Pagine di Maura Del Serra


CONSIDERAZIONI DI POETICA



IL POETA COME TRADUTTORE
AUTORIFLESSIONI MINIME


        La solitaria ricerca lirica che mi pronuncia e mi esprime (la "solitudine corale" del poeta che è nel mondo ma non sostanzialmente del mondo, copista e traduttore dall'invisibile) mi ha sempre, spontaneamente e talora duramente resa refrattaria alle varie squille sperimentalistiche e all'effimera aggressività delle avanguardie o dei gruppi riconosciuti nel confuso panorama contemporaneo; quella che io perseguo – meglio, che attraverso di me si persegue – è piuttosto l'intemporale avventura della poesia come conoscenza, ad un tempo vitale ed ontologica, sensibile e spirituale: quotidiana "magia pratica" se si vuole, carmen o imperfetta preghiera tesa a restituire alla nostra percezione del mondo – non al mondo, che mai l'ha perduta – la sua pienezza e giustezza di presenza, alla verisimiglianza passionale dell'io la verità minima e cosmica del Sé che in ogni cosa e creatura si vela e si svela silenziosamente. È dunque una ricerca che posso dire più consonante all'accezione religiosa, vasta ma precisa, dell'antico ermetismo che a quella letteraria della corrente novecentesca nota con questo equivoco epiteto; molteplici – e, credo, più spontanee che culturalmente costruite – sono infatti le ascendenze e le consonanze di tale unitaria radice religiosa della mia poesia, rese sincronicamente omogenee dalla stessa qualità e intenzionalità meta-letteraria della parola-cosa (l'ebraico davar), che anche in me cerca di tradurre la svariante epifania del divino nell'umano secondo la sua logica (il suo logos): consonanze più che fonti, accostate non per onnivoro sincretismo ma appunto per spontanea "sete della fonte" comune: la tradizione platonico-cristiana e quelle orientali, buddiste e taoiste, la mistica medievale e barocca, i poeti elisabettiani e fra essi il grande George Herbert (di cui ho da poco tradotto una ricca scelta, ancora inedita, da The Temple) lo spinoziano amor Dei intellectualis fatto carne e opera in Simone Weil (di cui pure ho tradotto le poesie, di prossima pubblicazione presso Adelphi), l'altrettanto vertiginosa ed umilmente esemplare consumazione di Rebora, della sua verticale testimonianza lirica, nell'ortodossia ecclesiale (v. il mio studio Lo specchio e il fuoco, 1976), le bianche sintesi visionarie della "monaca ribelle" Emily Dickinson, l'eros ludico e il misticismo tragico di Else Lasker-Schüler (di cui pure ho tradotto un corpus di liriche, Ballate ebraiche e altre poesie). Altre ascendenze elettive mi legano – come l'atomo alla galassia – alla monodia di lode gregoriana, allo "stile concitato" di Monteverdi, a Mozart che contempla la fiaba vitale in dolente allegrezza, ai ciclici "duomi" meditativi di Bach... La poesia, che mi è dunque madre e maestra profonda, è creativa secondo l'etimo, ascesi verbale e (perché) autoconoscitiva, tentata mimesi e metessi della creazione continua del mondo da parte del divino: e quindi è scienza intuitiva e sperimentale della soglia, della condizione liminare in cui si toccano e interagiscono i diversi regni e potenze del creato stesso: è – vorrebbe essere, chiede di essere – bilancia, croce degli opposti o pietra di paragone fra anima e parola, io e mondo: paradigma almeno potenziale di verità secondo la formula di rapporto goethiana, capace quindi di mediare fra immagine e forma, apparenza e sostanza, mente (civiltà) e natura (dette un tempo res cogitans e res extensa, ovvero esperienza ed innocenza, consapevolezza e meraviglia). Il mare della vita e il cielo della scrittura si toccano sulla linea d'orizzonte della poesia che – al grado più alto – è la luce che li rende entrambi visibili ed eterni (quali sono) per tutti: la poesia è il limitante che contiene tutti gli illimitati, ed è composta per metà di lusinga (la parte letteraria, consolatoria, che proviene dall'io) e per metà di visione (la parte assoluta e oggettiva che proviene dal Sé): in questo senso, rovesciando l'assioma mallarmeano, si può dire che l'universo del libro esiste per metter capo a un mondo, al mondo vivente che è Parola oggettivata: e che il primato dell'arte e della poesia è – dantescamente – un primato ancillare, strumentale, nel senso musicale, politico o "femminile" del termine (nel senso in cui un grembo è srtumento di vita). In questa funzione, se la poesia occidentale ne ritroverà la coscienza, sta la sua dignitas e la sua salvezza dal perdurante faustismo di eredità romantica, che ciclicamente la conduce all'afasia e all'autodistruzione.
        In concreto, le tappe personali di questa ricerca sono state finora le raccolte liriche L'arco (1978), La gloria oscura (1983), Concordanze (1985), dove progressivamente le premesse, dapprima sintetiche e quasi privatamente "cifrate" del mio cammino verso l'autocoscienza, si sono venute aprendo e arricchendo in animate dialettiche di temi ed elemanti (e quindi di linguaggio): il maschile e il femminile nella loro dimensione concreta e simbolica, il "vario fuoco" vitale, gli incanti dell'eden e il "tempo anfibio" della storia, la dimensione familiare e materna e quella impersonale, il quotidiano e il mitico (v. il recupero di tale secondo polo, in chiave metaforico-apollinea, nella sezione finale di Concordanze, Due miti), la morte e la rinascita, gli errores ulissiaci e le "geometrie della pietà" che sole possono ricomporli in armonico intelligere. Nella corposa quarta raccolta di imminente pubblicazione, Meridiana, quest'ultimo elemento – che è la shakepeariana ripeness, la maturità come pienezza di accettazione testimoniale, e rifiuto del limbo di onnipotenza onirica – assume un sapore di più vasta e schietta vivacità vitale, che esplora e concerta i risvolti "teatrali" e ludico-drammatici di varie "voci" e tipologie proiettive, oppure fissa i momenti riflessivi del proprio esserci per fare (dasein e poiein) nei pensieri della sezione finale, Senza verso, sigillandovi una tappa importante, se non definitiva, del proprio divenire per essere attraverso la vita, e della propria vita attraverso la poesia.

(1986)






UNA COSTELLAZIONE MEMORIALE


        Forse con qualche eccesso od indebito orgoglio, mi piace pensare alla nostra come all'ultima (per ora) generazione agonica europea, all'ultima espressione di quel gusto vocazionale alla testimonianza, al coinvolgimento inscindibile fra vita, pensiero e poiesis, intrecciato in una trama accesa con la storia contemporanea (gli anni Sessanta, il tempo della nostra formazione) mediante i fili policromi delle speranze e delle fedi personali, innestati a loro volta sull'ordito dell'utopia salvifica, palingenetica, che nutriva irripetibilmente gli anni kennediani e conciliari (è indubbio che dietro il '68 ci fosse, secolarizzata e politicizzata più in superficie che in profondità, la sete di quella renovatio che affonda le radici nella tradizione protestante e, a monte, in quella apocalittica del cristianesimo gnostico, che produsse nel Medioevo le "eresie" catare e albigesi): del resto il marxismo – con cui la nostra generazione ha ereditato dalla precedente l'impegno a fare i conti risolutivi, liquidatori, sul campo della società tecnologica, ma senza la tragica semplificazione della scelta operata dalla guerra e dalla Resistenza – il marxismo non ha mai nascosto la sua struttura di setta e di Chiesa alternativa, evidente nei suoi "santi", chierici e vangeli rossi. Per chi, come me, veniva da un habitat familiare ferito nelle sue elementari certezze vitali, sfornito peraltro di parapetti borghesi e di torrette ufficialmente intellettuali, per chi viveva in un microcosmo sostanzialmente ancora paesano (estollente il suo buon liceo di provincia, il Forteguerri, come un vessillifero ostenta lo stendardo odiosamato della sua secolare confraternita), l'assimilazione dei classici non fu coatta né ornamentale, ma perseguita con urgenza responsiva e bisogno di radicamento in un passato che sentivo spesso più presente del disagevole presente. L'assimilazione fu dapprima affiancata da una prevedibile congerie autodidatta di letture avide e non orientate (ricordo che allora i beats convivevano sul comodino e nella borsa con Maritain e con Goethe, Pasternak e Garcia Lorca con Tomasi di Lampedusa, Hawthorne ed Eliot con Musil e Kafka, Cechov e Nietzsche con Theillard de Chardin, allora da noi all'apice della fama, l'indigesto Sartre con l'amato Oscar Wilde e con l'amatissima galassia incantatoria di Proust): letture che comunque gravitavano tutte o quasi attorno all'alveo (spontaneamente cercato attraverso gorghi intimistico-elegiaci) della più tesa esperienza poetica europea, cioè di quella che più tardi avrei appreso essere il terreno dell'hölderliniana poesia pensante, ma che verso il '66-'67 mi appariva sotto le vesti variegate e avventurose, festive nella loro scommessa estetica, del decadentismo e del simbolismo, francese e russo in paricolare (il corrosivo Rimbaud, il corrusco e doloroso Baudelaire che scopersi anche grande critico d'arte, il lunare Mallarmé, l'ironista Laforgue e i crepuscolari belgi, l'amatissimo Blok per il quale tentai invano di imparare il russo, Solov'ev e Beliy, nonché la musica e l'arte coeve, da Debussy a Mahler e da Skrjabin ai fauves): esplorai insomma il decadentismo europeo con fervore di neofita, eleggendo le sue voci portanti ad antitesi un po' semplicistica dell'estetismo dannunziano e del rinunciatario puer pascoliano doverosamente propostici dai programmi scolastici (anche la lezione di Montale, del primo Ungaretti, di certo Saba, agì, lateralmente, più tardi).
        Questa costellazione letteraria e poetica (non distinguevo allora fra i due elementi) in cui dominava di fatto la lezione romantica del titanismo demiurgico e della oltranza faustiana, non venne offuscata, ma semmai esaltata dal clima di Sturm und Drang ideologico-sperimentale (chi non ricorda "l'immaginazione al potere"?) in cui mi trovai scagliata all'avvio dell'università: le letture, diciamo, d'obbligo elettivo, degli amici e compagni di allora (Marcuse e Lacan in testa e i formalisti-strutturalisti a rincalzo, corroborate da dosi inizialmente notevoli di cortei, assemblee, dibattiti e volantinaggi, nonché da sociologia e cinema impegnato e "terzomondista") per la verità non mi entusiasmarono quanto gli incontri e le esperienze intellettuali precedenti, ma mi confermarono dal mio angolo – che è sempre stato, per destino, solitario, e mai ha potuto riposarsi o rassicurarsi in gruppi e consorterie – la tendenza propria della mia generazione, e forse di tutte le generazioni più vive, quella appunto a radicarsi nelle idee: tendenza che negli anni '70 divenne per alcuni, come è noto, antitesi con la realtà, violenta fino all'eversione socio-politica, ma che si è coerentemente conservata ed evoluta fino ad oggi sotto varie vesti (ecologiche, pedagogiche, parlamentari, perfino accademiche) nei migliori e meno velleitari rappresentanti di essa. I Bildungsjahre e il regno cangiante dell'inquieta possibilità (che i versi scritti allora non placavano) si chiusero per me nel 1973, quando il dopo-laurea e l'inserimento non agevole nell'insegnamento universitario coincisero con una forte crisi privata e con una sorta di morte e rinascita salutare, che mi proiettò di peso, con un moto dolorosamnete esaltante eppure naturalissimo (il contraccolpo dal fondo all'alto di cui avevo letto in Kirkegaard senza capire) verso il mondo della necessità, cioè il mondo oggettivo della creazione con le sue leggi, che non negano ma comprendono la possibilità. Non fu un letterario ritorno all'ordine dettato da stanchezza del "placet experiri", ma una vera e sorgiva presa di coscienza dell'ordine profondo (cosmico, sociale, individuale, emotivo, espressivo) che regge l'apparente caos della molteplicità recepito dall'io, di cui finora ero stata inconsapevole e poco lucida prigioniera. A questa prima "discesa alle Madri" non furono estranee le consonanze allora già annose, ma che assunsero un nuovo senso umano, empatico, con il composito mondo dei vociani: l'"orfico" Campana, scoperto prima di ogni moda nel lontano '65 e poi fatto oggetto dei primi studi critici in volume, il tormentato spirito religioso di Boine e di Jahier, di cui scoprivo in me stessa "la ferita non chiusa" e il "servizio lirico", fino allo straordinario espressionismo stoico e tragico di Michelstaedter (di cui solo l'orgogliosa astrattezza giovanile persuause le intuizioni alla morte anziché alla vita) e soprattutto l'assoluto materno e la "mania dell'eterno" di Rebora, che da quegli anni non ho cessato di rileggere e di amare come un retto esempio del viaggio interiore, un amico eticamente adamantino ed espressivamente ricchissimo, incandescente e tenero, mai menzognero o furile. Ma soprattutto – propiziata da contatti umani fondamentali e "fatali", irripetibili nella loro provvidenzialità che imparavo in re a riconoscere – agì in me la scoperta della musica antica, il gregoriano, la polifonia rinascimentale, il barocco, Bach, Mozart, e parallelamente quella delle altre cattedrali di segni sacri, le tradizioni religiose occidentali e orientali, dai Vangeli (le cui pieghe conoscitive mi si svelavano soprattutto nel testo greco-latino, e arricchendosi nei cosiddetti "apocrifi" gnostici) ad Agostino, a Dante, ai mistici medievali e barocchi (San Juan, Eckhardt) alle Upanishads e alla Gitâ fino ai testi taoisti, zen e sufi (col grande poeta Rumi), ai quali mi accostavo reverente e sprovveduta, ma socraticamente consapevole (per la prima volta) dell'ignoranza soggiacente alla mia vernice letteraria, che si scrostava mostrando infine la sete di verità, quella "sete della fonte" che evocavo qualche anno dopo in una lirica omonima, riconoscendo che "il bere non [la] estingue ma soltanto / il divenire l'acqua con le labbra fissata" (ma anche Apollinaire, il melico avanguardista istintivamente prediletto, sapeva che bisogna "perdre / mais perdre vraiment / pour laisser place à la trouvaille", così come il petroso Jahier mi inciterà con le stesse parole al "coraggio di andare indietro / ritornare dove deviato / per avanzare davvero"; e Canetti additava anche alla mia generazione l'ossessa nudità del falso potere e delle "teste senza mondo").
        D'un tratto – ma insieme a poco a poco, con pazienza, senza più temere il dolore, la fuga degli anni verdi e l'avvento della maturutà che ora, attraverso la nuova famiglia donatami, vedevo piuttosto come una nuova infanzia, la vera infanzia della coscienza – capivo che il poeta non è solo col mondo vicario e astratto delle parole, chiuso nel sudato sogno della metafora-labirinto parallelo al mondo, ma che è solo – se questa è solitudine! – con le parole e le sostanze creatrici del mondo, ed è loro "vaso" e testimone; che non è relegato nel pathos saturnino della distanza cantato con luttuoso trionfo dal barocco e dal romanticismo; che la separatività, l'esilio dall'Essere, la malinconia della storia (del tempo, della memoria), lo spezzarsi del cerchio e la cultura dello scacco conseguente all'antropocentrismo esasperato non sono ineviatabili o scontati; sperimentavo che non è irreversibile l'estraniamento fra coscienza e mondo, frutto dell'arroganza "maschile" della mente a cui risponde la querula elegia "femminile" dell'anima, scisse dall'unitario intelletto d'amore; che questo estraniamento non è fatale se non in quanto, e fino a che, ciascuno di noi non ha ancora conquistato la propria direzione e finalità interiore verso il Sé, trasformando in esso la sua sempre limitata, lacunosa ed egocentrica consapevolezza, fondata sulla persona e sull'ambizione (che l'etimo identifica rispettivamente con la maschera e con l'error ulissiaco, con la devianza, col de-lirare nella cerca esterna di ciò che è in noi, ma che percepiamo solo uscendo da noi, nell'unità con la vita di tutti gli esseri. Recentemente mi hanno aiutata in questo cammino, all'interno della traduzione dall'invisibile che è la poesia, le traduzioni (o meta-traduzioni) elettive di poeti: quelle da Else Lasker-Schüler, con la sua smagliante e dolente mitopoiesi di caduta e salvezza, che ben rappresenta la "via purgativa" della poesia; quelle dall'altera Juana Inés de la Cruz; quelle dell'elisabettiano George Herbert, grande poeta religioso che indaga da maestro attualissimo le alchimie interiori e addita la "via illuminativa" che congiunge la poesia alla santità, e che da preghiera imperfetta, qual è per sua natura, la trasforma in perfetta, o almeno in perfettibile; infine quelle da Simone Weil, massimo esempio per l'Occidente della ficiniana pia philosophia o logica mistica o scienza della fede, ottenuta con la dura ascesi della discesa concreta nel mondo degli oppressi. A lei, alla sua martyría esemplare per sostanza umana e globale ricchezza di intuizioni (storico-politiche, filosofiche, scientifiche, religiose) a lei e alla sua visione del " patto originario fra lo spirito e il mondo" ho dedicato recentemente un dramma in versi, La fonte ardente, che considero per ora il mio lavoro migliore (mio nel senso di "passato attraverso di me per esprimersi", perché il fine di ciò che scrivo non è soggettivo). Attraverso Simone, e guardando in noi, comprendiamo che la parola può e deve essere luce della realtà, e che questa e nessun'altra è la sua funzione nel nostro mondo del relativo; possiamo tener fermo, senza falsi timori di inattualità, che la letteratura, il mondo-libro, viene dalla mente e vuol consolare e vendicare della vita, mentre la poesia, il libro-mondo, viene dalla mente del cuore e dà respiro alla vita, fa il verso alla vita; che l'io è una finestra a vetri che dà sul mondo, ma che non ne lascia udire i suoni: se la finestra si apre e la vita unanime entra nella nostra stanza col suono-colore di tutti i suoi esseri, la finestra esiste ancora, ma è dimenticata: da essa ci si sporge sull'intero, sull'aperto, e la casa stessa diviene, in piccolo, l'intero. Di questa difficile eppure naturale apertura spero rendano conto progressivo le raccolte di poesia che ho fin qui pubblicato (scartati i troppo soggettivi versi giovanili); L'arco, La gloria oscura, Concordanze e soprattutto Meridiana, l'ultimo, dove esperienze, voci, potenze dell'anima vogliono essere, per me e per chi legge, i primi gradini della scala ad un tempo ascendente e discendente (ánodos e cátodos) che va "fino al cuore del mondo / dove l'alto è il profondo".

(1988)






SCENA E VISIONE


        I due termini che formano il soggetto-oggetto di questa breve riflessione sono uniti da una particella che ha per me un senso vivamente dialettico, dinamico, e, vorrei dire, energetico: infatti la scena - in quanto "materia" spaziale, macchia insieme oscura e luminosa in cui prende corpo la "forma" dell'immaginario dell'autore - è scena della visione e per la visione, sua proiezione attiva e plastica, sua vera e propria incarnazione: sua policroma carne e sangue, si può dire, rispetto alla mente che ha concepito vicende e personaggi nel bianco e nero soggettivo, assolutizzante e silenziosamente (a volte ingannevolmente) "poetico" del foro interiore. Una carne e un sangue formati sia dal mobile e vicendevole corpo fisio-psichico degli attori, sia dal "doppio" dell'autore, il regista, che è tradizionalmente ciò che il critico è per l'opera letteraria o artistica: una sorta di artifex additus artifici o fido maestro sostituto, di moderatore inventivo fra autore, attori e pubblico: un artifex che nel corso dell'età contemporanea ha progressivamente abbandonato le vesti feriali del capocomico tuttofare per pararsi di quelle festive e togate dell'interprete, dell'alter ego e quasi del demiurgo platonico-wagneriano (come fa fede anche l'etimo del sostantivo: régisseur, poi regista, è filiato da regere e gemello di rex): demiurgo e riplasmatore di un testo che tende appunto a diventare - almeno nell'ottica dei registi stessi, e specialmente se l'opera è un classico, vero o presunto - una nuova materia prima per elaborazioni, sperimentazioni ed alchimie stilistico-formali il cui apice e i cui eccessi, toccati negli anni Settanta, si tende oggi tuttavia ad abbandonare in favore di un'interazione col testo più parallela che perpendicolare, più normalizzante che esplosiva (al limite, neo-accademica). Fatta salva la necessità costante di questa interazione, vitale per l'opera drammaturgica come, appunto, carne e sangue, moto ed espressione lo sono per dar voce interpersonale, transitiva, ai nostri pensieri e desideri, mi sembra da sottolineare in misura non minore la reciprocità del dittico sostantivale del titolo: scena e visione, scena della visione, ma anche visione e scena, visione della scena e per la scena: cioè proiezione spontanea, esternazione, da parte dell'autore, di quelle potenze dell'anima, tanto sua personale quanto collettiva, nella misura in cui l'autore è, o può essere, creatore e non solo creatura del suo tempo, suo medium appassionato, ma critico ed oggettivo fino all'impersonalità di eschilea, shakespeariana e verghiana memoria: che è la condizione del superamento della fantasticheria soggettiva in vera visione, e che dà luogo a quelle concrezioni di policroma trasparenza, insondabilmente refrattarie ed elastiche alla dissezione strutturale, a quegli organismi etico-estetici che chiamiamo "le grandi opere".
        Durante il farsi dell'opera l'autore proietta dunque quelle potenze interiori, quelle voci, su una scena parimenti interiore, ma non puramente fantastica, una scena "immaginale" più che immaginaria, nel senso che gli antichi e le religioni tradizionali davano all'espressione mundus imaginalis: il mondo dei corpi sottili, delle forme creatrici, forme-pensiero e forme simboliche, intermedio fra quello fisico e quello spirituale, loro duttile e affascinante connettivo, portatore dei segni e del linguaggio (dell'inventio): il mondo, insomma, degli archetipi, giacché lo spazio-tempo, le idee-luogo e le idee-destino, le situazioni e i personaggi ideati dal drammaturgo sono sempre - per quanto concreti e contingenti - degli archetipi (l'amante, l'amico, la madre, il padre, il figlio, la coppia, il traditore e il tradito, il tiranno, il burocrate, il distruttore, il fallito, il sognatore, ecc.): rinviano sempre, più o meno consapevolmente, ai "destini generali" dell'uomo, al gioco eterno e alterno fra essere e dover essere, essere ed esistere, apparenza e sostanza, idillio e tragedia, trasgressione e norma, grido e canto: ovvero, secondo la polarità iconica e simbolica più tipica del teatro, fra voce e silenzio, maschera (persona) e volto. E questo specialmente nel caso del teatro che accetta come sua definizione convenzionale e tradizionale quella di teatro di parola (che è anche inscindibilmente teatro di idee): il teatro, cioè, in cui io credo, e che privilegia una parola non puramente strumentale all'intreccio, al plot situazionale ed agli "effetti" del mestiere scenico; non una parola-libretto assorbibile in qualsiasi "musica" (o rumore) mimico-interpretativa, bensì una parola poetica in senso etimologico, portatrice di dignità euristica e di pienezza significante, matura e ferma (ancorché sostanziata di ricerca) nell'esprimere la Weltanschauung dell'autore, dinamicamente precisa nello scolpire le sfumature caratteriali ed emotive dei personaggi, ma sintetica nello slancio architettonico della costruzione di cui è pietra angolare. E l'autore di un tale teatro dovrà essere e/o tenderà ad essere (sulla linea del grande teatro classico, barocco e romantico europeo) un autore-poeta mozartianamente comico e tragico, capace letteralmente di "fare il verso" alla vita, di suscitare l'altezza e la profondità corale di una parola che sia insieme parola-idea e parola-gesto, e che abbia il carattere esemplare, icastico, testimoniale, capace di suscitare nello spettatore l'antica, aristotelica catarsi.
        Catarsi, senso profondo - ovvero direzione, telos - che troppo spesso manca od è gratuitamente rifiutata nei testi contemporanei, per lo più ancora tributari - per forza d'inerzia, si direbbe - di quello che Pasolini definiva sprezzantemente, nel celebre manifesto del '68, il "teatro della chiacchiera", cioè il piccoloborghese teatrino del rispecchiamento minimale e dell'ammicco corrivo allo spettatore, ovvero adepti aggiornati del "teatraccio", cioè di quello che resta dell'avanguardistico "teatro del gesto e dell'urlo" (cito ancora Pasolini): ed è, in entrambi i casi, un teatro dove il pubblico "stagna" a disagio o si annoia educatamente.
        Un teatro, dunque, del dover essere, quello di cui parlo, un teatro utopistico, astrattamente volontaristico e filosofico? Direi piuttosto un teatro di visione e di espressione, di parole e di vita, di parola, cioè, al servizio attivo, arduo e gioioso della vita: capace di non svuotarne di senso la ricchezza fonda e quotidiana nella superficialità scioccante dello spettacolo, oggi che, nella civiltà dell'immagine onnipervasiva, tanto la visione intuitiva quanto la meditazione e l'osservazione analitica tendono ad essere sostituite dallo "spettacolo in diretta", calco meccanico e consumistico, brutalmente fulmineo di un Dasein senza futuro. Un teatro, quindi, il cui carattere sia quello della convivenza partecipe fra attori e spettatori di una situazione drammatica, che sia a sua volta non generica, ma generale, universale, comune (nel senso di "comunitaria" e non di "banale"): che è poi il carattere stesso del teatro cosiddetto classico, antico e moderno, e il presupposto dell'identificazione attiva e durevole dello spettatore "plurimo" di fine millennio.
        È questo il teatro di cui faccio "oriente" e specchio il mio lavoro, il teatro con cui, nei limiti dei miei mezzi assai incoativi e in progress, mi sono misurata e che ho perseguito nelle sette pièces in verso e in prosa che ho composto negli ultimi anni (La fonte ardente, La Fenice, L'albero delle parole, La Minima, Andrej Rubljòv, gli atti unici Il figlio e Specchio doppio), tutti centrati su personaggi in vario modo "esemplari", polarizzanti e trascinanti ancorché complessamente problematici e tragicamente interagenti col loro rispettivo milieu, appunto in virtù della loro ricerca di una geometria del cuore e della mente, di una religio anti-istituzionale e meta-istituzionale, di una giustizia dello spirito che illumini il mondo riscattandone la violenza preponderante e il caos apparente: di una "scena" viva e perenne per la loro visione.

"Hystrio", 2, 1993






ESSERE E SCRIVERE


        Essere, scrivere: innocenza, esperienza. Questi, da sempre, i poli del rapporto consustanziale e dialettico su cui la mia vita si è fondata con l'imperiosa spontaneità di una radice, tesa in un succhio sempre esaltante ed ansioso di linfe. Vivere per dire, e dire per essere certa di esistere, per essere investita e rivestita - tornando a pronunciare il nome delle cose - di una pur fragile e precaria eternità. L'imperativo, scritto nel sangue del cuore fin da quando ho avuto coscienza di me, è stato quello di una grammatica generativa interiore: rendere transitivo il bene (cioè la realtà assoluta) intransitivo il male, dentro e fuori di me (più tardi avrei letto in Ungaretti che l'artista mira a sconfiggere la morte con le sue opere, "ma morte è anche la violenza, la menzogna").
        Nata dentro il dolore, e quindi dentro un assoluto (mia madre era stata da poco segnata dalla morte lacerante di un figlioletto novenne) l'ho abitato e respirato come limo endogeno e quotidiano della gioia, della certezza vitale, di un'amorosa accettante pienezza non data ma da conquistare, da propiziare inventandomi (trovandomi), cioè inventando subito una lingua mia, fatta di molti linguaggi e dialetti semifantastici: ascoltavo a lungo la radio, da piccola, e sulle stazioni estere fortunosamente captate, in piedi per mezz'ore su una sedia davanti ad un gran "mettitutto" biancoazzurro, tentavo un pastiche edenico, una segreta e giocosa alchimie du verbe, il sogno istintivo - che poi seppi adamitico, mallarmeano e rimbaudiano - di una lingua totale, unitiva, polimorfa, comprensiva dell'anima, della mente e della fantasia: una lingua poetica. Questa lingua dentro e al di là della lingua, che usavo silenziosamente, anche per parlare con gli animali, ma anche con le stanze e con gli oggetti cosiddetti inanimati - per me animatissimi e dotati di viva personalità, secondo una forma di animismo magico infantile "autorizzata" nel poeta adulto da teorie di origine platonico-romantica come quella del fanciullo pascoliano - mi si eleggeva naturalmente in vocazione (solenne, insostituibile parola!) che in parte veniva alimentata, ma più spesso colluttava con le occasioni quotidiane della mia piccola città, assai paesana negli anni '50 e '60 (le amicizie, i primi affetti extrafamiliari, la scuola, pure amata) e si nutriva piuttosto di affinità elettive con voci ed esperienze di poeti e di artisti di un passato che sentivo sempre prossimo, perché riconoscevo in loro gli amici "primi", le presenze vive di un dialogo caro e necessario, circondantimi a comporre appunto il mio prediletto "libro degli amici", dalla costante espansione di nebulosa. Un libro dell'anima che annoverava via via, in musica, Mozart, Beethoven, Chopin e Schubert, più tardi Bach e la polifonia rinascimentale, Palestrina e Monteverdi, accanto all'imprinting generazionale dei Beatles e di Bob Dylan, in pittura Velasquez, Vermeer e Van Gogh, poi Pontormo, Lotto e i manieristi, e, in una nicchia di emozione metafisica, Piero della Francesca, e in letteratura (o meglio in poesia: le ho sempre distinte, come il legno dal fuoco) i russi, Cechov e Blok, Esenin, l'Achmatova e la Cvetaeva e Pasternak accanto a Oscar Wilde a lungo prediletto, a Shelley e Keats e Coleridge, Baudelaire e Proust, amatissimo fin dalla "scoperta" estiva nel '64, a Leopardi e Mallarmé accanto a Lorca e Guillén e al misterioso assoluto di San Juan de la Cruz; e questi, nel caos della formazione, accanto ai beats americani e magari ad oscuri poeti eschimesi o pellerossa, che bilanciavano Omero, Catullo e gli stilnovisti e Dante (mentre Petrarca ha sempre esercitato su di me un fascino senza amore), e Shakespeare, letto per lunghe notti nell'"integrale" sansoniana del Praz, insieme alla Dickinson, che mi folgorò per l'uso concreto della metafisica e dell'analogia, e poi, intorno ai vent'anni, Simone Weil (ancora sporadicamente tradotta) che rimase da allora, ciclicamente, la mia stella e magistra spirituale, con la sua intelligenza della santità e il suo lucido ardore sacrificale: un esempio di destino assoluto, a cui avrei dedicato nell'86 il mio primo, "eccessivo" lavoro teatrale.
        Meno, o più superficialmente, influivano, negli anni universitari fiorentini iniziati sotto il segno tutt'altro che pacifico del '68, letture "epocali" di psicanalisi (ma Jung ha lasciato forse più di un segno) e di strutturalismo/formalismo, supporti un po' volontaristici di quel Bildungsroman personal-collettivo che fu appunto l'esperienza del movimento studentesco, acme ed epilogo di un decennio di great expectations e di aperture ecumeniche della coscienza, respirate nell'aria (giungeva l'eco esaltante e controversa dell'esperienza di Don Milani, che un venticinquennio più tardi avrei a mio modo ripensato nel dramma L'albero delle parole). Scrivevo molto - poesie, naturalmente, e qualche tentativo di saggio "creativo" (ne ricordo uno, dal titolo ambiziosamente romantico, La nostalgia come forma creatrice, subito cestinato) - ma ero lontana sia dall'idea di pubblicare ciò che ho avvertito a lungo come ricerca non abbastanza oggettivata e quindi non transitiva, non transpersonale (non ho pubblicato versi fino al '78, mentre i due primi saggi critici, sull'amato Campana allora non così en vogue, risalgono al '73 e '74) sia dal riuscire a comporre in una sinergia armoniosa "l'arte e la vita", ovvero il mio concreto esistere quotidiano (in cui l'essere donna aveva indubbiamente gran parte, una parte che avvertivo spesso problematica, condizionante e "mascherante" - l'avanguardia femminista d'oltreoceano era difficilmente "incarnabile" nella mia vita introversa - o comunque riduttiva, non intimamente ma socialmente, rispetto al mio sentirmi cosmicamente creatura e persona) e la mia vita altra, creativa e fantastica, che spesso ho creduto con disperazione la sola vera, e che stava alla prima come l'acqua profonda sta all'olio che vi scivola sopra incessantemente, formandovi geroglifici fuggitivi, barbagli da decifrare. Ero conscia, fin troppo acutamente, della mia differenza e insieme della mia uguaglianza creaturale con tutti i viventi (ivi inclusi, anzi privilegiati i morti) e col cosmo intero; ma questa percezione stentava a tradursi in reciprocità concreta, in rapporti gratificanti, in lingua comune, malgrado i costanti e crescenti apprezzamenti intellettuali che mi parevano però rivolti non al mio essere intero, ma solo alla sua "corazza", alla sua "siepe" di conoscenze (?) che tardavano, mi pareva, a farsi strumento di pienezza vitale.
        Sono stati infine - del tutto tradizionalmente - il matrimonio e la maternità a donarmi (anche se tutt'altro che pacificamente) l'ubi consistam di un glutine insostituibile e decisivo per la crescita, in me, di quella capacità di reciprocità, di lingua comune appunto, dettata dalla mente del cuore, che tuttora sento necessaria alla poesia come l'aria al respiro; anche se l'autocostruzione del destino è necessariamente sempre in fieri, e l'equilibrio tra la folla degli io che si agitano dentro è sempre instabilmente agonico e da reinventare. Per questo, forse, la mia ricerca si è versata in anni recenti nella forma teatrale, come la più plastica e consentanea ad esprimere la "complessità multivaria" (come diceva Boine, uno dei vociani a me cari), la misura e la scena del mondo interiore mio e di tutti, attraverso le voci della storia e del mito.
        Credo tuttavia che la mia condizione - quella del poeta, e tanto più se donna (cioè due volte poeta, in arte e in vita: una farfalla che porta pesi enormi, senza i quali però non può volare) - sia quella che io chiamo di "solitudine corale": ma che, con gli anni, l'accento vada cadendo sempre più positivamente sull'aggettivo anziché sul sostantivo: la casa comune, di cui molto si parla perché poco ancora si sa costruirla, è "casa di cittadini e creature" come dice un mio verso: casa dove la differenza diventa ricchezza, perché, dantescamente, "diverse voci fanno dolci note", e l'armonia nasce da incessanti composizioni, compenetrazioni, intelligenze e consustanzialità.
        A questo, imperfettamente, mira tutto il mio lavoro di poetessa (ma preferisco "poeta", per pura fedeltà all'etimo), di drammaturga, di critico, di traduttrice e infine (in primis) di donna: questi due ultimi sostantivi ne formano in fondo uno solo, giacché il femminile è per sua essenza un metaxù, un elemento di mediazione e quindi di traduzione: dell'alto nel profondo, della vita in forma e nuovamente della forma in vita, nella spirale vertiginosa eppure semplice di un dono da mettere in opera.

in AA.VV., Armonie di donna
Pistoia, Banca di Credito Cooperativo, 1995






Incontro con Maura Del Serra
(A seguito dell'intervento critico di Monica Farnetti)


MAURA DEL SERRA

        Ringrazio davvero vivamente Monica per queste sue vibranti, generose e "virtuose" parole a mia presentazione. Non vorrei a mia volta usarne molte, perché credo che la patria del poeta sia nella parola "altra", e più sua di tutte, dell'opera che lo attraversa e lo esprime; ma accolgo volentieri questa bella definizione da lei data della geometria o architettura della parola, che in effetti io perseguo da sempre. (Ma quando il poeta dice "io" è sempre, in senso ultimo, un abuso di autorità perché, come ben sapeva Rimbaud e prima di lui tutti i mistici, 'je' est un autre, il poeta viene parlato dalla parola, attraversato e preso da lei, mentre invece l'oratore la prende, come dice Kraus). Il problema sembra proprio, come ha chiosato Mallarmé per tutta la nostra tradizione simbolista, quello di sapere fino a che punto la parola appartiene al poeta: ma tale sembra alla ragione dialettica, perché in fondo il vero problema è quello di mettersi in ascolto, di farsi trasparente, "semplice di sostanze composte", come dice un mio verso, attraversando ciò che avviene di sapere con la mente per farlo giungere al centro vitale, alla mens cordis che Monica ricordava, e che è una intelligenza d'amore squisitamente femminile, che schiude sì gioie, ma anche ferite "raffinatissime", nel senso alchemico dei metalli e dell'oro. Questa primigenia sintesi di mente e cuore, presente nel nostro profondo, nel nostro "pensiero non pensato" (mi permetto ancora un'autocitazione) ben la conoscono tutti quelli che considero toccati dalla Grazia - con qualunque nome si voglia tradurre questo sostantivo teologico ed estetico - cioè appunto i veri semplici che tali sono ritornati, l'umanità nel suo stadio eroico-infantile e in quello della santità, che è un'infanzia infinitamente consapevole e sapiente; mentre la maggioranza di noi - compreso il poeta mentre vive "fuori di sé", nel tempo profano, sbriciolato, feriale - vive in uno stato purgatoriale, nel senso dantesco dell'aggettivo, cioè nello stato di mezzo, in una confusione che non è ancora fusione di sensi e spirito, di mondo personale e sociale. E tuttavia la confusione, il caos magmatico è, o appare essere, la matrice della vita, e il poeta lavora al suo interno per trasformarlo in cosmos; con i suoi mezzi sempre molto poveri ed artigianali rispetto al tremendum che lo sovrasta e lo avvolge, maturandolo e consumandolo, lavora perché la confusione diventi fusione di quelli che alla nostra mente occidentale sono apparsi sempre gli opposti (luce e buio, arte e vita, maschile e femminile, scienza e ispirazione, ecc.) e che invece, nell'ascoltazione profonda di sé, appaiono e si rivelano sempre un'unità vivente. Perciò il richiamo finale di Monica al "femminile" mi sembra molto pertinente, soprattutto nel senso più intimo e cosmico, data l'androginia del poeta, uomo o donna che sia biologicamente, sessualmente (il "sesso" è, come sappiamo, una "separazione" etimologica, che ci affascina e ci tormenta in direzione dell'unità presentita e perduta). Il poeta è per me una piccola circonferenza munita di testa, mani e piedi, come nelle rappresentazioni medievali del macroantropos, che sono tutte di derivazione platonica. Da qui proviene anche il mio cercare insistente, attraverso la voce della poesia e quelle del mio teatro - da Simone Weil a Juana Inés de la Cruz, da Katherine Mansfield ad Agnodice alla "minima" madre Margherita Caiani - l'unità degli opposti, androgina nel senso più pieno e meno ambiguo dell'aggettivo: è una ricerca molto legata alla speranza, una speranza non cieca od ottusa, una speranza che è già certezza perché dotata di antenne euristiche, come la ricorda Dante: un "attender certo / delle cose future"), giacché, come spesso amo ricordare, il poeta è stato ben definito da Ungaretti "un soldato della speranza" che cerca la matrice stellare e terrena, la madre della parola che lo com-prende, che lo tiene insieme e lo trapassa come un filo di spada, e che si identifica alla fine con la vita stessa nel suo spirito e nel suo ciclo: la vita cerca l'arte senza cui non ha forma, l'arte cerca la vita senza cui non dà frutto. È il ciclo dell'albero, che non esclude gli incontri e gli scontri, anche molto drammatici, del poeta con la società del suo tempo, col dolore, l'ingiustizia e la violenza, con i frutti avvolti da spine come le castagne dal riccio. Questa circolarità aperta, tesa e proiettata dinamicamente è molto frequente nella mia poesia (il primo volumetto si chiamava L'arco, il quarto Meridiana): l'arco, la spirale, la cupola, le braccia amanti e materne da raggiungere dentro di sé, giacché il poeta è una madre, come ricordo spesso sulla scorta di Saba (un poeta apparentemente poco "religioso", nel senso confessionale, ma molto in quello creaturale e direi cellulare, organico).
        Vorrei aggiungere solo un ringraziamento per la presenza e l'attenzione di voi tutti che è così preziosa, perché il poeta che dice ed è detto dalla sua parola viene detto anche dal lettore e dall'ascoltatore: il lector in fabula non è una scoperta della semiologia letteraria di qualche decennio fa, ma un dato fondante di molte culture e civiltà d'Oriente e d'Occidente, compresa la nostra greco-latina e giudaico-cristiana fino al Medioevo, ma anche fino al Barocco. È preziosa questa scienza dell'ascolto comune e insieme individuale, per cui il lettore ricostruisce e nutre in sé l'opera del poeta, e il poeta diventa un medium, sia nel senso "spiritico" che tecnologico, una sorta di ricetrasmittente che trasmette "messaggi" - musiche, parole, rumori, silenzi - ad un tempo suoi e non suoi; suoi in quanto hanno il timbro, il colore, la melodìa della sua cassa armonica (come ci hanno provato le due giovanissime suonatrici di violoncello) e insieme filtrano un'armonia la cui sostanza non proviene da lui/lei. In questa scienza sperimentale della soglia e della fusione si consuma, si arrota, si appunta l'avventura creativa e vitale del poeta alla ricerca di sé e della sua unità originaria, "originale", col mondo. Perciò la voce della poesia, come io la sento, è insieme profondamente solitaria, di una solitudine che avverto molto anche generazionalmente, e che ho chiamato "corale" perché è profonda sul piano societario (il poeta non ha più nessuno status visibile e appare anacronistico nella società sfrenatamente produttivistica) ma insieme si nutre di armoniche profonde, di grande rispondenza sul piano cosmico e su quello creaturale e personale: la persona, la maschera, l'apparenza del poeta che davvero è tale tende sempre a spogliarsi di sé per diventare congenere, consentanea a tutto ciò che è creato. In questo sforzo continuo di spoliazione e di rivestimento (lo sforzo ascetico che ricordava Monica) cresce e si costruisce l'avventura della poesia, che posso chiamare mia nel senso in cui l'amante chiama sua l'amata, un senso di appartenenza senza possesso. Ma, in un altro senso, l'avventura del lettore è la più grande, quella che contribuisce ad indicare al poeta la sua strada (nel significato etimologico di 'via lastricata, attrezzata per il passaggio di tutti'): non c'è avventura più grande che far uscire un proprio libro di poesie e immetterlo nel mondo, come il figlio che si stacca dalla madre ed entra nel mondo per trovarvi voce e specchio di sé.

Pistoia, Palazzo del TAU
23 novembre 1998






DIRE LA SCENA
IL TEATRO DELLA POESIA


        Nella complessa e coessenziale interazione, genetica ed espressiva, propria del rapporto fra teatro e letteratura, intendo qui brevemente ritagliare ed estrapolare un côté verticale, un apice profondo per così dire, di questo rapporto: quello, appunto, fra teatro e poesia, in quanto forme che mi sono ormai ugualmente care e congeneri nell'esperienza creativa ed operativa, anche se la pratica della poesia risale per me ad anni infantili e quasi immemorabili, quella del teatro ad anni assai più recenti e maturi: se la poesia è la mia radice e il mio tronco cognitivo, il "genere" della parola che mi ha espressa in principio e tuttora mi esprime, il teatro ne è divenuto la "specie", la mia chioma che muta e si rinnova stagionalmente, fruttificando nelle varie pièces che ho composto nell'ultimo quindicennio. In questa coinvolgente frequentazione - o meglio, come dicevano gli antichi teologi, in questa "inabitazione" teatrale - ho potuto constatare, e l'ho sottolineato in altri interventi, che la mia persona di poeta diveniva il ricettacolo, la coppa intagliata di figure e segni, la forma colorata, il frame (come si usa dire) rispetto alla visione che mi abitava, scandendosi nelle "voci di dentro" che sorgevano nel bianco e nero assoluto dell'interiorità, del secretum (sia nel senso agostiniano e petrarchesco di fòro interiore, che in quello di secrezione, di linfa colante da una corteccia): un frame a cui poi regista, attori, scenografo, musicista, tecnici ecc. avrebbero fornito nuova "carne e sangue", complicando di molte potenze, oggettivanti e risoggettivanti, questo "gioco dell'amore e del caso" massimamente interattivo.
        La scena mi appare dunque ad un tempo come materia e come forma della visione teatrale nata dalla poesia, come sua attiva e plastica incarnazione, dove le potenze dell'anima non restano in lei racchiuse - come nella poesia lirica, solo implicitamente diretta al lettore - ma cercano appunto un drama e un poièin esterno, la proiezione di un "fare" attivo, trans-personale, che leghi l'individualità profonda, "l'esplorazione del proprio petto", come dice Leopardi, alla coralità respirante delle emozioni e dei bisogni etico-spirituali comuni, nel progetto di un destino personale e collettivo. Il teatro di poesia, o meglio il teatro della poesia, nasce da questo mondo intermedio e fecondo, dal mundus imaginalis di forme simboliche, e direi senz'altro archetipiche, proiettate sulla scena fin dai tempi del teatro greco classico e di quello barocco, in una galleria di personaggi esemplari (come le figure delle icone e dei tarocchi): la madre, il padre, il figlio/figlia, gli amanti, l'amico (il confidente e la confidente), il malvagio e/o il traditore, il sognatore, il politico, l'ignavo, e quella varietà di vinto-vinciore che, a partire dall'Amleto shakespeariano, è ampiamente proliferato nella razza dell'"antieroe" o eroe negativo novecentesco: forme archetipiche funzionali e consustanziali al doppio respiro dell'anima e della scena, le quali si muovono entrambe, avventurosamente, cercando il loro linguaggio, fra essere e dover essere, sostanza e apparenza, idillio e tragedia, maschera e volto, trasgressione e norma, grido e canto, voce e silenzio: giacché anima e scena, poesia e teatro sono entrambe, per così dire, apparenze di sostanze, "forme vere".
        Io credo, e spesso lo ribadisco, in un teatro che sia teatro di ricerca nelle idee e nell'anima, che privilegi una parola che sia in sé un verso vivo, plastico, duttile, e che dia un verso sostanziante, portatore di pienezza euristica, all'anima del nostro tempo così "virtuale", in balìa di un flusso caotico, violento ed acritico di immagini illusorie (che, diceva Kafka, invadono la coscienza); una parola che sia non puramente strumentale al plot della vicenda (come nel cosiddetto "teatraccio") e agli effetti del mestiere scenico (come nel caso di molti attori-registi tuttofare); una parola che non sia per così dire una tovaglia di carta usa-e-getta, ma un saldo tavolo che sostiene e mostra le vivande, apribile ed estensibile a molti generi di commensali e in molte direzioni dello spazio e del tempo: che sia cioè - come è sempre il miglior teatro di poesia, e com'è nel mio ideale - totale e polisemica, esatta e plastica, ispirata alla compresenza al di là dei generi che è propria dei classici antichi e moderni, così come della vita stessa, nel suo movimento polare fra gravità e grazia, tragico e comico, evocatività e scientifica architettura (penso naturalmente a Shakespeare, ma anche al binomio Da Ponte-Mozart, al quale mi sono spesso ispirata per l'atmosfera delle mie commedie drammatiche, particolarmente per Agnodice). All'ethos profondo che è intrinseco al linguaggio della poesia "riversata" in forma teatrale è implicito e connaturato un altro elemento quasi sempre disatteso, ignorato o rimosso nel minimalismo rinunciatario di gran parte del teatro contemporaneo (che fonde in una passíva mediocrità i due generi deprecati da Pasolini nello storico Manifesto per un nuovo teatro del '68: il borghese "teatro della chiacchiera" e l'avanguardistico "teatro del gesto e dell'urlo"): questo elemento è la catarsi di aristotelica memoria, ossia il viaggio proiettivo e liberatorio, la con-vivenza e l'odissea interiore dello spettatore nel testo.
        Ce ne offre esempi storicamente portanti e stratificati la storia letteraria che è alle radici del Novecento, e che si è più attivamente intersecata con la poesia e col teatro, proiettandolo appunto nell'excessus fisico e magico della parola, cioè nella scena della poesia: penso alle ancora legnose ma potenti allegorie dei misteri medievali e poi a Dante (recentemente rivisitato da Tiezzi attraverso tre poeti italiani contemporanei, Sanguineti, Luzi e Giudici): Dante nella cui Commedia - ma già nella Vita nova - l'esperienza esistenziale e spirituale si orchestra in forme altamente teatralizzate di narrazione evocativa, che includono complesse scenografie simboliche (i cerchi, i gironi, i cieli, la Città di Dite, il nobile castello del Limbo, l'Eden sulla vetta del Purgatorio ecc.); penso all'epos favoloso dell'Ariosto come teatro della fantasia combinatoria trionfante, e che fu oggetto di una famosa ricostruzione ronconiana negli anni '70; penso alla poesia degli affetti e della psiche estremamente teatralizzata in senso pre-psicanalitico dal barocco europeo e, da noi, dal Tasso dell'Aminta e della Gerusalemme, col suo "stile concitato" mimato in musica da Monteverdi (e penso in parallelo al visionarismo surreale e dolente di Calderón); fino al titanismo e al solipsismo romantico dei personaggi di Alfieri, anch'essi oggi spesso rivisitati in chiave di gridato disagio postmoderno; penso a quel grande monologo allocutorio, lirico e civile, che sono I sepolcri foscoliani, e, sul versante parallelo, al teatro intimo delle voci morali ragionanti, in cui ha tanta parte l'ethos platonico e quello illuministico, delle Operette morali leopardiane (non dimenticando, sul terzo versante, la spiccata valenza teatrale, in senso corale-pedagogico, del romanzo di Manzoni più che delle sue tragedie); ma neppure sono da trascurarsi gli esempi dannunziani, non tanto quelli di un teatro di voci estetiche, ritualizzate su enfatici coturni espressivi, dei personaggi di Superuomini e di Femmes Fatales, ma considerando piuttosto il monologo franto ed eloquente della Contemplazione della morte e del Notturno, dove la "voce recitante" di D'Annunzio incarna una sorta di Dioniso e Crocifisso decadente, fra dostojewskiano e hofmanstahliano; fino alla multipla illusion comique di Pirandello e al suo fin troppo celebre "strappo nel cielo di carta" nella scena della coscienza, così nutrito dal teatro greco classico e dalle fonti romantiche tedesche; e, da lui disceso "per li rami", l'ethos civile e religioso inquieto, quasi giansenista di Betti e poi, sulla sponda iperlirico-barocca, l'impurità grottesca di Bene e l'oltranza drammatica di tipo espressionistico di Pasolini e di Testori, con le loro ideologie della passione che scagliano il lettore e lo spettatore così violentemente in fabula da riproiettarlo fuori da ogni catarsi.
        Ma io sento assai vicini anche e sopratuttto esempi di teatro di poesia non italiani, come quello di Eliot, che è da riconsiderare come antecedente di Luzi, e che è anch'egli assai tributario del teatro greco: nel saggio sulle "tre voci" della poesia Eliot considerava appunto come la più teatrale la voce "semidrammatica", né puramente lirico-soggettiva né del tutto oggettivata, e in quanto tale capace di uscire dall'io del poeta-drammaturgo per animare plasticamente i personaggi, conservando però la tensione metaforica dell'autore-testimone (in questo senso fanno testo non solo il Murder in the Cathedral e i drammi successivi, ma tutta la migliore poesia eliotiana, dalla Waste Land ai Four Quartets, i cui monologhi corali vedrei bene in una suggestiva chiave scenica). Ma, in senso letterale e letterario, fa testo per me anche l'incompiuta e imperfetta Venise sauvée di Simone Weil, anch'essa recuperata suggestivamente da Ronconi qualche anno fa: non per caso alla vita di Simone Weil, vero esempio di itinerario drammatico, spirituale e civile, sullo sfondo dell'Europa in preda alle lacerazioni delle dittature e della guerra, ho dedicato il complesso affresco del primo dei miei drammi in versi, La fonte ardente, che, scritto nell'85 e uscito nel '91, fu allestito dal Teatro di Rifredi. Sulla linea di evoluzione di questo primo testo stanno gli altri due miei vasti affreschi epocali successivi, l'Andrej Rubljòv scritto in forma di prosimetro nell'87, ispirato alla grande figura proto-umanistica del pittore di icone russo a cui anche Tarkowskij aveva dedicato un famoso film; e, interamente in versi, La Fenice, uscita nel '91, centrata sull'altro dramma d'epoca e di coscienza di Sor Juana Inés de la Cruz, la "Decima Musa" del Messico barocco coloniale, interprete sublime e vittima sacrificale del suo tempo, lacerato anch'esso fra oscurantismo e lumi (il dramma ebbe due versioni sceniche, a Milano e a Firenze).
        Come "rami" di queste vaste sintesi sono rampollati da un lato i miei due lavori in prosa di ispirazione intimamente civile e di stile più umile, ma frutto anch'esso di attenta costruzione: il primo, L'albero delle parole (Premio Giangurgolo 1989) era ispirato all'esperienza pedagogica radicalmente innovatrice di Don Milani e della sua comunità giovanile; l'altro, La Minima, dedicato ad una beata del popolo, Madre Margherita Caiani: quest'ultimo è anche il mio unico lavoro scritto su commissione, per una sorta di sfida all'eredità romantica che postula l'assoluta libertà di ispirazione, che piegai ad un soggetto di pietas francescana e quotidiana (assai difficoltoso da affrontare drammaturgicamente, proprio perché "senza storia" e antisublime); dall'altro lato, il versante lirico-monologico del mio teatro si è concentrato nel testo Lo Spettro della Rosa (1992), rappresentato in Svezia tradotto in quella lingua ed uscito in rivista e in volume, ispirato al personaggio e al diario di Nijinskij, un altro "Dioniso" cruciale e cruciato del nostro tempo, che esprime la leggerezza angelica trafitta dalla violenza delle passioni e dall'orrore della Grande Guerra, in un conflitto fra grazia e gravità che anima anche il trittico o trilogia dei miei Versi per la danza scritti in seguito (Stanze, Trasparenze, Sensi) dove rispettivamente un personaggio maschile, uno femminile, e le proiezioni simboliche dei cinque sensi animano un teatro della coscienza in forme assai ritualizzate anche in senso simbolico e mimico-gestuale. Su questa stessa linea polimorfa si colloca il mio testo più recente, il Dialogo di Natura e Anima (uscito alla fine del 1998) il cui titolo è quello di una "operetta morale" poi mai scritta da Leopardi. E al côté della mia ricerca che più spiccatamente attinge al mito classico, liberamente elaborato, debbo i testi Specchio doppio, ispirato al mito di Eros e Psiche e vincitore l'anno scorso al Festival Magna Grecia; e Il figlio, complemento ideale del precedente, che vinse il Flaiano nel '92 ed è ispirato al mito di Altea e Meleagro, ossia al rapporto creativo-distrutttivo della madre verso il figlio, proiettato sullo sfondo degli effetti della guerra (quella del Golfo del '91, oggi tristemente reincarnatasi in quella jugoslava). La punta più avanzata in direzione filosofica di questo mio complesso approccio mitico è l'Eraclito del '97 (sottottitolo: Due risvegli) che attraverso questo arcaico e modernissimo filosofo, insieme occidentale ed orientale, la cui vita semisconosciuta ho reinventato, affronta le antinomie della coscienza di fronte all'amore, all'amicizia, alla conoscenza, al potere; l'altra "punta" è il "mito futuribile" Guerra di sogni (Premio Betti 1999) che è senz'altro il mio lavoro più sperimentale, frutto di un'invenzione linguistica molto spinta, tesa a mimare un mondo convulso e cupo, un po' orwelliano ma per nulla remoto, dominato da un totalitarismo genetico e virtuale, che viene riscattato dalla creatività amorosa e sacrificale dei protagonisti, i qua1i non per caso conservano i nomi di Febo e Cassandra. Ma il mio testo più "mozartiano" resta senz'altro Agnodice (vincitore del "Fondi La Pastora" 1996) dedicato ad un'affascinante figura di donna-medico di un'età alessandrina assai vicina alla nostra; qui ho potuto intrecciare verso e prosa, spirito aristofanesco-terenziano e comedy of errors shakespeariana, lacerazioni della protagonista e humour nei personaggi di contorno (il servo, le matrone); un testo di sintesi equilibrante, che considero assai vicino al movimento polifonico intrinseco alla vita e al suo "doppio" teatrale, mosso e interpretato dalla poesia.

"Sipario", 606, dicembre 1999






LA POESIA PER IL MONDO


        "Abbiamo l'arte perché non muoia in noi la verità", scrisse Nietzsche: e soprattutto in questo momento storico in cui l'umanità appare gravemente minacciata dall'oltranza arrogante del potere e dalle cieche menzogne della forza, la poesia deve e può tornare a collegarsi, anzi a consustanziarsi attivamente con la verità; può e deve essere, come diceva Pasternak, "funzione organica della felicità dell'uomo". Per offrire uno specchio anche al fiducioso slancio dei giovani qui presenti, che provano il loro volo creativo nella primavera vitale e in quella dell'anno, si può paragonare la poesia ad un fiume perenne e infinitamente ramificato, che resta nella sorgente pur circumnavigando senza sosta l'umano; ad un colore congenere alla luce della vita, ad un suono, sillabato e cantato, altrettanto congenere ed intimo alla sua voce. Ma questa funzione e presenza primaria, che congiunge l'arte alla memoria e perciò alla storia (ricordiamo che nel mito greco le nove Muse sono figlie partorite tutte insieme da Mnemosyne, la memoria appunto) appare oggi più che mai agonica, difficile e perfino minacciata, immersa com'è in una lotta molteplice: da un lato c'è la perenne lotta interiore del poeta e dell'artista coi limiti percettivi, etici e spirituali del suo io (la "siepe" leopardiana) e la dialettica feconda ma ambigua con l'io del lettore in fabula che estetiche recenti hanno reso cooperatore ad oltranza del testo creativo; dall'altro lato c'è la lotta del poeta coinvolto nella civiltà cosiddetta virtuale, che comporta la volgarità invasiva e il rumore di fondo banalizzante dei media, che tendono a ridurre il delicato equilibrio "a croce" fra significante e significato della parola alla metallica e brutale piattezza di uno slogan o di uno spot. È una lotta che assume valenze planetarie, se la si proietta nel crogiolo dell'attuale multiculturalità ed interculturalità, che è certamente feconda nei contenuti, ma spesso ancora selvaggia e caotica nelle forme, lontana da quell'armonica e paritaria "creolizzazione" della cultura rispettosa delle specificità, che molta teoria letteraria vorrebbe dare per acquisita.
        In questo contesto ribollente di contraddizioni socio-culturali, invasive fino a minacciare il poeta di afasia (perché la voce del cuore canta forte, ma non fa rumore, come sapeva il Pascoli) i giovani sono da sempre i più adatti a scoprire e a vivere intuitivamente la meraviglia euristica della poesia, che è passione in quanto è etimologicamente anche pazienza introspettiva, e che è originalità in quanto è altrettanto etimologicamente originarietà, capace di unire fecondamente mito e storia, intuizione e ragione, dolore e conoscenza in una scienza insieme minima e massima della gioia vitale, in una co-scienza: perché la parola poetica serve la vita, le è insieme figlia e madre, e, sedendo sulle sue ginocchia, le porge quello specchio che nel simbolismo originario era figura non del narcisismo e della vanità, ma dell'anima stessa, e che può diventare, in una sorta di ingegneria magica archimedea, uno specchio ustorio delle "vanità" nemiche che la accerchiano, nonché uno strumento di reintegrazione del nostro io in quella "grande catena dell'essere" che ha la stessa forma spiralica (fisica e galattica) del DNA umano. In questo senso intimo e cosmico la poesia è, per usare un'espressione fisico-astronomica, il "punto di stella", ovvero il punto in cui il tempo può cambiare all'improvviso, e rivelarsi, con Platone ed Einstein, una "immagine mobile dell'eternità", una funzione dell'inafferrabile e palpabile sintonia cosmica. Una sentenza degli antichi gnostici diceva che "noi moriamo perché non riusciamo a ricongiungere il principio con la fine", ovvero perché la nostra storia non ridiventa natura ciclica: la poesia, io credo, può almeno virtualmente sanare questa ferita tragica e immemorabile, e la vita umana, da figlia naturale del tempo può divenire, tramite la parola e la visione poetica, figlia adottiva dell'eternità, in quanto partecipe della creazione, che è continua.
        Ma la poesia è testimonianza non solo etico-spirituale, bensì, in senso lato ed etimologico, "politico" della condizione umana: dato che il poeta è insieme creatore e creatura del suo tempo, egli è segno "anfibio" di lode, di domanda e di contraddizione, ed è sempre istintivamente teso a prendere (cito Margherita Guidacci) "il partito delle radici / contro il lastrico delle vie, fossero pure imperiali", e pulsa sempre nel doppio ritmo della sistole che accoglie le voci del mondo e della diastole dell'offerta di sé, fino al punto di divenire sacrificalmente (e qui cito Katherine Mansfield, che usava la celebre immagine biografica di Van Gogh mutilatosi) "l'orecchio inchiodato alla porta, per sentire la voce di chi è fuori".
        Il fare poetico, il poiein, al suo grado massimo coincide con un "essere ciò che si fa" che è un "fare ciò che si è": questa è la legge stessa del mondo creato, che vediamo attiva negli esseri impersonali (i corpi astrali, le piante, in una certa misura gli animali: e si può ricordare il proverbio in apparenza sessista ma in realtà molto profondo: "le parole sono femmine, i fatti sono maschi" a proposito dell'unione nuziale fra essere e fare che tutte le arti additano).
        Riguardo alla qualità androgina, fluida, meta-personale della voce e della persona stessa del poeta (voce che già Saba proclamava "materna") si può anche ricordare che Betocchi definiva splendidamente il poeta, il cui tempo "è fulmineo", "come morto fin dalla nascita, / [...] come vivo dopo la morte", e che Marina Cvetaeva identificava la sua missione con uno "sfiorare l'organo con le dita di Bach / senza turbare l'eco": ma già Keats, nella famosa lettera del 27 ottobre 1818 a Woodhouse, diceva che il poeta è "la meno poetica delle creature", perché "non ha identità, ma di continuo foggia e riempie qualche altro corpo", e, se avverte la sfida di guarire la bellezza offesa nel mondo, è "come una fogliolina delicatissima nella mano rovente del pensiero" (lettera a Bailey, 23 gennaio 1818).
        Se, dunque, la nostra storia umana è una serie esaltante e dolorosa di acquisti e perdite, la poesia è per sua essenza dono, capace, se ascoltata, di trasformare ciò che l'economista Amartya Sen ha definito "l'altruismo egoista" tipico del pensiero occidentale nell'egoismo altruista dell'uomo etico ed estetico, ossia in un "pensiero per il mondo", per ciò che nutre e giova, guarendo, col suo impegno creaturale e civile insieme, la sensazione del cosiddetto uomo comune di essere continuamente soverchiato e superato dalla storia senza esserne mai stato raggiunto, non riuscendo così a scolpire il volto della storia stessa nel suo riso e nelle sue lacrime: ma la poesia, nel suo secretum privato e corale, può trasformare quella che Leopardi chiamava "l'esplorazione del proprio petto" (e Baudelaire "il mio cuore messo a nudo") in un viaggio salvifico al termine delle notti oscure della natura e dell'anima. È necessario però che il viaggio della poesia sia concreto, fatto di parole-cose (come nell'ebraico davar che ha entrambi i sensi), e che non sia una fuga nella torre d'avorio o nel paradiso interiore, in una foresta di simboli soggettivi ovvero in un astratto "meglio che sia nemico del bene", che tanto spesso ha condannato il poeta all'amore-odio verso il proprio tempo, del quale egli deve essere invece testimone lucido e appassionato, non un demiurgo frustrato o un sacerdote cacciato dal tempio; perché, al di là dei miraggi consolatori della fama, o al contrario dell'oscurità, il poeta sa che la poesia è necessaria al mondo come scienza sperimentale dell'origine, degli alfa e omega creaturali e comunitari: mentre la scienza e la tecnologia "continuano" per così dire indefinitamente se stesse, la poesia "inizia" sempre, riconducendo all'origine l'umano, curando - se non cade nell'idolatria di se stessa - le febbri della superstizione e del fanatismo ideologico, contrastando la stessa distruttiva ignoranza del male. La poesia è perciò anche un attivo pellegrinaggio interiore, un "andare per il mondo" portando la lanterna della parola per far luce sulla realtà, trasformando quello che Marguerite Yourcenar ha chiamato "il giro della prigione" in un paradossale ma autentico libero destino, adottando la magnifica pazienza e lo slancio indomito della natura (e della civiltà in quanto figlia agguerrita della natura). Di questo slancio i giovani adepti della poesia qui raccolti e premiati sotto la nobile ala dell'UNESCO sono oggi l'incarnazione più lieta e confidente.

Intervento presentato nella Sala degli Affreschi, sede del Consiglio Regionale della Toscana (Firenze), il 21 marzo 2003, nell'ambito della iniziativa "Una Poesia da Oscar", organizzata dal Centro UNESCO di Firenze in occasione della Giornata Mondiale della Poesia promossa dall'UNESCO







        Saluto con stima e calore gli organizzatori di questo originale meeting "comparatistico" ed interlinguistico Con le parole e senza, e voi tutti gentili intervenuti.
        Sono particolarmente felice di ritrovare l'amata Svezia e la nobile Stoccolma, che è ormai per me una delle mie "patrie dell'anima" di questa nostra globale ma felicemente ramificata Europa; ed europea in senso etimologico io sento profondamente la mia poesia, nelle sue radici e nei suoi frutti: dedicarmi alla poesia fin da giovanissima è sempre equivalso a rispondere ad un imperativo vocazionale e testimoniale, ad una giustificazione - posso dirlo - della mia esistenza, nel senso di quel "patto originario tra lo spirito e il mondo" che rammentava Simone Weil: una risposta ad un dono che è una techne esigente, uno strumento conoscitivo dell'alto e del profondo della coscienza individuale, comunitaria e cosmica, nei limiti soggettivi in cui l'io personale lo consente. Approfondendosi nel tempo, la mia ricerca poetica e drammaturgica si è sempre rivolta, per naturale disposizione, in senso archetipico e simbolico e si è appunto alimentata di molte voci elettive della cultura poetico-filosofica ed artistica europea (dai lirici e tragici greci a Dante, dai mistici ai poeti metafisici inglesi, da Hölderlin a Eliot, ma anche alla Dickinson e ai simbolisti francesi e russi) e più in generale si è nutrita dei testi sapienziali "generativi" della tradizione sia occidentale che orientale che accomunano la cosiddetta "poesia pensante" (espressione in realtà pleonastica) e in particolare della poesia sufi, buddista, taoista e zen antica e moderna, che si è confrontata in me con le radici classico-cristiane e con le esigenze anti-retoriche delle avanguardie novecentesche. In questo senso un "ponte" ed uno specchio prezioso sono state le traduzioni da diverse lingue ed autori europei, che ho sempre scelto - o meglio, da cui sono stata scelta - in base ad affinità elettive profonde (da Shakespeare e Herbert a Proust e alla Woolf, da Thompson alla Mansfield, alla Weil e a Djuna Barnes), in quanto la traduzione, come "ponte" fra lingue e le Weltanschaungen, rispecchia il lavoro e la situazione stessa del poeta, che è quella di abitare i ponti e di "traghettare" gli stati di coscienza dall'invisibile al visibile e viceversa, in spirito di servizio e di testimonianza dell'unità nella molteplicità.
        Questa condizione non e per me né astratta né teoretica né tantomeno ideologica, bensì saldamente radicata nella quotidianità della mia esperienza "abbracciante", che è in primis femminile e materna (ma il poeta è sempre madre, diceva Saba) in senso creaturale e creativo, e perciò politonale, "multanime" o meglio "enarmonica", tesa cioè - nei limiti delle mie possibilità - a dar voce, ad essere voce dei diversi mondi viventi e senzíenti. In questa dialettica fra io personale e Sé universale la poesia è quindi per me una sorta di artigianato salvifico, di scienza sperimentale delle cose prime e ultime, di figlia naturale del tempo e figlia adottiva dell'eternità, secondo la tradizione pitagorica e platonica.
        In questo viaggio vitale ed espressivo, che è insieme esaltante e drammatico, ed oserei dire sacrificale a causa dei limiti che il linguaggio trova nel dire-fare (e pronunziare in giustizia) il mondo (kosmos), ho sempre sentito affine e "parlante" il rapporto con le altre arti sorelle - le altre Muse nate dalla comune madre Mnemosyne, la memoria - in particolare la musica e le arti figurative classiche e moderne, più centrate su una ricerca di senso fondante, su una forma-sostanza individuale e comunitaria, "cosmica" in senso etimologico (kosmos come mondo e come bellezza). Le arti figurative sono solo apparentemente "senza parola", essendo traduzioni di una parola silenziosa in forme eloquenti, plastiche e dinamiche di materia, segno e colore di suono-colore (la Klangfarbe degli espressionisti): la scultura e la poesia, in particolare, sono entrambe un "dire cose" michelangiolesco, una sostanza tesa tra il pieno e il vuoto, l'esprimibile e l'inesprimibile, che può divenire, per l'artista, per il poeta e per il cosiddetto comune lettore o fruitore, un apprendistato, un viaggio (nel senso del latino viaticum) al di là delle rumorose apparenze, verso la luminosa e la silenziosa verità.
        Dedico dunque a voi, amici antichi e nuovi, particolarmente la mia opera poetica quarantennale, ora raccolta nel volume L'opera del vento (Venezia, Marsilio, 2006) e il suo recente pendant, l'antologia critica Poesia e lavoro nella cultura occidentale (Roma, Edizione del Giano, 2007) realizzata con totale indipendenza di scelte ma con spirito di servizio su richiesta della CGIL (il più grande sindacato italiano), a chiusura dei festeggiamenti per il centenario della sua fondazione: un'opera - quasi una sfida - non facile né breve ma assai stimolante per la scelta dei testi dei poeti implicati appunto nel tema del poiein/lavoro umano, a partire dal Dio biblico che crea il mondo tramite la parola (ruach o spiritus) fino alle voci più recenti del secolo appena concluso (l'unica vivente è l'acuta Wislava Szymborska).
        Questo incontro è dunque per me, e di nuovo ve ne ringrazio, un'occasione preziosa di confronto attivo, cooperante con l'avventura della condizione umana, affinché questa condizione non sia un abitare il mondo come una Babele globalizzata ma spersonalizzante e centrifuga di linguaggi, bensì come una domus architettonica dal centro ben orientato, dall'anima unica nelle sue mille forme, poiché, come dice Dante che anche voi amate, "diverse voci fanno dolci note", se è armonico il disegno del canto ed unitario il viaggio nel senso, che comprende il flusso eracliteo del fiume quanto la fermezza polare della stella.

Discorso tenuto presso l'Istituto Italiano di Cultura di Stoccolma (aprile 2008)