Banca Dati "Nuovo Rinascimento"



MASSIMILIANO CHIAMENTI

Sonetto dantesco del Boccaccio
già creduto del Petrarca






A Rosanna Bettarini
con devozione e amicizia
questo impalpabile biglietto virtuale



L'oggetto è forse minimo (ma reale), e minimo, di per sé, è stato l'onere del "mettere a pulito" queste schedulae che riguardano un poco più che modesto sonetto, I' ho già mille penne e più stancate, da me studiato e discusso nell'ambito del memorabile corso seminariale di Filologia Italiana sulle estravaganti petrarchesche che Rosanna Bettarini tenne per l'anno accademico 1990-1991 presso l'Università degli Studi di Firenze. La tentazione semmai, alla quale è invece oneroso sottrarsi ma il faut, sarebbe quella di appulcrarvi parole e di estendere la ricerca ad altri elementi della pleiade dei marginalia ai RVF, falsando così però il documento, che è evidentemente per chi scrive anche tinto di valenze esperienziali. Presenterò dunque qui i nudi fatti - sfrondati sia dal didascalismo che dall'oralità di quell'esposizione - nella loro duplice teleologia: la constitutio textus e l'ipotesi di authorship per argomenti interni, stante, come dimostra De Robertis, un'impossibilità in re di razionalizzare stemmaticamente il testimoniale. Poiché ad un nuovo controllo dei dati a distanza di cinque anni mi pare che questi, sebbene non mirabili né squisiti, "tengano", ho deciso di licenziare istantaneamente il pezzo, a mo' di bigliettino, affinché si perda nel grande mare della rete delle reti a microscopica utilità dei petrarchisti on line. E la conclusione di quel breve studio di allora (immutata dopo un lustro di cassetto dovuto forse più a pigrizia del suo autore che a suo demerito) è questa: il sonetto in questione, sebbene compaia in due ben noti mss. che contengono sillogi petrarchesche e sia presente nell'edizione in cui Solerti e Cian raccolsero i materiali dispersi dell'autore non accolti nel Vat. lat. 3195, non è di Francesco Petrarca, anzi non è neppure pensabile come corsiva prova di penna fuori dal librone canonico, bensì è francamente ascrivibile all'eserciziario di Giovanni Boccaccio (coinquilino consistente nei due testimoni in questione), come rivelato, tra l'altro, dagli smaccati dantismi di cui il componimento gronda (inammissibili in Petrarca), da alcune spie lessicali, da una certa prosastica piattezza rappresentativa, e infine da alcune iuncturae e moduli assolutamente boccacceschi; sarebbe dunque opportuno promuovere questo «cibreo di frasi fatte» (per dirla con Contini) tra i pezzi certi dello scrittore certaldese, avanzandolo nelle edizioni delle Rime del Boccaccio dalla postazione caudale di appendix in cui è solitamente collocato. Buona lettura.



Testimoni manoscritti:


  • R : Firenze, Biblioteca Riccardiana 1103, cart., sec. XV in., cc. 164. Il sonetto, alla c. 44 v, reca la rubrica «soneto di me(ser) franciescho» espunta con una croce laterale.
  • O : Oxford, Bodleian Library, ms. Canoniciano Italiano 65, cart., sec. XV, cc. 140. Il sonetto, adespoto, è alla c. 106 r.
(per le descrizioni di questi due codici, contenenti rime di Petrarca, di Boccaccio e di altri autori, rimando a DE ROBERTIS, Censimento dei manoscritti di rime di Dante, «Studi Danteschi», XXXVIII, 1961, pp. 196-8 e 257-8)


Edizioni a stampa:


  • (S) : Rime disperse di Francesco Petrarca, o a lui attribuite, per la prima volta raccolte a cura di ANGELO SOLERTI, Firenze, 1909.
    Il sonetto è collocato nella sezione III (nº LXXIII, p. 160) tra le rime attribuite a Francesco Petrarca da uno o più codici contenenti sillogi petrarchesche.
  • (M) : GIOVANNI BOCCACCI, Rime, a cura di A. F. MASSERA, Bologna, 1914.
    Il sonetto è collocato nell'appendice contenente rime di dubbia attribuzione (nº 17, p. 200).
  • (B) : GIOVANNI BOCCACCIO, Rime e Caccia di Diana, a cura di V. BRANCA, Padova, 1958.
    Il sonetto è collocato anche qui nell'appendice di rime di dubbia attribuzione (nº 19, p. 169).


Studi:


  • A. F. MASSERA - L. MANICARDI, Introduzione al testo critico del "Canzoniere" di Giovanni Boccacci, Castelfiorentino, 1901.
  • D. BIANCHI, Per le rime disperse di Francesco Petrarca, «Studi Petrarcheschi», 1928 (Omaggio di Arezzo al suo poeta), pp. 79-86.
  • D. BIANCHI, Intorno alle "Rime disperse" del Petrarca. Il Petrarca e i fratelli Beccari, «Studi Petrarcheschi», II, 1949, pp. 107-36.
    Sostiene con intelligente buon senso che, analogamente a quanto teorizzato da Roberto Longhi per le arti figurative, anche in poesia vige il principio che le attribuzioni a nomi eccelsi servivano a dar lustro al pezzo e non sono sempre attendibili.
  • D. BIANCHI, Petrarca o Boccaccio?, «Studi Petrarcheschi», V, 1952, pp. 13-84.
    Sostiene un'indifendibile attribuzione del sonetto a Sennuccio del Bene.
  • V. BRANCA, Tradizione delle Opere di Giovanni Boccaccio, Roma, 1958.
  • A. CAVEDON, La tradizione veneta delle rime estravaganti del Petrarca, «Studi Petrarcheschi», VIII, 1976, pp. 1-13.
  • A. CAVEDON, Due nuovi codici della tradizione "veneta" delle "rime estravaganti" del Petrarca, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CVI, 1980, pp. 252-81.
  • A. CAVEDON, Intorno alle rime estravaganti del Petrarca, «Revue des Études Italiennes», XXIX, 1983, pp. 86-108.
  • D. DE ROBERTIS, A norma di stemma (per il testo delle rime del Boccaccio), «Studi di Filologia Italiana», XLII, 1984, pp. 109-49.
    Stante una tradizione fortemente entropica fin da subito delle rime del Boccaccio, il celebre ms. Bartoliniano dell'Accademia della Crusca contenente più o meno il corpus boccaccesco delle sue rime - dove questo sonetto non compare - non può essere assunto come «misura di tutte le cose» e, data la «... sostanziale indipendenza delle testimonianze fondamentali [...] la decisione [sulle attribuzioni] è affidata ad argomenti interni».
  • A. CAVEDON, Indagini e accertamenti su una crestomazia cinquecentesca di disperse, «Studi Petrarcheschi», n.s., IV, 1987, pp. 35-57.
  • M. C. FABBRI, "Le disperse" nel manoscritto Casanatense 924, «Studi Petrarcheschi», n. s., IV, 1987, pp. 313-24.
  • M. SANTAGATA, Per moderne carte. La biblioteca volgare del Petrarca, Bologna, 1990.


          I' ho già mille penne e più stancate
          scrivendo in rima ed in parlar soluto
          l'angoscioso dolor ch'ho sostenuto
4         lunga stagione, aspettando pietate;

e, s'i' non erro, assai men quantitate quietare 'l mar da' venti combattuto o qualunqu' alto monte avrien dovuto 8 mover del loco suo, men faticate,
non che 'l cor d'una donna, la qual niente per lor di sua durezza s'è mutata, 11 ma stassi fredda come ghiaccio all'ombra.
Ond' io mi struggo, e dolorosamente piango la mia ventura disperata: 14 né 'l cor per tutto questo non mi sgombra.


Rubr.: <Soneto dime(ser) franciescho> R. adespoto in O. 1. mile R. pene O. 2. e in parol soluto R. 3. angussoso dollor chio ho O. (dolor, MB). 4. longa O. (stagione aspettando SMB). a spetando pitate R. aspectendo O. 5. osio monero asai R et sio non ero asai O. 6. quitare R. combatuto RO. 7. equalunchaltro R oqualonqua altro O (e qualunque altro S) (e qualunqu' alto B). douto R. aurei domuto O. 8. deluogho R. (dal S). 9. none chelquor R. dona RO (donna: SMB). ilqual RO (il qual MB). eniente O (nïente B). 10. parlar R propio O (proprio S). dureza R. de soa dureça O. (mutato MB). 11. stasi fredo R. freda O. (freddo MB). giacio R giago O. alonbra RO (a l'ombra S). 12. onde O. strugho R. me strugo O. dollorosa mente O. 13. fortuna R. desperata O. (ventura disperata, S) (fortuna disperato; MB). 14. quor R (cuor MB). tuto RO. nomi R.


1. L'attacco è proprio à la Petrarca, cf. RVF XXIII, Nel dolce tempo, 11-2: «... sì che mille penne / ne son già stanche», abilmente riciclato per impreziosire l'incipit (ma il motivo è comunque topico), anche se questa mise en relief delle «penne» quasi come correlativo oggettivo del sentire di chi dette penne usita rimanda invece a CAVALCANTI, Rime XVIII 1-2: «Noi siam le triste penne isbigotite / le cesoiuzze e 'l martellin dolente»; e comunque BOCCACCIO, Rime XXXVIII 8: «far del mio lagrimar penna ed inchiostro». 2. in parlar soluto, cioè 'in prosa', giusta l'ovidiano «verba soluta modis» (Tristia, IV x 24), poi tradotto da DANTE, Inf. XXVIII 3 «con parole sciolte», ma in questa formulazione perfettamente congruente solo con Teseida XX l 1 «con soluto parlare», riscontro corroborato poco più sotto, lii 8 «la mia penna reggete»; il sintagma «parlar soluto» non è attestato in Petrarca, e il latinismo «soluto» è forma assente nel lessico petrarchesco che conosce solo l'aggettivo «sciolto». Inoltre Petrarca, a rigore, non può dire di aver profuso «angoscioso dolor» per una donna catafratta sia «in rima» che «in parlar soluto», a differenza dell'autore che ha sempre lavorato in partita doppia, da un lato col Teseida, Filostrato ecc. e dall'altro col Filocolo, la Madonna Fiammetta ecc. 3-8. Cf. Teseida III xxxviii 1-3: «Così costor da amor faticati, / vedendo questa donna, il loro ardore, / più lieve sostenéan...»; e il part. pass. del verbo 'faticare' con quest'uso non è del Petrarca. 5. quantitate, vocabolo massiccio, prosaico (in Dante ben 11 occorrenze nel Convivio, solo una nella Commedia a Purg. XXI 133, anche lì in rima e motivato dall'enfasi necessaria alla dichiarazione d'amore di Stazio personaggio per Virgilio poeta, ma mai in Vita Nuova e Rime) e connotato da prolixitatis asperitas, non è nell'antiscolastico Petrarca, mentre torna, entro i testi poetici di Boccaccio, ad esempio nell'Amorosa Visione XIII 57 «quantitate» (: «pietate»!) e, nello stesso poema, XIV 8-11: «per possederne maggiore quantitate / li vi vedea forte affaticare / correndo sen portavan caricate / le some...», dove Boccaccio sembra rigiocare il termine «faticate» scindendolo in un equivalente semantico ed uno morfologico. 5-9. La similitudine, tutta convenzionale, presenta due adynata, o meglio due iperboli, che, accanto ai celeberrimi virgiliani (Ecl. I 59 e ss., III 91 e ss. ecc.), danteschi (Al poco giorno, 31-33) e petrarcheschi (CLVI 8 ecc.), è più nelle modalità del Boccaccio: Ninf. Fies. CCCIV 8, Tes. XII 52, e, soprattutto, al solito su pedale dantesco (Inf. XXXII 10-11: «ma quelle donne aiutino il mio verso / ch'aiutaro Anfïone a chiuder Tebe»), Rime V 3-4: «... d'Anfïon la citara a udire / quando li monti a chiuder Tebe mosse». La rima in -uto, ai versi interni delle quartine, di tonalità cupa e dolorosa, è hapax in RVF (e nasce perfino in quell'unico luogo da innesco dantesco: canzone LIII, Spirto gentil, vv. 37 e 38 «Bruto» : «venuto», sull'esempio del «Bruto» : «membruto» : «veduto» di Inf. XXXIV 65, 67 e 69), mentre è ordinaria amministrazione in Boccaccio, e non meraviglia, essendo questa una facile rima grammaticale (dunque, a norma di legge, vitanda) di prontissimo uso. 6. quietare 'l mar non compare in Petrarca, ed è invece prossimo al «queto il mar» di BOCCACCIO, Rime III 3. E tutto il verso è calco meccanico di Inf. V 59-60 «Che mugghia come fa mar per tempesta, / se da contrari venti è combattuto». 11. Il verso, se letto sul ms. O, come mi sembra preferibile oltre che per il senso e per la tutela della desinenza -a in rima, oltre che per il valore aggiunto dell'eco che così si restaura, «ma stassi fredda come ghiaccio all'ombra» (e anche qui, s'intende, ancora il Dante petroso e scuro di Al poco giorno 7-8 «Similemente questa nova donna / si sta gelata come neve a l'ombra») è praticamente identico ai vv. 13-14 «... ed ella stassi / come ghiaccio all'ombra» del sonetto Chi crederia giammai ch'esser potesse, che, presente sulla stessa c. 44 v del Ricc. 1103, è anch'esso ordinato da Branca col numero 12 tra le rime di dubbia attribuzione (p. 164); ma tutto farebbe pensare anche qui, e anzi con più evidenza, a Boccaccio, se si rileva la presenza in questo componimento della 'fiamma', il senhal di Fiammetta, ai vv. 2, 5, 10, e del 'fuoco' al v. 4, ribadito dall''affuoca' al v. 12. Il «dolorosamente», infine, avverbio esasillabico in rima al v. 12, esclude il non violento Petrarca che non si spinge mai oltre il vocabolo pentasillabo rimante, mentre ha cittadinanza usuale in Boccaccio che non si spaventa neanche di fronte a un «perpetüalmente» (Rime, LXIV 4) in clausola versale. C'è bisogno di rilevare la danteità della rima finale «ombra» : «sgombra»? Siamo dunque di fronte ad un esempio palmare dell'onesto artigianato di un Boccaccio petroso, interessante anche per campionare le tipologie della ricezione dei testi danteschi.


Patina linguistica e criteri di edizione: sia che si tratti, come credo di aver dimostrato, di un sonetto attribuibile a Boccaccio, sia che appartenga invece a quel «dolce di Calliope labbro», i due testimoni manoscritti, marcatamente settentrionali, non sono fruibili quanto a sincerità linguistica. È dunque necessario operare una - tanto famigerata quanto necessaria - normalizzazione del testo sullo standard del fiorentino trecentesco, i cui scarti comunque rispetto ai dati offerti dalla tradizione sono esibiti in apparato in modo da consentire un loro eventuale restauro (politically correct). La punteggiatura e le grafie prive di valore fonico sono editoriali. Lingua del ms. R settentrionale, forse romagnola: scempiamenti consonantici (soneto, mile, ero, dona, stasi, fredo, giacio, strugho, tuto, spetando), passaggio del nesso iniziale di occlusiva velare sonora + laterale ad affricata palatale sonora (giacio), dileguo della spirante sonora intervocalica (douto), e soprattutto riduzione del dittongo in i (pitate, quitare). Lingua del ms. O veneta, pavano-veronese, con tocchi latineggianti (et, desperata < dESPERATA, langussoso < angUSTIA), e anche qui scempiamenti consonantici e ipercorrettismi (pene, ero, asai, chombatuto, dona, freda, strugo, tuto, dollor, dollorosa), mancata chiusura di e in protonia (de soa, desperata), mancata anafonesi (longa), passaggio della sibilante sorda dal grado medio palatale a dentale (langussoso), forma soa; (in altri sonetti contenuti in O, della stessa mano, passaggio da affricata palatale sorda e sonora ad affricata alveolare sorda voçe, çio, za nonché mancato dittongamento di e breve in sillaba libera 'mei').


immesso in rete il 4 settembre 1996