Banca Dati "Nuovo Rinascimento"



MASSIMILIANO CHIAMENTI

Glossa di accompagnamento per un madrigale tassiano





               Ecco mormorar l'onde
               e tremolar le fronde
               e l'aura mattutina e gli arboscelli,
               e sopra i verdi rami i vaghi augelli
      5        cantar soavemente
               e rider l'orïente:
               ecco già l'alba appare
               e si specchia nel mare,
               e rasserena il cielo,
     10        e le campagne imperla il dolce gelo,
               e gli alti monti indora.
               O bella e vaga aurora,
               l'aura è tua messaggera, e tu de l'aura
               ch'ogni arso cor restaura. [1]



Dopo la documentata lettura che di questo celebre madrigale spesso antologizzato ha dato Antonio Daniele (Lettura di un madrigale tassesco, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CXLIX, 1972, pp. 349-362), che informa tra l'altro delle varianti redazionali, oltre che del tema dell'alba nella lirica romanza (si pensi proprio a L'alba par umet mar...), delle suggestioni petrarchesche (il senhal l'aura/Laura ecc.) e della testura metrica; dopo i fondamentali studi di Contini sulla lingua del Petrarca (e dei petrarchisti) sul motivo dell'aura-mot e dell'aura-situation, nonché dopo l'introduzione di Trombatore all'edizione delle Rime del Tasso da lui curata, e in cui rimandava per questo testo, con pertinente correttivo, soprattutto al clima atmosferico e verbale del Purgatorio dantesco, ed infine rammentando le celebri pagine di Auerbach sul motivo biblico dell'ecce..., sembra che, a meno di voler riprodurre il già detto, non resti altro da fare che tacere e ascoltare senza ulteriori postille l'incanto musicale di questo esile e felicissimo madrigale: ma forse ancora una men che minima scheda è reperibile.

E vengo subito al punto: come si può rilevare fin da una prima analisi testuale diciamo "ad orecchio", non c'è parola, sintagma o giro di frase di questa composizione che non discenda recta via da una delle due Corone poetiche, o, almeno, che non abbia in questi una qualche cittadinanza: anzi non credo che i rapporti con i soliti due Massimi Sistemi si possano (o si debbano) né parcellizzare né gerarchizzare più di tanto (si constati il regesto in calce). Solo una forma però, a rigore, non è riscontrabile né in Dante né in Petrarca: si tratta del lemma verbale indorare del v. 11: «gli alti monti indora». I due sommi trecentisti conoscono al più solo dorare, come in Dante, Rime CIII (Così nel mio parlar voglio esser aspro) 64: «... ne' biondi capelli / ch'Amor per consumarmi increspa e dora» (e anche, nella forma participiale però, Inf. XXIII 64 e Par. XVI 102), e in Petrarca, RVF CLI 8 «... i suoi strali Amor dora et affina», e, certo quest'ultimo caso vero e proprio innesco della tassiana coppia imperla e indora dei vv. 10-11 («e le campagne imperla il dolce gelo / e gli alti monti indora»), RVF CXCII 1-5: «Stiamo, Amor, a veder la gloria nostra, / cose sopra natura altere et nove: / vedi ben quanta in lei dolcezza piove, / vedi lume che 'l cielo in terra mostra, / vedi quant'arte dora e 'mperla e 'nostra / l'abito electo...». Il richiamo più stringente è dunque dal Petrarca più prezioso, che addirittura esibisce qui un hapax culto come il verbo inostrare (='imporporare', Contini), che Tasso debitamente utilizzerà altrove nelle sue composizioni. Ma indora è, in poesia, post-trecentesco, e sembra ribadire con quel prefisso in- l'intensità del precedente «im-perla», in un contesto fonico tutto all'insegna del surplus acustico: si prenda la continuata anafora – quasi un "pedale", un "bordone" – degli e paratattici e degli ecco ritornellanti, si ammetta l'esornatività a-semantica di molta aggettivazione quale «verdi rami» (v. 4), «vaghi augelli» (v. 4), ma anche «vaga aurora» (v. 12) ecc., e si ausculti, infine, la nimia repercussio della "triade" fonica or/aur/ar, che occorre ben 17 volte nel giro di 14 versi di cui 10 settenari, dunque su sole 114 sillabe, e quindi, in percentuale, con una media impressionante di una apparizione ogni 6/7 sillabe (e sottolineo l'oltranza fonica della chiusa: «ch'ogni arso cor restaura»). Tutto ciò, crederei, non si giustifica altro che in termini di mera ricerca di musicalità, di alleggerimento (la prima redazione era meno pronunciata in tal senso, priva di anafore e prevalentemente endecasillabica), di timbriche dominanti, di ridondanze ricche su motivi e materiali già normati (in quanto provenienti dal sincretismo binato della tradizione più alta) e liberamente componibili e sovrapponibili, semmai appena dilatabili o affinabili. Né «indora» (qui in sinalefe) è necessitato dal rispetto metrico rispetto all'omosillabico «dora», quanto semmai dal parallelismo (la poesia come arte dei parallelismi?) che instaura, lo ripeto, con l'«imperla» del verso precedente, anch'esso in sinalefe e omotetico (cioè dopo la cesura di 5a) ad esso.

Fatto sta che Tasso, come è noto, nei Discorsi sull'arte poetica, aveva acutamente teorizzato sui composti verbali parasintetici nella Commedia, definendoli nomi «fatti» o «finti», cioè d'autore, coniati ex novo, e recava come esemplificazione proprio termini come 'intuarsi', 'immiarsi', 'imparadisare', 'insemprarsi' ecc., per cui evidentemente confidava nelle possibilità onomaturgicamente espressive, e forse espressionistiche, di sovraccarico, del prefisso in-. E in ciò va leggermente oltre Dante, come si è visto, utilizzando un verbo, indorare, che, così espanso, concorre al "largo" degli ultimi versi, e accostato ad altro analogo composto, vibra e risuona come un armonico.




[Appendice: altri ipotesti danteschi e petrarcheschi di Ecco mormorar l'onde: Purg. XXVIII 7-15: «Un'aura dolce, sanza mutamento / avere in sé, mi feria per la fronte / non di più colpo che soave vento; / per cui le fronde, tremolando, pronte / tutte quante piegavano a la parte / u' la prim' ombra gitta il santo monte; / non però dal loro esser dritto sparte / tanto, che li augelletti per le cime / lasciasser d'operare ogne lor arte»; Purg. I 115-7: «L'alba vinceva l'ora mattutina / che fuggia innanzi, sì che di lontano / conobbi il tremolar della marina»; Purg. XXVII 133-4: «Vedi lo sol che 'n fronte ti riluce; / vedi l'erbette, i fiori e li arbuscelli» (arbuscelli anche in Petrarca, ma non in rima); RVF CCXXXIX 1-3: «Là ver' l'aurora, che sì dolce l'aura / al tempo novo suol movere i fiori, / et li augelletti incominciar lor versi»; Par. XXIII 1-3: «Come l'augello, intra l'amate fronde, / posato al nido de' suoi dolci nati / la notte che le cose ci nasconde, / che, per veder li aspetti disïati / e per trovar lo cibo onde li pasca, / in che gravi labor li sono aggrati, / previene il tempo in su aperta frasca, / e con ardente affetto il sole aspetta, / fiso guardando pur che l'alba nasca»; RVF CXCVI 1-2: «L'aura serena che fra verdi fronde / mormorando a ferir nel volto viemme»; Purg. I 20: «faceva tutto rider l'orïente»; RVF CCLXXIX: «Se lamentar augelli, o verdi fronde / mover soavemente a l'aura estiva, / o roco mormorar di lucide onde / s'ode d'una fiorita et fresca riva... »; RVF CXCIV 1: «L'aura gentil che rasserena i poggi»; RVF CCCX 5: «Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena»; RVF LII 6-8: «ch'a l'aura il vago e biondo capel chiuda, / tal che mi fece, or quand'egli arde 'l cielo, / tutto tremar d'un amoroso gielo»; RVF CCCLXII 5: «Talor mi trema 'l cor d'un dolce gelo»; Purg. II 8: «... bella Aurora»; Purg. XXIV 145-6: «E quale, annunziatrice de li albori, / l'aura di maggio movesi e olezza»; RVF CXCVII 1-4: «L'aura celeste che 'n quel verde lauro / spira, ov'Amor ferì nel fianco Apollo, / et a me pose un dolce giogo al collo, / tal che mia libertà tardi restauro»].



[1] T. TASSO, Rime, a c. di B. Basile, Roma, Salerno, 1994, libro II (Rime d'amore per Laura Peperara), n. 143, vol. I, pp. 154-155.



immesso in rete il 3 settembre 1997