Lettera di Pietro Aretino a Giovanni de' Medici
da Reggio, [15 febbraio] 1524

ASF: MAP.VI.797




 

 

[c. 808r]
 
Io ringrazio quell'uomo da bene di messer Domenedio, non ch'Amore vi sia buon compagno, ma ch'io veggio in furore chi in furia vi ha tante volte messo; ma ben rinego san Francesco che tutto il male è sopra di me. Io ardo, io sospiro, io piango: ed è cagion di tutto questo una donna, una reina! O infelice Aretino! È possibile ch'io sia condotto a mendicare un sguardo, come se gli sguardi fossero una commenda? Io, per grazia di Dio, sono in essilio fuggito come il boia, ma se Cristo vole, se Cristo vole... Basta.
Noi tornammo da Ruolo, né so qual sia stata la cagione. Madonna Paula sempre d'allora in qua è stata in lacrimarum valle. Ella è pallida, la non si vede più né in carretta né a finestre e mi pare intendere che la vada a Bologna. Ahi crudelaccio! Ah ingrato! Come potete voi sopportare ch'una che vi ama, vi adora, vi teme, si conduca a ire per il mondo con ferma disperazione? Io per me gli ho compassione e la conforto meglio ch'io posso; e Dio il voglia che la vadi bene, e credo che la tornería a Ruolo volentieri, purché vi piacesse. Io compongo adesso cose da fare rintenerire i sassi, e questo la infelice donna mi fa fare per voi. Ma innanzi che Vostra Signoria Illustrissima gli abbia, quella leggerà un mio sonettino, il quale è pubbligo al mondo; ma nol mostrate in Mantova, perché faría perdere il gusto a quelle trasparenti e snelle mule secche tanto onorate da messer Giannozzo; e se pur lo volete mostrare, mostratelo a messer conte Ambruogio senza pennacchi.
In Reggio s'è detto che Vostra Signoria era ita a lo 'mperadore ed al sofì, di modo ch'io vo disperato insieme con più d'una persona. Ringrazio san Rocco che sète costì e credo al primo capriccio vi vengo apposta in posta.
 
[c. 808v]

Or torniamo al sonetto:

Io ch'un secolo e un mezzo ho buggerato
E credea buggerar favente Deo,
Perché dei nostri antichi il Coliseo
Volentier dai moderni è visitato,

Ma non so qual gaglioffo mio peccato
O quale influsso imbriaco e giudeo
Fa ch'io, che 'l fine merito d'Orfeo,
In Reggio sia di donna innamorato.

Quest'è miracol, questo è caso strano,
Non che si squarti vivo il Soderino,
Né che fusse pastor mastro Adriano!

O pazzo in forma Camerae Aretino!
Ben può dire ora ogni fedel cristiano
Ch'io non merto la grazia di Pasquino!

                    Ahi becco Amor facchino!
Ch'io ti metta in un destro t'apparecchia,
O fa' che torni alla mia arte vecchia.

Illustrissimo Signore, siate certissimo che tutti torniamo a la gran madre antica e se io esco con onor mio di questa pazzia buggerarò tanto, tanto e tanto che buon per me e per gli amici miei! S'io n'esco dirò tanto e tanto e tanto male de chi s'impaccia con donne che mal per loro!
 
[c. 809r]

Altro non ho da dirvi se non che colei che più che l'anima vi ama è vostra, né pò essere mai d'altri; e sì come de l'amor suo vi fece gran dono, così del corpo vi vuole far presente; e così si sottoscrive in questa presente scritta di propria mano. Sicché non fate più la ninfa, perch'ogni troppo è troppo. Supplico Vostra Signoria si degni dire alla Eccellentissima Illustrissima Marchesa ch'io le sono schiavo eccetera.

Io Paula afermo quanto di sopra se contiene e vi son servitrice anco che non me abiati a credere.
Di Reggio, il dì del giudizio 1524.
Di Vostra Signoria Illustrissima

perpetuo servo Pietro Aretino

 
[c. 809v]
[sovrascritta]

Allo Invittissimo e Magnanimo Signore il Signore Giovanni de' Medici, mio Patrone, al [corpo] [s]uo e di Cristo, in Mantova


 

 
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