Banca Dati "Nuovo Rinascimento"



MASSIMILIANO CHIAMENTI

Dora 1: ipotesti






Scriveva Eugenio Montale al più giovane (ma già eminente) amico Gianfranco Contini il 15 Maggio 1939: «Ti mando anche una Dora 2 un po' migliorata...»: con questo epiteto era designata telegraficamente quella che sarebbe divenuta, sempre con parole di Montale, a «distanza di 13 anni (e si sente)», «una conclusione, se non un centro» ad altra sua composizione il cui titolo leggeva, fin dalla sua difettosa princeps («Meridiano di Roma», a. I, n. 2, Roma, 10 Gennaio 1937, pp. iii-iv), Dora Markus. Sulla complessa - e in certo senso giallorosa - dinamica redazionale, così come sull'identificazione della (o delle) figure femminili presenti nell'ispirazione del dittico, il cui dossier comprende documenti fotografici degni delle Kessler, inchiostrazioni beffarde, Muse une e trine nonché antiche e recenti missive, informa eccellentemente e dettagliatamente l'edizione dell'Opera in versi a cura di Gianfranco Contini e di Rosanna Bettarini (Torino, Einaudi, 1980) alle pp. 900-2, e ancor meglio il saggio, sempre di Rosanna Bettarini, Per Dora, apparso in AA. VV., Le tradizioni del testo. Studi di Letteratura Italiana offerti a Domenico De Robertis, Milano-Napoli, Ricciardi, 1993, pp. 531-41; questi punti bettariniani sono poi rinserrati da Dante Isella nella sua importante edizione de Le Occasioni, Torino, Einaudi, 1996, alle pp. 53-6.

Detto ciò, è opportuno focalizzare subito i luoghi da sollecitare per questo testo che Isella qualifica come «Forse la più nota tra le poesie di Montale, [...] quella più composita e problematica» (op. cit., p. 53). Ma costituiscono propriamente un testo, nel senso di textus, questi straordinari ventotto versi di Dora 1, o si tratta piuttosto, nei termini continiani riproposti da Isella (op. cit., p. 54), di «apparenti appunti per una lirica», come lo stesso Montale sembrava sottolineare in una lettera dei primi mesi del 1940 indirizzata al fidato Leone Ginzburg della casa Einaudi, in cui proponeva la separazione del pezzo in due momenti distinti, rispettivamente di tredici (prime due strofette) e quindici versi (terza strofa), per di più tipograficamente evidenziata da una «linea di puntini»? Comunque stiano le cose, ma mi sembra che il dettato sia invece piuttosto coeso, le chiose di Isella, se da un lato appagano in parte la fame di commenti ai nostri poeti contemporanei (e nei miei voti ci sarebbe un commento a Palazzeschi), dall'altro sollecitano ora altre aggiunzioni, soprattutto in senso ipotestuale: e intendo per ipotesto (hypotext), come ho già avuto modo di esporre altrove (Dante Alighieri traduttore, Firenze, Le Lettere [«Quaderni degli "Studi Danteschi"», 10], 1996, p. 3), nel senso di 'testo soggiacente', o 'testo da cui si traduce', intendendo questo transducere, con Jakobson, sia in senso interlinguistico che endolinguistico.

Innanzitutto dunque, partendo dai vv. 11-5, cioè dalla seconda «'lassa'» (Bettarini):

           E qui dove un'antica vita
           si screzia in una dolce
           ansietà d'Oriente,
           le tue parole iridavano come le scaglie
           della triglia moribonda.

Porrei qui l'accento sulla spettacolarità puntinistica e sulla mutevolezza del manifestarsi della bellezza, sia visiva che fonica: quella dei mosaici ravennati dove «un'antica vita / si screzia», e quella delle parole dell'ineffabile Dora che «iridavano come le scaglie / della triglia». È tutto un rilucere, un cangiare, un trascolorare, un diffrangersi multicolore. Ma se è vero che non solo l'ante giustifica il post, ma è dato anche il contrario (secondo la sistematica cristallografica cara a Eliot), allora da raffrontare immediatamente a questo oggetto sarà una traduzione (La bellezza cangiante, apparsa su «La Fiera Letteraria», a. III, n. 28-29, Roma, 10 Ottobre 1948, p. i) che Montale eseguì di un mirabile pezzo di Gerard Manley Hopkins, dal titolo Pied Beauty. Alla contemplazione, estetica ed estatica, di Hopkins sulla bellezza policroma e mistiforme del «Glory be to God for dappled things» (v. 1), Montale risponde con «Gloria a Dio per le cose che ha spruzzate» (v. 1): in quella felice versione montaliana (per la quale si può vedere almeno Laura Barile, Adorate mie larve, Bologna, Il Mulino, 1990, pp. 25-50) sono cercati degli equivalenti verbali il cui piano isotopico è dato dalla lode delle luminescenze svarianti: «skies of couple-colour as a brinded cow» (v. 2) > «cieli bicolori, pezzati come vacche» (v. 2), «rose-moles all stipple upon trout that swim» (v. 3) > «la striscia roseo-biliottata della / trota in acqua» (vv. 3-4), «landscape plotted and pieced - fold, fallow, and plough» (v. 5) > «toppe / dei campi arati e dissodati» (vv. 6-7), «All things counter, original, spare, strange; / whatever is fickle, freckled» (vv. 7-8) > «e tutto ch'è / fuor di squadra, difforme, impari e strambo, / tutto che muta, punto da lentiggini» (vv. 8-10) e così via. Montale trova in Hopkins il dispiegamento e la consonanza ad un proprio modo non anodino e statico di rappresentazione della bellezza, anzi del sublime, già collaudato nel libro di Clizia, e soprattutto in Dora 1, e tutto sotto il segno del poeta inglese.

E ancora: se, come ho sentito dire da Domenico De Robertis (ma non mi pare che lo abbia mai scritto in termini così perentori) la presenza di Dante nella letteratura italiana è «un fatto genetico», si deve riconoscere che Dora 1 non fa eccezione... anzi! Certamente verrà subito in mente, ai vv. 22-4, l'espressione, altissima:

          Non so come stremata tu resisti
          in questo lago
          d'indifferenza ch'è il tuo cuore

che, come segnalano Bettarini e Isella, rimanda recta via alla definizione dantesca di Inf. I 20 «lago del cor»: più che allusivo qui Montale tenta il rilancio, tenta, mediante la mise en relief, una nota più alta. Ma c'è dell'altro. A proposito dell'adnominatio «patria vera» (v. 6) «primavera» (v. 10), per il quale la Bettarini (op. cit., 1993, p. 535) rinvia all'analogo «Laura ora» / «l'aurora» di Petrarca, RVF CCXCI, perché non abbinare all'incartamento l'ancor più propinquo «prima verrà» / «Primavera» di Dante, Vita Nuova XXIV 4 (o 15, 4 secondo la nuova paragrafazione di Gorni)? E sempre, facendo un passo indietro, sarà da guardare a Dante anche per l'armonizzazione della strofetta hopkinsiana (vv. 11-5) dove «dolce / ansietà d'Oriente» (vv. 12-3) non può non evocare il «Dolce colore d'orïental zaffiro» di Purg. I 13, come pure «all'altra sponda», in clausola al v. 5, ripete il «da l'altra sponda», ugualmente in rima, di Purg. XXIX 89.

E non è finita: se difatti gli «uccelli di passo che urtano ai fari», le «sere tempestose», e la «tempesta» che «turbina» e i cui «riposi sono anche più rari» dei vv. 16-21 già dovrebbero metter sull'avviso, rinviando alla fauna alata di Inf. V, nonché, sempre entro il medesimo ipotesto, al «che mugghia come fa mar per tempesta» (v. 29) e alla «bufera infernal, che mai non resta» (v. 31), più emozionante sarà il riscontro dell'identità logico-sintattica con cui l'io poeta-personaggio, rivolgendosi a Dora, può dire «La tua irrequietudine mi fa pensare» (v. 16) così come Dante a Francesca: «i tuoi martìri / [...] mi fanno tristo» (vv. 116-7), secondo una formula già collaudata nel sonetto L'amaro lagrimar che voi faceste, incluso in Vita Nuova XXXVII 6-8 (26, 8), v. 8: «La vostra vanità mi fa pensare». Ed ecco, a coronamento e a chiave di tutta la Dora 1 (il che, tra l'altro, lega strettamente i due supposti frammenti della prima parte) il punto fulcrale, ed è l'attacco:

          Fu dove il ponte di legno 
          mette a porto Corsini sul mare alto
          [...],

come non pensare a «Siede la terra dove nata fui / su la marina dove 'l Po discende» (Inf. V 97-8)? La pertinenza del pezzo qui invocato, corroborata dalla visione romanticamente infernale dei vv. 16-21, è addirittura impressionante: il porto è difatti quello di Ravenna, dunque «su la marina dove 'l Po discende» (e dove tra l'altro iacent ossa Dantis), il dove nata fui di Francesca presta chiasticamente a Dora, anzi a Montale, l'innesco cronotopicamente determinate fu dove, e il tutto torna, soffuso e virginale, per cui su la marina è ora sul mare, e Po è ora alluso fonicamente da ponte e porto.

Nella filigrana della leggenda di Dora si disegna un volto: quello di Francesca.


immesso in rete il 2 aprile 1997