata che gira, la ruota della Fortuna di dantesca memoria che “volve sua spera e beata si gode” e al di là della quale non c'è nulla. La storia va misurata sulla metastoria dentro e sopra di noi, sulla scala dell'ordine cosmico e interiore. Questo processo semplice e complesso insieme è da costruire ogni giorno, al di la di tutte le barriere politiche, sociali e culturali. La civiltà in cui viviamo è molto frastornata dall'informazione, dal bombardamento globale di tutto ciò che sembra di dover sapere: si perde così la scienza dell'ascolto, che è molto importante per percepire al di là dei rumori di guerra e di violenza un a musica, un'armoia cosmica che si costruisce, ma che insieme si percepisce e si ascolta. Credo che questo sia il desiderio di tutti i popoli.

Intervista trasmessa
durante le festività 2001/2002






Maura Del Serra: "Rileggetela, è la nostra Virginia Woolf"

"È stata la nostra Virginia Woolf, la nostra Katherine Mansfield, la nostra Colette, di pari valore. Se si leggono loro, allora val la pena di leggere e rileggere anche la Manzini". Con pacata ma convinta fermezza la poetessa Maura Del Serra, docente di letterature comparate all'università di Firenze, parla di Gianna Manzini che definisce senz'altro "grande scrittrice europea".

Un giudizio impegnativo...
Ma non esagerato. Intanto perché Manzini assimilò profondamente la lezione di "Solaria", la rivista fiorentina che proseguì l'opera della "Voce" rappresentando l'ultimo guizzo dell'avanguardia in Italia prima del buio fascista. Spesso si dimentica che fu "Solaria" la prima in Italia a pubblicare la Woolf, Proust, Steinbeck... Anche Manzini, come la Woolf, vedeva "nell'involucro luminoso" e "semitrasparente che avvolge le cose del mondo"; anche Manzini, come la Mansfield, era capace di farsi "più mela della mela, più anatra dell'anatra" e anche nella sua scrittura si avverte quel "trasmigrare occulto" cioè la capacità di calarsi negli oggetti, nelle creature umili, negli animali, nelle situazioni del mondo, nelle sfaccettature della vita e della coscienza.

Scrittura ermetica quella della Manzini?
Al contrario. Fu parte coerente del modernismo e dello stream of consciousness (flusso di coscienza) della grande narrativa europea di quel periodo.

Ebbe estimatori illustri...
La elogiò Gianfranco Contini e si sa quanto Contini fosse esigente e avaro di complimenti. Gadda già nel '32 parlò per lei di "animismo concettuale"; e poi Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Carlo Bo, Piero Bigongiari, Geno Pampaloni, Domenico Porzio, Claudio Marabini, Giancarlo Vigorelli... tutti ebbero parole di consenso e di stima.

Alla figura del padre è dedicato il libro forse più famoso della Manzini...
Tutta la sua vita fu una lunga ricerca del padre al quale la legava un rapporto profondo, segreto, forse un po' mitizzato. E negli uomini della sua vita cercò forse inconsciamente il padre perduto... E anche il lavoro del padre (orologiaio in via degli Orafi, ndr.) è parente del suo di scrittrice per quella geometrica dedizione fondata sulla pazienza dello stile e del tempo? Non era anche Spinoza un molatore di lenti?

Cesare Sartori
"La Nazione"
28 marzo 2004, p. IX






INTERVISTA A MAURA DEL SERRA

1) Maura Del Serra studiosa, donna di fede, che studia Margherita Guidacci poetessa religiosa. Come ha iniziato i suoi studi a riguardo? Cosa l'ha spinta a scegliere Guidacci?
Credo di potermi definire "donna di fede" in senso lato, ecumenico, unanimistico, non confessionale né dogmatico: fede nella parola poetica come dono e mimesi del Logos che anima la creazione continua. Non ho propriamente "scelto", in senso intellettuale, di "studiare" la Guidacci: piuttosto, nella mia ricerca di maestri e di stelle polari spirituali ed espressive, la Guidacci mi ha attratto fin dalla prima giovinezza per esemplare affinità elettiva, nella sua dignitas espressiva così altamente scolpita ed anti-ideologica, metatemporale ma non anti-storica (anzi, sempre testimoniale, "solitaire et solidale", come diceva Camus). Così, posso dire piuttosto - come, in altro modo, mi avvenne per Campana e per Rebora in ambito italiano - di essermi "sentita scelta" per ascoltare quella Sibilla leopardianamente "fisica e metafisica", classica e cristiana, non "superba" nel senso moderno in cui un po' ironicamente la definiva Giuseppe De Robertis, ma nel senso dantesco di "umilmente superba", di oracolo dell'anima.

2) Nella sua approfondita introduzione al volume che raccoglie tutte le poesie di Margherita Guidacci (Poesie, Le Lettere, 1999), lascia molto spazio, attraverso ampie citazioni, alla voce della poetessa. È una scelta ben precisa la sua?
È stata una scelta necessitante in senso critico-filologico, un dar corpo biografico e dichiarativo alla voce della Guidacci-poeta, che altrimenti sarebbe rimasta etimologicamente "assoluta", scollegata dal suo iter formativo ed esistenziale. Quando uscì il volume, inoltre, non era stato ancora pubblicato il volumetto delle Prose e interviste a cura della mia allieva Ilaria Rabatti, e perciò le citazioni e le dichiarazioni dirette dell'autrice erano essenziali perché il lettore mettesse a fuoco il rapporto simbiotico fra vita e opere in un poeta così accentuatamente "antipersonaggio", così refrattaria al protagonismo e al narcisismo mediatico, così "voce sola" appunto, così "ingovernabile", come lei definiva se stessa nella sua giovinezza anti-ermetica, e come sempre rimase nei confronti delle consorterie letterarie, pagandone il prezzo in solitudine e in persistente erranza editoriale, nonché in una fama (che definirei carsica piuttosto che elitaria) di poetessa cattolico-impegnata (oggi diremmo di "teodem"). Ma non c'è in lei - né può essserci in nessun vero poeta - alcuna dogmatica acquiescenza, bensì la fedeltà all'"inquietudine" (parola a lei cara) nella ricerca della bellezza come verità, e della verità come giustizia, in una sorta di pitagorismo evangelico.

2) Leggendo La sabbia e l'Angelo, Giorno dei Santi, Inno alla gioia, ma anche Neurosuite, mi pare di riconoscere una affinità emotiva fra meditazione, preghiera e poesia. Cosa ne pensa?
In conseguenza di ciò che ho detto prima, in queste raccolte (e in tutta la sua opera) "meditazione, preghiera e poesia" sono inscindibili non solo emotivamente ma spiritualmente ed intellettualmente: del resto, la vera poesia è sempre una sorta o forma di preghiera (anche nelle sue espressioni rovesciate e "maledette") in quanto parola che pronuncia la sacralità della creazione e dell'esistenza, dell'"esserci".

4) Ancora nell'Introduzione a Le Poesie, viene dato molto spazio alle traduzioni di Margherita Guidacci e alla naturale influenza che Dickinson, Eliot, Donne ebbero su di lei. Cosa può dirmi ancora a riguardo?
La traduzione è sempre una sorta di "ponte" formativo e radicante, un esercizio spirituale e formale, un servizio di ascolto dialogante basato sulle affinità elettive: nel caso della Dickinson e di Eliot, tale dialogo-discepolato è stato precoce e costante nella Guidacci, dal soggiorno in Inghilterrra nel '47 fino agli Studi su Eliot del '75. Nel caso di Donne e dei metafisici seicenteschi, l'imprinting è meno appariscente ma non meno profondo (del resto i metafisici inglesi sono una fonte imprescindibile della Dickinson e parte fondante del canone della poesia occidentale stabilito da Eliot negli anni Venti): sono, insomma, una sorta di "trinità" dell'anglocentrismo guidacciano che - pur integrato poi da altri incontri e costellazioni (slava, ispanica, orientale ecc.) - rimase la sua stella polare.

5) Il buio e lo splendore e Anelli del tempo trovano ampio spazio nella sua analisi; motivi neoplatonici-cristiani e mariani sono a suo avviso il filo conduttore di queste raccolte. Qual è, a suo avviso, l'eredità lasciata da Margherita Guidacci?
Più che di "eredità" parlerei di esemplarità alta e solitaria - nel senso "polare" di cui dicevo - nel caso della Guidacci testamentaria del fondamentale Il buio e lo splendore e del pur imperfetto e discontinuo - perché privo del labor limae sottratto alla Guidacci dall'imminenza della morte - Anelli del tempo. La sintesi, o meglio la sinergia fra motivi platonico-cristiani e mariani raggiunta nel Buio e lo splendore è un lascito ideale diretto in forma di dono cosmico e destinale "all'ipotetico lettore" dell'omonima, tenera poesia di Anelli del tempo. In poesia non c'è - se non per gli epigoni - una trasmissione lineare in senso generazionale, ma un'eredità appunto elettiva, vocazionale, come quella dell'antico messaggio in bottiglia.

6) C'è una raccolta in particolare a cui sono legate sue emozioni, suoi ricordi personali? Ce ne sono due: una è la raccolta delle Poesie 1965, che, vista nella vetrina di un libraio pistoiese, letteralmente "mi chiamò" e mi folgorò nella prima giovinezza, e che conservo gelosamente a mo' del predetto messaggio in bottiglia; l'altra è la plaquette Taccuino slavo del '76, di cui la Guidacci mi fece dono con dedica nel 1985, quando vinsi il premio "Ceppo-proposte" della cui giuria lei faceva parte (una quasi reverenziale timidezza ancora giovanile, e la riservatezza di lei, mi impedirono allora di approfondire il colloquio, ma conservo alcune lettere successive, vergate a grandi caratteri per le sue difficoltá visive e di salute).

7) Luzi, nella nota introduttiva a La Fenice, la descrive come una scrittrice che "ha una virtù speciale nell'attingere all'energia operativa della lingua senza adulterarne quella meditativa". Le riconosce linearità, limpidezza, lucidità, un po' come Margherita Guidacci. Sente questa affinità di stile?
La "linearità, limpidezza, lucidità" che Luzi riconosceva nella mia Fenice si riferivano all'impianto strutturale del dramma, centrato su una protagonista assoluta dal destino tragico e perciò da lui definito "lineare come una dimostrazione", mentre il linguaggio, teso a ricreare con moderna ed intima mimesi un barocco ideale, ricco di antinomie e di problematiche psicologico-spirituali e sociali, era necessariamente più complesso, più eloquente, anche se - credo - non oratorio. La Guidacci non ha una produzione drammaturgica (a parte l'oratorio monologante Morte del ricco) e perciò la mia affinità con lei non è tanto espressivo-stilistica quanto elettiva, di fonti e di visione del mondo, di "Sibilla materna" direi, le cui "foglie" sono parte costitutiva del mio libro interiore.

8) Qual è oggi il panorama della poesia, come lo descriverebbe? E della poesia religiosa?
Mi è quasi impossibile rispondere a questa domanda, data la mancanza di distanza storico-critica dalle esperienze poetiche in corso, che mi sembrano, in generale, assai disomogenee (il che è poi naturale, dato che il criterio generazionale ha, come dicevo, valore assai relativo): la tendenza dominante è quella ironico-minimalista (postmoderna, come si usa dire per l'arte figurativa) ma non mancano opposte voci tragico-mitizzanti, neo-sperimentali ecc. Non mi sembra infine lecito distinguere la "poesia religiosa" dalla poesia tout court (o "laica"?): come dicevo, la poesia degna di questo nome è sempre, etimologicamente, una religio, un ponte fra visibile e invisibile, qualunque ne siano la forma e le tematiche: per riprendere il paragone figurativo, le bottiglie di Morandi e le mele di Cézanne non sono meno "sacrali" delle figure archetipiche di Piero della Francesca. La religiosità non è legata a temi e a contenuti devozionali, ma alla qualità fedele dell'ascolto, da parte del poeta-medium (etimologico), di ciò che dantescamente "ditta dentro".

Intervista rilasciata a Donatella Di Russo per la sua tesi di laurea su Margherita Guidacci, discussa nell'Università di Roma "La Sapienza" nella sessione estiva 2008






TYCHE
Centro di Pedagogia Sperimentale
ad Orientamento Psicanalitico


Il lavoro impossibile dell'artigiano di parole

di Pierluigi Sassetti e Giuseppina Pagliafora

Intervista a Maura Del Serra

[leggi]