Pagine di Maura Del Serra
 





        Else Lasker-Schüler, la grande poetessa che Gottfried Benn definì "l'incarnazione lirica dell'ebraico e del tedesco in una sola persona", nacque a Elberfeld in Vestfalia nel 1869 e morì a Gerusalemme nel 1945. Errabonda e fantasiosa frequentatrice del mondo artistico-letterario berlinese legato all'espressionismo, da lei trasfigurato in chiave mistico-magica, fu ispiratrice, amica e corrispondente dei massimi esponenti di quell'avanguardia, da Kraus a Benn, da Werfel a Trakl, da Loos a Walden, che sposò. Autrice di drammi e prose, insignita nel 1932 dell'importante Premio Kleist, fu costretta l'anno seguente all'esilio in Svizzera dall'avvento del nazismo.
        Dopo la prima fortunata edizione (1985) questo volume ripresenta, nella traduzione riveduta e annotata, con testo a fronte e nuova introduzione di Maura Del Serra, la versione integrale delle Ballate ebraiche (1913) e un'ampia scelta dalle altre raccolte liriche di una delle massime voci poetiche del Novecento europeo.

Dalla quarta di copertina (II edizione)


 

ELSE LASKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e altre poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Giuntina, 1985
 
        Else Lasker-Schüler è una delle massime figure della letteratura tedesca del primo Novecento.
        La traduzione con testo a fronte di Maura Del Serra riesce a rendere il fascino più segreto e notturno della poesia della Lasker-Schüler, la contemplazione della morte, scrive la curatrice, "come infinita distanza", e l'eco antica delle inflessioni dei Salmi. Da ricordare l'accurata nota biografica e la bibliografia essenziale, aperta ai non molti (ma significativi) contributi italiani.

EDOARDO GUGLIELMI
"Gazzzetta di Parma", 16 maggio 1985


 


 

ELSE LASKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e altre poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Giuntina, 1985
 
        [...] Quel terribile stroncatore di Karl Kraus, capace di ridurre in briciole anche scrittori di primissimo piano, nel 1909 definì Else Lasker-Schüler "la più grande poetessa lirica che la Germania abbia mai avuto" [...] Ancor oggi la sua voce non appare invecchiata, c'intriga e c'incanta con la perfezione intoccabile di un classico. Per convincersi non resta che leggere un'ottima antologia italiana: Ballate Ebraiche e altre poesie, nell'egregia traduzione di Maura Del Serra (Editrice La Giuntina). Ci sentiremo ventare in faccia un'aria di antichi deserti patriarcali e, insieme, di vivace intelligencia berlinese: una mistura insolita e molto attraente. [...].

ITALO ALIGHIERO CHIUSANO
Radio Colonia, giugno 1985


 


 

ELSE LASKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e altre poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Giuntina, 1985
 
        La Lasker-Schüler è una grande poetessa: l'aggettivo non è speso inutilmente. Purtroppo non è conosciuta come avrebbe dovuto neppure dai germanisti. Esisteva soltanto, prima di questa, un'antologia curata da Giuliano Baioni parecchi anni fa, con traduzioni estremamente sensibili. La Lasker-Schüler appartiene alla prima generazione dell'espressionismo, dove figurano poeti altrettanto importanti, come Trakl, e altri minori come Stadler o Schikele; sono poeti che si collocano alla periferia della lingua tedesca (Alsazia o Slesia) e in questa periferia si colloca anche la Lasker-Schüler, che nasce nel 1869 a Elberfeld in Westfalia e muore a Gerusalemme nel 1945: quindi non fa parte dell'espressionismo berlinese, anche se a Berlino ha vissuto molti anni della sua vita disordinata col fascino della bohème che la induceva a frequentare il famoso "Café des Westens": amava molto vivere nell'ambiente dei caffè, che ai suoi occhi diventavano ricchi di finzioni fantastiche. È interessante l'uso che la Lasker-Schüler fa dei nomi di fantasia, riferendoli, oltre che a se stessa, ai propri amici (Kraus, "il Dalai Lama", Benn, di cui fu innamorata per molto tempo, "Giselheer il Barbaro", Werfel, "il Principe di Praga", e lei chiamava se stessa "Tino di Bagdad"): erano tutti maschere di sogno, stilizzazioni fantastiche in cui il motivo fanciullesco-fiabesco della maschera si intrecciava con quello della fascinazione dell'esotico, che è un motivo originariamente romantico. In questa percezione dell'elemento esotico sta molta della poesia della Lasker-Schüler, con una sottaciuta intenzione antiborghese: il filisteismo borghese, per cui tutto deve rientrare in una determinazione anagrafica rigorosa, viene qui sconvolto da questa grande onda di trasfigurazione fantastica. Tra gli elementi di questa poesia ha poi un ruolo determinante la grande tradizione della cultura ebraica tedesca che culmina in Rosenzweig e in Martin Buber, la tradizione del chassidismo orientale e la mistica kabbalista o la Leienmystik.
        Questa è la prima traduzione delle Ballate ebraiche, alla quale si unisce la traduzione di parti di altre sillogi o cicli poetici, che sono anteriori e poeticamente ancor più significativi. Certamente nella Lasker-Schüler si ha l'identificazione della poesia con la persona: si potrebbe dire di lei quello che Eichendorff disse di Brentano, che la sua stessa esistenza era poesia: c'era in lei questa capacità di identificazione totale nella forma espressiva del linguaggio. Si pensi che quando a Gerusalemme venne proposto alla Lasker-Schüler di far tradurre le sue poesie in ebraico, lei rispose con grande stupore: "Ma sono scritte in ebraico!" e si rifiutò di farle tradurre: lei scrive in tedesco, ma queste poesie vivono profondamente nella matrice ebraica da cui si originano. La loro scrittura è prevalentemente simbolico-metaforica, dotata di un alto grado di stilizzazione dell'imagery, di un'articolazione di Stimmungen, che si inseriscono in questa architettura con un procedimento del tutto libero, senza nessuna "rotondità", con grandi salti ellittici e con questa magia di concatenazione ritmica dei versi: in questa poesia c'è un grado d'astrazione estremo, l'io lirico che parla per "fusioni", per metafore assolute.
        Bisogna dare senz'altro lode alla traduttrice perché l'impresa non è certamente stata facile. Maura Del Serra ha saputo, soprattutto per quanto riguarda i timbri espressivi, trovare delle soluzioni molto felici. Spesso, purtroppo, per un condizionamento dovuto alla difficoltà del fraseggio lirico della Lasker-Schüler, si è vista costretta a moltiplicare i versi, perdendo quella suggestione dovuta alla concentrazione espressiva tipica di questa poesia. Tuttavia si tratta di un lavoro degno di ogni lode; interessanti sono anche le parti filologiche, soprattutto le note, di cui questi testi poetici sono corredati, e così l'introduzione, che pur non essendo di una germanista è però estremamente significativa per tutti i richiami e le indicazioni che ci dà.

FERRUCCIO MASINI
RAI Tre, 20 giugno 1985


 


 

ELSE LASKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e altre poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Giuntina, 1985
 
        [...] La recente edizione italiana delle Ballate ebraiche (1913) costituisce quindi la prima traduzione di una raccolta organica. Vi sono comprese anche le poesie che sono rifluite nel corpo delle Ballate nelle edizioni successive al 1913 e alcune liriche rappresentative di varie altre raccolte. L'edizione è con testo a fronte.
        Questo tipo di versione se preso nel suo vero significato, è un esercizio di grande difficoltà perché, in certo senso obbliga entrambe le lingue a corrispondersi e quasi ad integrarsi l'una con l'altra. Il tentativo di Maura Del Serra, critica di letteratura italiana, poetessa, ha esiti illuminanti e realizza non di rado momenti di autentico splendore linguistico. Ciò è particolarmente rilevante per una poesia che nel fuoco di un'altissima spiritualità religiosa accende un'immaginazione orientaleggiante e una qualità metaforica quasi barocca nell'espansione fantastica eppure miracolosamente essenziale, condensata.
        Ne è un esempio la chiusa bellissima da Il cavaliere d'oro (da Al mio puro amico d'amore Hans Ehrenbaum Degele), con un'immagine da dramma barocco: "Neve nera mi goccia dalle palpebre;/ morta io, gioca tu con la mia anima."

BARNABA MAJ
"Il Resto del Carlino" / Carlino Sette
31 luglio 1985


 


 

Poesia e traduzione
 
        La poesia è sì una ricostruzione o traduzione da una lingua sconosciuta ma anche trascrizione di esperienze linguistiche e storiche: da sempre, dato per scontato l'assioma di Cohen, per cui il senso di una lirica può essere reso ma resta intraducibile la tramatura fonica, la sua musicalità, si è propensi a correre il rischio del fraintendimento pur di riascoltare il calco o l'eco di una forma: Maura Del Serra fa precisamente questo nella sua traduzione-ricreazione antologica delle liriche di Else Lasker-Schüler (Ballate ebraiche e altre poesie, Giuntina, Firenze 1985), protagonista assoluta della cultura mitteleuropea, scolasticamente inclusa (con fuorviante lettura) nell'ambito delle riviste espressioniste berlinesi ("Blaue Reiter", "Sturm"). Un ricco apparato di note biografiche e esplicative della traduzione ci rende conto della vita errante, appassionata, colpita in fronte da un colloquio esclusivo e assoluto con la divinità assente e con la vita: verticalmente dedita alla penetrazione quotidiana del mistero, che è anzitutto tragedia e abbandono-inappagamento d'amore, la Lasker-Schüler è un lirico che con struggente commozione ci brucia col fuoco delle sue domande, con la memoria delle calde affettuosità delle amicizie infantili (e l'intera infanzia è la topica che si oppone, nella perennità temporale, alla storia e al futuro), in una pronuncia perfetta e stringata, potentemente evocativa ed emozionante. Di fronte all'autentico (pagato anche in termini pratici) guardiamo con risibile tristezza ai nostri novelli cantori dell'ineffabile.

REMO PAGNANELLI
"Punto d'incontro", luglio-agosto 1985


 


 

ELSE LASKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e altre poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Giuntina, 1985
 
        [...] Confesso che la poetessa ebrea Else Lasker-Schüler, nata nel 1869 in Westfalia e morta a Gerusalemme nel 1945 era fino a questo libro solo un nome legato all'espressionismo tedesco. Ora esiste, per me, con una voce di misteriosa, profonda, modulata armonia, nel piccolo coro dei poeti che formano la mia privata cantoria. La scelta delle sue liriche che si apre con le "Ballate ebraiche" tradotte integralmente in italiano per la prima volta, è dovuta, insieme all'apparato delle note e bio-bibliografia, a Maura Del Serra, che introduce alla lettura con una premessa che è qualcosa di più che un saggio critico, ma piuttosto una iniziazione rituale, sapiente e colta, ma anche innamorata e umile, alla poesia di Else. Che respira nell'aria del più celebre Rilke e anche del più fantastico Chagall; una poesia antica con i colori della terra e del cielo, eppure giovane e fresca, dove è impossibile distinguere il ritmo del vivere singolo che l'ha nutrita, dall'universale mistero in cui si è naturalmente situata come un fiore o una canzone, ma anche come una preghiera.
        La Del Serra ha scritto, della poetessa che ama, con una sintonia non solo di testa, o di cuore, ma più interamente, d'anima, da donna a donna, cosicché dalla prosa al verso c'è anche in questo libro prezioso una rispondenza che per comodità chiamerò critica, del tutto insolita e che contribuisce a rendere non solo intelligibile ma esaltante l'incontro con una poesia che ha momenti di suprema ineffabile verità diventata per magia di parola espressione e comunicazione [...]

GINA LAGORIO
"La Nazione", 7 settembre 1985


 


 

        [...] La Casa Editrice 'La Giuntina' di Firenze presenta a cura di Maura Del Serra la prima traduzione integrale delle Ballate ebraiche di Else Lasker-Schüler [...] Le Ballate ebraiche (mai pubblicate integralmente e in una traduzione così congeniale) costituiscono davvero l'avvenimento poetico più importante dell'anno. [...] Grandiosa e desolata questa poesia pare ferma in un tempo di chagalliani splendori; mite, potentemente erotica: preghiera, visione, "eresia" si confondono e si amalgamano in una delle voci poetiche più alte e affascinanti del Novecento.

ATTILIO LOLINI
"L'Unità", 9 ottobre 1985


 


 

ELSE LAKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e alte poesie, Firenze, Giuntina, 1985

        [...] Il volume, presentato dalla Giuntina (Ballate ebraiche ed altre poesie di Else Lasker-Schüler, con premessa e note bio-bibliografiche di Maura Del Serra), consta delle "Hebräischen Balladen", pubblicate per la prima volta in traduzione integrale e di una ampia scelta da altre raccolte.
        Le liriche vi compaiono nel testo originale tedesco con a fronte la traduzione (sempre a cura di Maura Del Serra) in una lingua italiana splendida e vibrante, perfettamente aderente allo spirito dell'originale tedesco.

C.L.C.
"Il Portavoce", n. 1, gennaio-febbraio 1986


 


 

ELSE LASKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e altre poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Giuntina, 1985
 
        Else Lasker-Schüler (1869-1945) è quasi una sconosciuta per i lettori italiani, che di lei, prima del volume pubblicato ora dalla Giuntina di Firenze (Else Lasker-Schüler, Ballate ebraiche e altre poesie) a cura di Maura Del Serra, sensibile traduttrice e poetessa in proprio conoscevano poche poesie antologizzate tra quelle degli espressionisti tedeschi o tra gli autori di quel Novecento.
        Si trattava di una dimenticanza, da parte dei traduttori, difficile a spiegarsi, tanto più che la Lasker-Schüler, tra le poetesse ebree di lingua tedesca, è di gran lunga superiore alla ben più nota Nelly Sachs, della quale peraltro non intendiamo sminuire i meriti. Ma proprio una componente essenziale, la coscienza tragica dell'essere ebrei, le lega entrambe ad un'altra figura, artisticamente superiore, Paul Celan.
        Ma torniamo a questa poetessa, che fu amica di molti espressionisti e non espressionisti e che viene considerata, a nostro parere impropriamente, come un'espressionista. In realtà, come nota la Del Serra, la Lasker-Schüler faceva altro. Le sue erano (citiamo dall'introduzione) "in massima parte incantagioni d'investitura drappeggiate e damascate nei velluti nomadi dell'orientalismo di maniera: ma è la stessa 'maniera' simbolica radicale di Rimbaud, che sostituisce la moschea all'officina alienante: per la poetessa, coi suoi eteronimi maschili favolosi e rassicuranti, Tino di Bagdad o Jussuf principe di Tebe, è lo stile della visione, funzionale alla fuga trasfigurante, tanto dall'ebraismo storico sgretolato che diviene elezione di fedeltà (si dichiarava non ebrea per gli ebrei, ma 'ebrea per Dio') quanto del suo randagismo da caffè contornato dal gruppo variopinto degli 'avventurosi indiani' espressionisti, e fra loro degli amici-amati, dedicatari regalmente sublimati di tante liriche - Marc, Walden, Degele, Senna Hoy, la meteora Trakl, l'infelicemente amato Benn-Giselheer, la madre-angelo, il figlio...".

GIOVANNI RAMELLA BAGNERI
"Uomini e libri", gennaio-febbraio 1986


 


 

ELSE LASKER-SCHÜLER, Ballate ebraiche e altre poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Giuntina, 1985
 
        Traduzione italiana con testo originale (tedesco) a fronte del corpus integrale delle Ballate ebraiche, oltre ad un'ampia scelta da altre raccolte di poesie, di una delle voci più significative, e in Italia sconosciute, dell'espressionismo tedesco.
        Else Lasker-Schüler nasce a Elberfeld in Westfalia nel 1869 e muore a Gerusalemme nel 1945, dopo una vita densa di movimento, eventi e incontri stimolanti, qui segnalati da un'ampia nota bio-bibliografica finale.
        Le Ballate ebraiche rivelano alla lettura una profonda, intima aderenza al mondo biblico, reinterpretato dall'autrice in una chiave mistico-magica dalla grande suggestione poetica.
        Al testo originale tedesco fa eco una costantemente rigorosa, essenziale, e nello stesso tempo liricamente seducente traduzione italiana, arricchita da alcune note critico-testuali. Per contro, una breve premessa ed alcune notazioni in limine della curatrice del volume si rivelano del tutto inadeguate ai fini di una maggiore comprensione del testo poetico, a causa di un linguaggio dai toni costantemente ermetici, inafferrabili, quasi enigmatici, di cui forniamo un esempio: "Smarrito il centro oggettivo e tautologico del dogma - pur ancora operante in aenigmate, nei laceranti mandala interiori - il cerchio ha assunto nella Lasker-Schüler l'ossessivo splendore della perdita che forma la circonferenza magico-mitica della psiche (l'altrettanto ossessivo fondo d'oro, bizantino-klimtiano, di tante liriche)..." (p. 5).
        Di ciò non può non risentire il lettore, coinvolto in una pregevole opera di "divulgazione" di un testo e di un'autrice pressoché sconosciuti in Italia, ma lasciato privo di un'introduzione critica e di una guida alla lettura.

ELENA LÖWENTHAL
"Henoch", marzo 1986


 


 

La lirica ispirata di Else Lascher-Schüler
Poesie della sofferenza


        Il caustico, acutissimo Karl Kraus, che parlava all'intelligenza dell'Europa attraverso la sua rivista "La fiaccola", ospitò sempre i testi poetici di Else Lasker-Schüler, definendola "la più grande poetessa lirica che la Germania abbia mai avuto", e per lei organizzò più volte collette di danaro che la destinataria puntualmente ridistribuiva. Il giudizio di Karl Kraus fu pienamente condiviso anche da un altro celebre personaggio e critico severo, Gottfried Benn, che scorgeva nella Schüler "l'incarnazione lirica dell'elemento ebraico e di quello tedesco in una sola persona". Risalgono al 1913 la raccolta di saggi Volti e le Ballate ebraiche, l'opera poetica in cui la Schüler ritrova il rapporto con le proprie radici e accoglie l'eredità culturale del suo popolo. La sua forte personalità e l'intuizione di alcune idee necessarie a costruire un futuro di pace tra cristiani ed ebrei, ma anche tra ebrei e arabi, le procurò inevitabilmente incomprensioni e ostilità. Diceva di sè: "Io non sono ebrea per gli ebrei, ma sono ebrea per Dio". Negli anni Venti e all'inizio degli anni Trenta la poetessa tedesca s'impone all'attenzione della cultura europea con i suoi scritti in prosa e nuove raccolte di versi. Ma quando sembra aver toccato il punto più alto, allora Hitler diventa cancelliere della Germania: Else fugge immediatamente a Zurigo, senza portare nulla con sé, e lì vive per mesi in assoluta indigenza, venendo persino arrestata per vagabondaggio. Poi due amici greci ebbero sue notizie e vennero in suo soccorso: le permisero anche, passando per l'Egitto, di metter piede in Palestina, la "patria madre" che si portava dentro fin dall'infanzia. A quel viaggio ne seguirono altri due nel '37 e nel '39; ma durante il terzo soggiorno le fu tolta la cittadinanza tedesca e così non poté rientrare in Europa. Lo scoppio della guerra e la contrapposizione crescente fra arabi e israeliani la resero invisa a tutti a causa del suo ecumenismo religioso e dell'apertura alle ragioni anche dei palestinesi. La morte giunse liberatrice il 22 gennaio 1945 poco dopo aver finito di scrivere un dramma, il Foeio, in cui i contrari si alleano per difendere l'inferno da Hitler. Nel volume pubblicato presso le Edizioni Giuntine di Firenze, con il testo tedesco a fronte, Maura Del Serra, a sua volta poetessa, ha tradotto integralmente le Ballate ebraiche e un'ampia scelta di liriche tratte dalle altre principali raccolte. La voce di Else Schüler non poteva rimanere inascoltata in Italia.

emmepi
"Giornale di Brescia"
9 settembre 2000


 


 

Else Lasker-Schüler

        Doveva essere uno spettacolo vederla entrare nei caffè di Berlino alla fine dell'Ottocento: capelli neri e corti, corpo efebico, pantaloni da odalisca, polsi e caviglie piene di bracciali e alle dita anelli di latta e vetro colorato. Non piaceva a Kafka la sua stravaganza ma ebbe amici illustri come Max Frisch e il poeta George Trakl, del quale presagì il suicidio in un sogno. La vita di Else ha una matrice tipicamente femminile: è orientata alla generosità, al dispendio delle forze per una causa superiore che spesso diventa il luogo di un mondo parallelo dove realtà e fantastico si intrecciano senza possibilità di distinzione. Per l'amico anarchico Johannes Holzmann fece un viaggio a Pietroburgo nel tentativo di salvarlo dalla prigione zarista e per questo venne arrestata, nell'agosto del 1914, quattro volte. Quando, lei che era di famiglia ebrea, nel 1934 si rifugiò a Gerusalemme, il suo universalismo fantastico le fece concepire un'idea grandiosa che lasciò senza parole l'editore Schoken: perché non costruire una immensa giostra per rendere possibile la pacificazione tra ebrei e arabi? Sarebbe davvero servita questa enorme ruota, che nel suo girare fosse ora di qua ora di là, vanificando il confine con una risata? Sì, sarebbe servita, ma i poeti hanno sempre idee che non piacciono ai politici, che non credono alla potenza dell'amore, del gioco e della condivisione. Else Lasker-Schüler ha scritto poesie d'amore straordinarie, anzi le sue sono poesie sull'innamoramento, cioè sull'inizio, su quell'inizio che le donne e i poeti pensano che debba durare in eterno. Aveva un cuore incandescente e libero della cui forza lei stessa aveva paura. La notte per attenuare il rumore dei battiti dormiva con una sveglia sul petto. È morta a Gerusalemme nel 1944 d'infarto. Le sue poesie, oltre che da Mondadori, sono state pubblicate dalla casa editrice Giuntina e meravigliosamente tradotte da Maura Del Serra. Un saggio indispensabile è quello di Uta Treder in Transizioni. Saggi di letteratura tedesca del Novecento pubblicato da Le Lettere.

albadonati@dada.it
"Il giorno", 23 ottobre 2000


 


 

Di là dell'"ultimo mare"
Poeti d'Israele e di Palestina

"Troppo io ho dimorato
Con chi detesta la pace.
Io sono per la pace, ma
Quando ne parlo
Essi vogliono la guerra"
(Salmo 120)

1. A noi che ci affacciamo sul Mediterraneo - il biblico "ultimo mare" - tocca esprimere un pensiero sulla poesia di dolore e di pena di due grandi popoli: il palestinese e l'israeliano. Nessun canto si leverà al Signore dalla terra di Palestina: non lo intoneranno gli israeliani, non lo intoneranno i palestinesi, alla maniera di Mosè, nel libro dell'esodo: "Il Signore è prode in guerra: / Jahvè è il suo nome. / [...] / La tua destra, o Signore, è magnifica nella potenza, / la tua destra, o Signore, spezza il nemico". Molte mamme israeliane e palestinesi, pur dai loro campi avversi, sanno bene "di che lacrime grondi e di che sangue" la loro storia, avendo in comune il pianto e lo strazio per i giovani figli caduti. Tra rivolta e utopia pacifista, unica realtà restano il sangue e le lacrime; e le mutilazioni del corpo, cui assai spesso corrisponde la "mutilazione" dello spirito. Dopo il 1948, con la nascita dello Stato di Israele, inizia la decadenza della cultura ebraica della diaspora e, di contro, si viene affermando la nuova cultura diasporica del popolo palestinese. Si consideri la cultura ebraica della diaspora, quella poniamo di Odessa, Varsavia, Vilna: essa ha legami profondissimi nei millenni con situazioni e motivi biblico-vetero-testamentari, là dove è presente il richiamo agli ideali dei profeti, all'invocazione, al ringraziamento, al dolore-ribellione per le pene subite, al senso di colpa. Col ritorno in patria, dopo il 1948, questa cultura è intrisa di una profonda nostalgia verso i paesi d'origine abbandonati. La catabasi dimidia e disperde gli affetti, genera il canto elegiaco per la privazione e lo sdoppiamento tra i nostoi: quelli che affondano le radici nella tradizione biblica e quelli dell'esilio, dei ricordi legati ai tempi dell'anabasi. Il meccanismo è dei più perfidi. Siamo al grande travaglio esistenziale intimamente connesso col contingente della storia: da un lato il ricordo bruciante di ferite mai rimarginate per l'olocausto (si pensi, solo da noi, alle migliaia di ebrei che, a seguito dell'ordine di Buffarini Guidi, nel 1943, furono deportati e inviati allo sterminio) dell'ebraismo europeo durante la seconda guerra mondiale, dall'altro la somma di problemi pressanti che ineriscono alla colonizzazione di Israele in una Palestina ora divisa tra arabi e ebrei e con una Gerusalemme israeliana fortemente militarizzata, dove sono costretti a coesistere arabi e musulmani, arabi cristiani ed ebrei. Le linee di demarcazione tra le quali viene confinata o dove viene relegata la "libertà" di un popolo o dalle quali si sprigiona la forza dirompente del potere sono puramente ideali, essendo il dolore l'unica grande realtà che accomuna quanti soffrono quell'al-di-là e quell'al-di-qua delle linee di demarcazione. E tuttavia, l'israeliano Amos Kenan, nel suo romanzo fantapolitico di anni addietro - La via per En Harold -, ponendosi il problema di una nemesi per Israele, finisce per chiedersi se per caso gli ebrei, da vittime, non siano diventati carnefici. Il dato obiettivo restano i morti d'ambo le parti, tra Cisgiordania e Gaza, e i morti palestinesi dei villaggi di Jebel Mukabbar e Silwan, nella periferia orientale di Gerusalemme e ancora nei villaggi di Yatta e Yaabad. Questa, in definitiva, la verità su cui possiamo e dobbiamo interrogarci. Il resto rientra nel giuoco spregevole dei grandi burattinai della Storia, che scatenano guerre di pupi per le conquiste o il mantenimento di aree di potere funzionali alla strategia della forza, del dominio e del neocolonialismo. Un itinerario all'interno della cultura ebraica della diaspora ci farà incontrare alcuni significativi esponenti della poesia dell'esilio, a partire da Else Lasker-Schüler (1869-1945), vicina a rappresentanti dell'avanguardia tedesca come Krauss, Benn, Trakl. Le sue Ballate ebraiche è possibile apprezzare nella bella versione di Maura Del Serra, particolarmente là dove l'invocazione diviene la voce di tutti i poeti della diaspora: "Ed è muto il mio mondo - / i miei umori, tu non li frenasti. / Dio, dove sei?" (A Dio). Si dovrà giungere a Caos per avvertire la sofferenza per lo sdoppiamento e la sindrome dell'esilio: "Non mi ritrovo più in quest'abbandono / di morte; e d'essere mi sento / a cosmica distanza da me stesso / [...]. // Io vorrei che un dolore si svegliasse, / che giù senza pietà mi rovesciasse, / e che in me bruscamente mi gettasse // e che nella mia patria / nuovamente posarmi sotto il seno materno / piacesse al Creatore". È come un canto-pianto della diaspora che si arrovella nella contemplazione e/o nel vagheggiamento di una terra lontana, forse, come lo stesso Cielo. È la pena di una natura umana che la "cacciata" non ha mutato; ed il senso di un implacato smarrimento esistenziale che ha radici nella condizione erratica dell'ebreo. Un riferimento sempre ritornante al Cielo, comune alla gente della diaspora, e, di contro, la solitudine di ognuno proiettata su uno scenario di assenze e di ricordi, di nostalgia e di rammarico: "Ma sfuggito alla terra, presso il Sinai / trasfigurato tu sondi - / Lontano estraneo passi oltre il mio mondo" (Al trasfigurato). Una fede nell'affermazione ebraica in terra d'Israele e nella coesistenza attiva coi fratelli, sebbene assai spesso affiorino motivi di disperazione giobbica, pervade i versi di Chaim Nachman Bialik (1873-1943): "Perch'io [...] dentro di me il mio cuore è morto, / sulle mie labbra è spenta la preghiera. / La forza m'abbandona; s'è dispersa; / perfino la speranza m'ha lasciato. / Fino a quando? fin dove? fino a quando? / [...] // Tu spacca il cranio: il sangue sgorgherà, / sangue di bimbo e sangue di vegliardo / sulla tua veste: e mai scomparirà" (Il massacro). Agli sfoghi giobbici del poeta "classico" Bialik si oppone, potremmo dire, Avraham Shlonsky (1900), tra i maggiori della poesia di Israele, ebreo russo che torna in Palestina nel 1921: un esempio di questo suo atteggiamento è possibile cogliere in Pietre grezze, raccolta di poesie del 1960, dove l'antico paesaggio biblico con le sue dune, gli avvoltoi che veleggiano in cielo, le lente e lunghe carovane, il pacifico gregge vengono investiti e coinvolti nel progetto di ribellione del poeta alla tradizione ebraica in nome di un "modernismo", in senso efficientista, che egli ritiene più consono ai tempi: "Per tante e tante generazioni / le sabbie - e sembrano grandi mammuth - / si sono stratificate. / La loro ribellione / nell'ozio s'è calmata. / E nessuno è venuto / a disturbarle // [...] // Ecco che s'ode un guizzo e un fischio / da duna a duna: / 'Presto la ghiaia / a me il bitume // serriamo il mammuth - / dentro una trappola di muratura'" (Davanti al deserto). Shlonsky è dunque, col suo "pragmatismo" poetico, ispiratore del rinnovamento di Israele. Ma il rinnovamento e la nascita dello Stato di Israele si affermano con la negazione del popolo palestinese che inizia a sua volta, la propria diaspora vivendo l'esperienza drammatica di un ulissismo disperato con la gente di Israele, fatto di nostalgie, di rancori, di aneliti, di ricordi, di immagini, di desolazioni e di crudeltà: questi, ci sembrano, i temi emotivi che sostanziano la poetica di Chaim Guri (Tel Aviv, 1923): "Uno sbaglio può sempre avere rimedio, / pensava Ulisse nel suo stanco cuore. / E tornò al bivio, ch'era proprio accanto / alla città vicina, alla ricerca / della sua patria, senz'acqua né sponde" (Ulisse). Nella sua apertura europea (a Parigi, dove si era recato per un corso di perfezionamento dopo la laurea in lettere all'università di Gerusalemme, conosce la poesia francese e élouardiana), egli può meglio osservare e valutare la specularità del dramma che coinvolge i due popoli: cosicché, potrà, in un flash sul paesaggio della guerra di indipendenza israeliana, fissare lo squallore e la distruzione di Bab-el-nad, lungo la strada per Gerusalemme: "[...] nera via d'asfalto. / Vertice e pietre. Scende lentamente / la sera, e là dal mare soffia il vento: / A Beth Machshsùr luce la prima stella. // O Bab-el-nad // Mai non dimenticare i nostri nomi" (Bab-el-nad). Tuvia Rivner (Cecoslovacchia 1924), autore di Il fuoco nella pietra (1957), vive in Palestina dal 1941. La sua poesia, tra scanzonata gioia di vivere e sogno nostalgico di luoghi e di età definitivamente mutati, ha come sottofondo il senso di un peccato dell'uomo che confina col mistero. Cerni Carni (New York, 1925), dal 1931 al 1934 visse a Tel Aviv; è in Palestina dal 1947. Insegnò in un campo di profughi ebrei in Francia: di questa esperienza, come anche delle sue traduzioni da Elouard, risente molta sua poesia, soprattutto la raccolta di versi Non ci sono fiori neri, dove il senso di colpa dell'umanità sembra a volte essere espresso da un cupo ritmo del mare in tempesta o da un senso di sprofondamento nei suoi abissi: "finché dagli occhi nostri il nostro sangue / perseguitato non sprizzi, e si sciacqui / di tutto il sale della nostra colpa / nell'eromper dell'onde" (L'ultimo mare).

2. Poesia dell'identità quella dei poeti palestinesi, la quale rivendica il diritto di integrazione-interazione con la realtà del mondo arabo, dettata dalla necessità vitale di accogliere in sé i grandi temi sociali della giustizia e della libertà, in altre parole il diritto di esistere e per la cui affermazione, nello spazio-babele di etnie, questo popolo rischia quotidianamente gli effetti del monito biblico: "chi di ferro ferisce, di ferro perisce". Noi siamo i contemporanei di questa storia e così come accogliamo la denuncia contro la violenza, respingiamo ogni perfido meccanismo che generi altra violenza e avvilisca e confonda la nobile causa degli ideali da perseguire, perpetuando il dolore storico e biblico di quella terra. La poesia palestinese ha una data precisa: il 1948, la nascita dello Stato di Israele e, di conseguenza, l'esodo palestinese con tutto ciò che ne segue: dalla guerra dei "sei giorni", che nel 1967 segna la sconfitta degli arabi, alla repressione, nel 1970, della resistenza palestinese. Una data precisa, dunque, e nomi precisi che della parola poetica hanno saputo fare - insieme all'Intifada - l'arma per la loro lotta di liberazione. Ne ascolteremo alcuni fra i più significativi. Mahinud Darwish (Galilea, 1941), del Comitato esecutivo dell'Olp: a lui è stata affidata la stesura della proclamazione dello Stato Indipendente Palestinese; e naturalmente tutti quelli della sua generazione: da Samih Al-Qasim a Tawfiq Zayyad a Rashid Husayn e ai molti autori anonimi che hanno saputo mettere in versi il dramma profondo della storia palestinese e dei momenti cruciali dei suoi quarant'anni: l'esodo, la violenza, la resistenza. Nella struttura narrativa del poemetto di Darwish, Il sogno dei gigli bianchi (cfr. l'antologia Palestina, 1982), è, sì, drammatizzato il sogno ma anche la protesta, la lotta, la speranza attraverso frequenti elementi simbolici quali "colombi", "gigli", "uccello bianco", "uccello nero", che il poeta accosta a momenti di cruda realtà: "Fumo un poco, poi disse / come fuggendo uno stagno di sangue: / Io sogno gigli bianchi / in un ramo d'olivo, / un uccello che abbracci il mattino / sopra i fiori di limone". Samih Al-Qasim (Giordania, 1939) ci pone di fronte a un "parlato" insistito, incalzante, anaforico, proprio dell'accusa e della rabbia, del manifesto, del comizio e della rivolta, ricco di elementi simbolici e di riferimenti alla cultura e alla favolistica orientale. Una scrittura poematica che "racconta", per metafora, la solidarietà del dolore dell'esilio e le impossibili vicende della resistenza palestinese, ma soprattutto lo stato d'animo di chi sa di essere solo nell'emergenza e, peggio, di essere strumento dei grandi Stati, la cui supremazia sul resto del mondo è regolata dall'antico divide et impera: "a colui, i cui aerei infrangono i sogni della fanciullezza, / a colui che spezza gli arcobaleni, / annunciano questa notte i fanciulli di Rafah: / Noi non tesseremo coperte da una treccia di capelli. / Noi non sputammo sul viso di un'uccisa / dopo averle estratto i denti d'oro [...]. / Perché prendi il nostro dolce / e ci dai pallottole? / Perché rendi orfani i fanciulli degli arabi?" (I ragazzi di Rafah). Tawfig Zayyad non si è mai mosso dalla Palestina in cui è nato. Anche lui "poeta della terra occupata", dell'Intifada e della resistenza palestinese è accusato di appartenere all'Olp e più volte imprigionato. I suoi temi sono l'esilio e la minaccia sionista, nel senso della volontà perfida di annientamento della gente palestinese. C'è come una maestosità nella determinazione di questo popolo alla resistenza fiera e ai lutti nel nome di un loro sacrosanto diritto alla propria identità. Cronache luttuose e agghiaccianti corrono sul verso di Zayyad: "Migliaia di arabi massacrati e / ciascuno di loro è più prezioso di un sacco pieno d'oro; / il loro delitto è di non avere voluto rinunciare / alla parentela / mantenuta per più di vent'anni / con la terra che li ha partoriti: / la Palestina" (Diario di sangue). Una scusa e una sfida continua, riprese a ogni occasione insieme alla dichiarazione gridata di orgoglioso attaccamento alla terra di Palestina. Una disperazione giobbica, peraltro già incontrata nell'ebreo Bialih, è sempre presente in Hanna Abu Hanna (Palestina, 1928), tenacemente legata alla cultura araba: il suo umanitarismo biblico permea tutta quanta la sua tematica poetica, il cui nucleo è costituito dal dolore della tradizione ebraica (la sofferenza di Giobbe) e di quella cristiana relativamente alla sofferenza della croce: "Il mio paese è Giobbe / acceso di speranze" (Storia di un villaggio). Hanna Abu Hanna è poeta che narra il dramma vissuto dai palestinesi e li esorta col proprio "racconto" sull'oppressione, sul sangue, sulla distruzione e l'inquinamento ambientale ("Aria di piombo fuso / avvelena la terra. / Muore l'aroma sopra le colline") a difendere la loro storia e ogni palmo della Galilea. Bisognerà giungere ai canti anonimi dei "poeti della terra occupata" per comprendere meglio e meglio immedesimarsi nella filosofia e nella psicologia della resistenza che giustificano ed esaltano l'azione dell'occhio-per-occhio, dente-per-dente: direi che nei canti anonimi, che possono essere letti continuativamente come un solo, unico, ossessivo canto di incitamento alla lotta di liberazione e alla sfida, c'è un'etica della resistenza ("E quando anche il mio corpo / non sarà che una piaga, / col sangue delle ferite resisterà") giustificata da una necessità imperativa e vitale di respingere i soprusi e rivendicare al popolo oppresso il diritto di sopravvivenza e di libertà, come qui, in Un solo medesimo sangue: "Vittoria, Al Fatah! / La nostra rivoluzione trionfa, / e trionfano le mani che fanno saltare i carrarmati. // [...] // Per la guerra popolare di liberazione, un solo e medesimo sangue" (Storia!). E storie di sopraffazione e di morte, di mutazione, di insidie subite e lungamente vissute da questa gente che ancora oggi vive le proprie stimmate bibliche nella geografia perennemente sconvolta e incerta dello sdoppiamento e della schizofrenia, sino a spingersi al gesto estremo della violenza come arma contro la violenza subita e come sinistra preghiera di speranza che lo spargimento di sangue dei martiri della Palestina sia, alla fine, l'unico possibile rimedio alla lotta per la indipendenza di quello Stato. Mentre Yasser Arafat discute ad Algeri della proclamazione dello Stato indipendente nei territori occupati da Israele, Shamir tuona definendo la cosa "una pericolosa illusione". E d'altra parte, la realtà è ancora di minaccia, di sfida e di lotta: sulla striscia di Gaza vige il coprifuoco; in Cisgiordania la popolazione non può lasciare le zone di residenza; molti i posti di blocco nella militarizzata Gerusalemme; bloccati i villaggi della Galilea. Una quasi lettura sinottica della poesia degli israeliani e dei palestinesi, così come ci fa cogliere il filo sottile che conduce nella lontana tradizione preislamica a cui appartennero i poeti esuli della Sicilia al tempo dell'occupazione normanna (per tutti valga il nome di Ibn Hamdis, per il rimpianto della terra d'origine e per il dolore dell'esilio), allo stesso modo ci pone di fronte a una comune pena esistenziale e storica che nutre e tormenta la lirica di questi due popoli in perenne ostilità. I temi, certo al di là dell'ottica politica e delle divergenti ragioni, sono quelli del dolore come conseguenza della perdita d'identità, della condizione dell'esilio che si accompagna alla ricerca della terra perduta e dello scontro che rinnova i tempi biblici di violenza e di odio (cfr. il Salmo 120; e non sfuggano gli episodi di questo anno duemila!).

GIOVANNI OCCHIPINTI