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“NUOVO RINASCIMENTO”


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DANILO ROMEI

L’alfabeto segreto di Agnolo Firenzuola *



Il Firenzuola nasce a Firenze nel 1493. Esattamente un anno prima di una data epocale nella storia d'Italia (e d'Europa): il 1494, anno della spedizione di Carlo VIII in Italia. E` l'anno al quale si arresta l'Orlando innamorato del Boiardo, con un'ottava piena di angoscia:

Mentre che io canto, o Iddio redentore,
Vedo la Italiatutta a fiama e a foco
Per questi Galli, che con gran valore
Vengon per disertar non so che loco;
Però vi lascio in questo vano amore
De Fiordespina ardente a poco a poco;
Un'altra fiata, se mi fia concesso,
Racontarovi il tutto per espresso.
[III 9 26]

Ed è l'anno dal quale - non per caso - prende il via la Storia d'Italia del Guicciardini, con il suo celebre proemio:

Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l'armi de' franzesi, chiamate da' nostri principi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali [...] essere vessati. [...] Ma le calamità d'Italia [...] cominciorono con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e felici. Perché manifesto è che [...] non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l'anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti [...].

Nel 1494 una brusca e brutale accelerazione della storia butta all'aria il castello di carte del sistema politico italiano. La fase di maggior turbolenza si estende fino al 1530, ma per un consolidamento della situazione si deve attendere la pace di Cateau Cambrésis del 1559. Da questa rabbiosa accelerazione l'Italia esce disfatta. Non c'è quasi città d'Italia che non abbia subito un'occupazione manu militari, un saccheggio, un taglieggiamento, almeno. Le poche eccezioni confermano la regola. Chi scorre le cronache del tempo non può che ricavarne una tetra sensazione di orrore.

Quest'epoca il Firenzuola l'ha vissuta si può dire per intero. Probabilmente è rimasto coinvolto di persona in due degli eventi più traumatici: il sacco di Roma del 1527, l'assedio di Firenze del 1529-30. [1] Delle rovine, delle stragi, delle crudeltà, dell'orrore nella sua opera non resta traccia alcuna. I letterati che gli sono più vicini - e non dico Pietro Aretino, ma Francesco Berni, Claudio Tolomei, Francesco Maria Molza... - si lasciano sfuggire come minimo una deprecazione, un'invettiva, un'elegia, un'orazione, un excursus. Anche quelli in apparenza più distratti, chiusi nel circuito di una letteratura fuori del tempo, che si nutre di sé e basta a se stessa. Il Firenzuola niente. La sua misura del reale resta quella di una privatissima e cifrata esperienza personale; il suo lamento - ed è raro - è per le sue solitarie sventure.

Forse anche per questo, per la sua impermeabilità alle crudezze della storia, è stato per secoli uno degli scrittori prediletti dalla scuola italiana: purgate le sue malizie sessuali, restava uno scrittore innocuo e garbato, delizia di puristi e di cruscanti. Al contrario, personaggi di forte sentire espressero disdegno: Settembrini lo disse un «eunuco», Baldini ne fece un cicisbeo, D'Annunzio un animale da salotto. [2] E forse sta qui anche la ragione della sostanziale indifferenza della critica attuale.

Eppure io non riesco a convincermi che uno scrittore possa scivolar via, assopito, inconsapevole, sulla superficie della storia, senza che il suo mondo di parole vada mai a scontrarsi con le terribili asperità, a precipitare nelle rovinose cadute del mondo delle cose. Mi riesce difficile ammettere che la letteratura possa essere immune - specialmente in una situazione estrema - dal portare i segni del suo tempo: i graffi, le usure almeno, di un attrito inevitabile.

Si potrebbe argomentare che anche l'assenza è un segno, il sintomo di una rimozione. Non si può nominare il diavolo perché anche la semplice evocazione verbale può precipitare nell'orrore. Forse l'elusività totale del Firenzuola è la manifestazione di una speciale vulnerabilità, che inibisce di dar voce e forma a ciò che è troppo spaventoso per poter essere detto. Forse l'apparente indifferenza del Firenzuola è una forma di estrema afasia.

Eppure questa è un'argomentazione che non finisce di convincermi. E` troppo semplice, troppo schematica.

Io preferisco credere che anche il Firenzuola abbia parlato di ciò che sgomentava tutti, ma che l'abbia fatto in modo indiretto. Che abbia evocato il gran diavolo senza mai nominarlo. Che abbia significato le sue angosce più profonde con un diverso sistema di segni, con un alfabeto segreto, con un crittogramma. Per intendere l'opera sua si deve decifrare questo alfabeto di secondo grado: decrittare non il senso fin troppo piano dei suoi scritti, bensì le involuzioni della scrittura stessa. I sintomi ambigui del malessere che segnò la vicenda storica del Firenzuola - al di là delle disavventure specifiche della sua esistenza - si devono diagnosticare non nell'ambito esplicito (ma muto) dei significati, bensì in quello implicito (ma eloquente) dei significanti. Ritengo che il malessere storico del Firenzuola si manifesti in un turbamento espressivo.

Per concretare il discorso scelgo di parlare delle opere principali del suo periodo romano: il volgarizzamento dell'Asinus aureus di Apuleio e gli incompiuti Ragionamenti.

Cominciamo con Apuleio. E` un volgarizzamento celebre: in pratica, fino a non molto tempo fa, si è letto Apuleio proprio nel volgarizzamento del Firenzuola, che è del resto la sua opera più studiata.

Io credo che il testo sia stato redatto in due fasi. Secondo me i primi sette libri appartengono al primo periodo romano (1519-1527, con un intervallo nel 1522); gli ultimi tre forse all'ultimo periodo romano (1532-1534), se non addirittura al periodo pratese (1538-1543). Manifestano comunque una maturità e una determinazione stilistica assai più spiccata di quella che si manifesta nei primi sette. Ma dal punto di vista del nostro ragionamento tutto ciò è quasi ininfluente: il passaggio dalla prima alla seconda fase non fa che accentuare linee di tendenza ben individuate già nella prima.

Anzitutto la scelta di Apuleio. Che nella Roma del terzo decennio del Cinquecento è una scelta tutt'altro che pacifica. Infatti l'ultimo umanesimo - l'umanesimo di Pietro Bembo e di Iacopo Sadoleto - aveva decretato il trionfo del ciceronianismo. Dal confronto con i ciceroniani le scelte più varie e più spregiudicate degli eclettici erano uscite sconfitte. Basti dire che il ciceronianismo ha continuato a imperare incontrastato nella scuola italiana fino ad oggi. Nello schieramento degli eclettici l'ala estrema, la più duramente contrastata, era rappresentata dagli apuleiani. La Roma dei papi medicei (Leone X e Clemente VII: 1513-1534) aveva ufficialmente riconosciuto la vittoria dei ciceroniani conferendo il cancellierato apostolico proprio al Bembo e al Sadoleto. A Roma in quegli anni tradurre Apuleio era una scelta controcorrente.

Ma si è detto che nella storia dell'Asino d'oro il Firenzuola cercava un paradigma esemplare che si prestasse a rappresentare una sua vicenda privata. La storia del romanzo latino è nota a tutti. Per un incidente magico il giovane Lucius si trasforma in asino. Solo mangiando delle rose potrà assumere di nuovo la sua forma umana. Ciò avverrà soltanto alla fine dell'opera e dopo innumerevoli peripezie, grazie alla conversione del protagonista al culto misteriosofico di Iside. Il Firenzuola adatta a sé e ai suoi tempi la magica metamorfosi: il protagonista è diventato Angelo e si aggira nelle domestiche campagne tra l'Emilia ed il Lazio, anziché nelle lande della misteriosa Tessaglia. La sua conversione perde ogni solenne implicazione religiosa e si accontenta di accorciarsi in un 'passaggio di facoltà' - si direbbe oggi - dall'«asinino studio delle leggi» a quello delle «umane lettere», per l'amoroso influsso di una donna «valorosa».

Tutto ciò è incontestabile. Ma sarebbe sproporzionato ai dati di fatto attribuire eccessiva importanza a un motivo che resta confinato in poche pagine iniziali e finali. Fra l'altro il Firenzuola sopprime l'undicesimo e ultimo libro di Apuleio, interamente occupato dai riti arcani di una rinascita spirituale. Tutto il resto del volume esorbita allegramente dal presupposto liminare e si dilata senza freni e senza ritegni nelle meravigliose e salaci avventure dell'asino-uomo. Non fu la marginale possibilità di un mito neoplatonico a sedurre il Firenzuola, bensì il mirabolante caleidoscopio di avventure e di stili di Apuleio.

E anche qui ci si deve liberare della zavorra di un inveterato luogo comune. Si è detto e ripetuto che il Firenzuola legge Apuleio attraverso una lente boccaccesca. Una lente deformante, beninteso, atta a disinnescare e ad addomesticare le meraviglie elocutive apuleiane. Non c'è niente di più falso. Concordanze alla mano, la presenza del Boccaccio è addirittura deludente nella prima fase del volgarizzamento (si rafforzerà, ma in misura ancora contenuta, negli ultimi tre libri). E` ben vero che il Firenzuola non punta a una translitterazione inerte delle veneri dello stile apuleiano e che narra e descrive secondo i suoi ritmi e le sue figure, ma è pur sempre una lezione, o almeno una sollecitazione di stile che il Firenzuola cerca in Apuleio. Ed è la lezione più anticlassica che potesse consegnargli l'antichità. E nello stesso tempo, lo ricordo ancora, la più anticiceroniana.

Trasferiamo adesso questi presupposti nell'ambito della lingua e della letteratura in volgare. La lezione di Apuleio - è ovvio - è quella che si oppone più arditamente al parallelo volgare del classicismo e del ciceronianismo latino: il bembismo, con il suo canone rigorosamente circoscritto al Petrarca poeta e al Boccaccio «oratore». «Oratore», si badi. Cioè non tutto il Boccaccio - che sicuramente aveva amato Apuleio più di Cicerone -, ma il Boccaccio più sorvegliato ed augusto. L'«oratore», appunto, che meglio si prestava alle prudenti esemplificazioni della Prose della volgar lingua.

Detto questo, bisognerà ribadire che il Firenzuola traduttore di Apuleio è un traduttore infedele, al punto che c'è chi preferisce parlare dell'Asino come di un rifacimento piuttosto che come di un volgarizzamento. E soprattutto è scrittore discontinuo, come sempre gli avviene, almeno nelle opere “romane”. Cioè reagisce in modo diverso alle diverse solleticazioni che gli giungono dal testo latino. A fasi di estrosa riscrittura e di libera reinvenzione del testo si alternano fasi di banale letteralità e persino di torpida acquiescenza. In generale il Firenzuola si spaccia alla svelta delle parti più propriamente narrative e indugia sulle componenti di più marcata espressività, con attitudine di disinvolta amplificazione. E` ben accetta l'intera gamma delle innumerevoli sfaccettature stilistiche della scrittura apuleiana: dal salace al prezioso, dal popolano al curiale, dal grave al grottesco, dall'orrido al faceto, proposte in rapida successione e spesso in perigliosa contiguità.

E` proprio questa la lezione di Apuleio meglio appresa dal Firenzuola: non solo l'anticlassicismo sostituito al classicismo, non solo la regolarità ripudiata per il capriccio, non solo il pluristilismo sottentrato all'uniformità, ma - almeno in prospettiva - la più eretica mescidazione, la mescolanza e la metamorfosi delle forme che sarà una delle conquiste più avanzate della sua maturità. Il Bembo predica la “monotonia”, una limpida coerenza di lingua e di stile: in un modello fuori del tempo, in un'idea platonica del bello scrivere, il Bembo cerca la garanzia di una metastorica sopravvivenza, la promessa di un'opera che abbia a “durare”. Al «picciolo cerchio», alla misura austera della poetica bembiana, il Firenzuola oppone un'instabile e oltranzista pluralità di modelli e un'avventurosa e spregiudicata disponibilità di esperienze. Questo è l'Asino d'oro.

Ma ancor più significativa per il nostro discorso risulta l'altra opera del periodo romano, i Ragionamenti.

Con i Ragionamenti abbiamo una data puntuale: il 25 maggio 1525, dedica della prima giornata a Maria Caterina Cybo. Ma abbiamo anche un'opera largamente imperfetta, abbandonata e probabilmente smantellata - almeno in parte - dall'autore, che ne riutilizzerà i materiali nelle operette del periodo pratese. E` nostro compito preliminare ricostruire l'intero dalla parte che ci è pervenuta: poco più di un sesto dell'unità almeno progettata, se non compiuta.

Del resto il progetto è chiaramente espresso dal Firenzuola nel proemio dell'opera. Si finge che cinque giovani fiorentini (tre uomini e due donne) più una gentildonna romana “in visita” si ritrovino in una villa suburbana di Firenze e che, a imitazione della «bella brigata» del Boccaccio, eleggano una «Reina» che dia regola ai loro onesti diletti. La Regina dei Ragionamenti è Costanza Amaretta, la gentildonna romana amata dal Firenzuola. Costei, ricordevole appunto del nobile modello boccacciano, propone un elaborato codice di comportamento:

[...] poi che noi semo sei e vogliamo star quassù sei dì, io vi voglio dividere il giorno in modo che ogni nostra opera proceda per sei. [p. 85] [3]

La proposta è accolta. Così nel corso della giornata si succedono:

  1. ragionamenti filosofici al mattino;
  2. il pranzo;
  3. la recitazione di componimenti poetici (6 al dì);
  4. la narrazione di novelle (6 al dì);
  5. la cena;
  6. certi «ragionamenti [...] piacevoli» di cui si definiranno di volta in volta le modalità (nelle prime due giornate si tratta di «risposte argute», cioè di facezie) (6 al dì).

La scelta del numero sei è giustificata dalla nuova Regina con la disponibilità di sei soli interlocutori, ma soprattutto con la venerazione da lei dovuta a un numero che per due volte ha felicemente segnato il corso fatale della sua vita: è nata il sei di dicembre ed è “rinata” per effetto d'amore il sei d'agosto. Come Laura, conosciuta dal Petrarca il sei di aprile e morta il sei di aprile: «L'ora prima era, il dì sesto d'aprile, / che già mi strinse, et or, lasso, mi sciolse [...]». [4] Nel Firenzuola anche i dati di insorgenza più privata sembrano disporsi spontaneamente nelle misure di una squisita letterarietà.

Torniamo ai Ragionamenti e alle «virtù» del numero sei, del «senario»: numero «pieno di religione» per la sua «perfezione» e per la sua «fertilità». Infatti «dicono [...] i matematici che quel numero è perfetto le parti aliquote del quale [...], accozzate insieme, rilevano detto numero» (p. 87). Cioè i 'divisori' («parti aliquote») del sei (1, 2, 3), 'sommati' («accozzate») insieme, 'danno come risultato' («rilevano») il numero stesso. Quanto alla «fertilità», l'elucubrazione che la dimostra è così complicata e tortuosa che qui si tralascia.

Siamo - è ovvio - nell'ambito di quella che i tardi pitagorici dell'antichità chiamavano arithmologia: la scienza dei numeri, quella dottrina all'incerto confine tra scienza matematica e credenza magica che a partire dall'ultimo e torbido ellenismo aveva invaso il medioevo cristiano (non senza la suggestione di tradizioni parallele come la kabbalà ebraica e il sufismo musulmano) fino a sfociare con varie colorazioni nel magismo rinascimentale. Nel caso del Firenzuola le “fonti” sembrano essere tardo-classiche: Agostino del De civitate Dei e del De musica, Macrobio dei Commentarii in Somnium Scipionis, Boezio del De institutione arithmetica.

Fra i contemporanei del Firenzuola la numerologia dilaga. Io vorrei soffermarmi soltanto sul De harmonia mundi di Francesco Zorzi (Francesco Giorgio Veneto, a norma della nominazione umanistica), pubblicato proprio nel 1525. La clavis arithmologica prescelta dall'insigne canonista e teologo veneziano è l'«ottonario». Infatti fin dai primi pitagorici il numero otto era reputato fondamento delle relazioni musicali e quindi della cosmica euritmia. Anche qui abbiamo una struttura mirabile: la materia del libro è ripartita in tre cantica; ogni canticum è diviso in otto toni; l'ultimo tonus (la città celeste) è diviso in 20 modula e 70 concentus. L'ultimo modulum è il silenzio al di sopra dell'armonia: il silenzio di Dio.

E vorrei leggere qualche riga d'interpretazione di Cesare Vasoli:

Già lo stesso aspetto esterno dell'opera è [...] continuamente dominato dalla scrupolosa osservanza di un determinato ritmo numerico e di una certa regola [...] architettonica, che è resa evidente dal continuo e spesso faticoso giuoco di analogie, immagini, o, addirittura, di meri accorgimenti formali. Così, quasi per rendere più immediatamente chiara l'idea della «harmonia universalis», di cui il pensiero dello Zorzi vuol essere uno specchio esatto e fedele, le stesse divisioni interne del grosso volume assumono nomi e definizioni di carattere musicale [...] in modo che le varie parti si accordino anche nel loro ordine esteriore e vi sia, insomma, un'esatta, necessaria corrispondenza tra la bellezza «numeralis» o «mathematica» dell'universo e l'ordine e l'architettura entro la quale deve distendersi la meditazione [...]. [5]

Può sembrare sproporzionato il confronto tra l'amena letteratura del nostro «piacevole» abate e gli ardui cogitamenti del teologo veneziano, ma non è così. La meravigliosa fabbrica del De harmonia mundi non è sostanzialmente dissimile dall'ardita architettura dei Ragionamenti, quale fu almeno concepita. La clavis arithmologica firenzuolesca rimanda, anch'essa, a una simpatetica cosmologia in cui il piccolo avvicina il grande, il microcosmo interpreta il macrocosmo, il segno della sorte individuale è specchio e chiave dell'ordine universale.

Del resto, il numero sei, il «senario», è pur sempre la misura delle sei giornate della creazione e l'Hexameron è il titolo classico del commento alla Genesi (si pensi ad Ambrogio). Dunque un'opera modulata sul sei, un profano Hexameron, sarà uno speculum mundi, o, se si preferisce, un theatrum mundi, una typocosmia.

Nelle storie letterarie il Firenzuola è inventariato - quasi senza remissione - come novelliere. In questo senso, come la sua prova più indicativa sono segnalati proprio i Ragionamenti. La definizione è crudelmente riduttiva. Anzitutto come può essere una semplice raccolta di novelle un'opera che si intitola Ragionamenti e cioè - salvo il vero - 'dialoghi'? E poi bisognerà dire almeno che i Ragionamenti sono un prosimetro, una composizione mista di prosa e di versi. E la componente poetica è tutt'altro che trascurabile. Non è trascurabile il peso delle dieci ballate del Decameron; come può essere trascurabile la poesia sei volte più espansa dei Ragionamenti? Ma soprattutto non si può in alcun modo ridurre nel ruolo mortificante di “cornice” - come abitualmente si fa - tutto quello che 'sta intorno' alle novelle. Non è qualcosa di accessorio e di insipido. I «ragionamenti filosofici» mattutini, le facezie serali, tutte le altre occasioni di discussione che di volta in volta scaturiscono dalle domestiche vicende del ménage quotidiano, le stesse poesie sono tutt'altro che marginalia da scorrere velocemente per venire al nocciolo della narrativa maggiore. Basta far caso agli argomenti: la questione della lingua, la dottrina dell'imitazione, questioni di lessicologia, di metrica, di botanica, di climatologia, di storia naturale: sono temi vivissimi - e alcuni semplicemente vitali - della cultura contemporanea.

Non c'è un vocabolo moderno che esprima appieno quello che i Ragionamenti volevano essere. Anche il termine enciclopedia, che è forse quello che più ci si avvicina - nel senso in cui si può dire un'enciclopedia la Commedia di Dante o l'Adone del Marino -, anche il termine enciclopedia, dicevo, lascia insoddisfatti. Ma in fondo è il concetto stesso di un'opera siffatta che per noi è inconcepibile. Un'opera che ha l'ambizione di rappresentare per intero una cultura, un'opera totalizzante, una summa e un exemplarium, nell'accezione di cordialità e socievolezza del sapere che ha della cultura il Firenzuola, ma anche con la sua legittima e combattiva alterezza. Certo, il salto dalle «religiose» virtù dei numeri alle virtù gastronomiche del basilico, dalle rarefazioni spirituali dell'amore «celeste» alle vicissitudini indecenti dell'amore terreno delle novelle può risultare sconcertante, ma tutto è stato previsto, tutto è al suo posto. Il microcosmo umano ha le stesse misure del macrocosmo universale: dalle sublimi altezze spirituali degli angeli alle infime bassure della materia più degradata. Lo straordinario cristallo dei Ragionamenti (uno splendido esaedro) imprigiona in sé un barlume, una scintilla, di tutti i bagliori dell'universo.

Soffermiamoci ancora sulla sua mirabile costruzione.

Il Decameron si può rappresentare (schematicamente) come una scatola che contiene dieci scatole che contengono ciascuna dieci oggetti (più uno): una “cornice” che contiene dieci giornate che contengono ciascuna dieci novelle (e una ballata). I Ragionamenti si vorrebbero rappresentare come una scatola che contiene sei scatole, ciascuna delle quali contiene sei scatole, tre delle quali contengono sei oggetti. L'incremento, anzi l'oltranza della complicazione strutturale è evidente. Ma in questo caso la figura non solo è difettiva rispetto alla complessità dell'opera, ma è sostanzialmente contraddetta dalla concretezza della scrittura.

La struttura cristallina che si intravede nitida e fulgente nel progetto dei Ragionamenti appare tutt'altro che esaltata dalla sostanza della sua concretizzazione: continuamente insidiata da un materiale magmatico, effusivo, incontrollabile, che la contamina e la sconvolge. Le nitide partizioni, le rigorose geometrie, le esatte gerarchie che quel progetto esigeva sono ripetutamente contaminate da maligne polluzioni.

Anzitutto le necessarie distinzioni fra le componenti strutturali appaiono pericolosamente confuse. Le strutture portanti e connettive (i contenitori, le scatole, la cornice) e i contenuti (i dialoghi, le novelle, le liriche, le facezie ecc.) sbandano pericolosamente gli uni verso gli altri, minacciano di scontrarsi, sovrapporsi, compenetrarsi. I contenitori si fanno più volte contenuti e i contenuti contenitori, in disprezzo della rigorosa norma numerica.

Exempli gratia, la scatola che contiene i sei oggetti-poesie è a sua volta oggetto, dando luogo alle discussioni (fuori schema) sulla lingua, sull'imitazione, sul computo sillabico della parola chiunque. Exempli gratia, nella scatola-cena della seconda giornata, che dovrebbe essere vuota (o meglio solida, non potendo contenere alcunché), si insinuano le digressioni lessicali su spigolistra e magiadero. Addirittura il contenitore globale, la “cornice”, presenta incastonature incongrue, come la digressione sulla salubrità dell'aria che si incunea fra la quarta e la quinta scatola del secondo ordine.

La struttura cristallina rischia dunque di precipitare in una struttura magmatica, informe, anzi in una negazione della struttura, in una antistruttura. Non un nitido cristallo scaturisce dalla pagina dei Ragionamenti, ma qualcosa che partecipa della natura informe del conglomerato. L'ordine superbo della razionalità subisce l'attrazione irreparabile della caotica irrazionalità.

Tutto ciò non è senza riscontri a livello ideologico. Capita spesso nei Ragionamenti che le tesi vittoriosamente sostenute dall'autore siano bruscamente e inopinatamente messe in crisi, revocate in dubbio e non più difese.

Esempi.

La Regina conclude la sua ispirata discettazione sulle virtù del «senario». Salta su un irriverente fratello del Firenzuola (che prende il nome artefatto di Folchetto) e grida:

- Deh, come ho io fatto bene a non ci menar la mia moglie, come volavate voi altre che io facesse; ché noi saremmo stati sette e alle sue cagioni averemmo perduto così fatta ventura; io sapeva ben, io, ch'ella era così strana e così ritrosa ch'ella ci arebbe guasto ogni disegno. [p. 89]

Si continua su questo tenore finché un altro fratello, Selvaggio, finisce con l'ammettere tranquillamente:

Fussinci pur venuti tramendoi [...] che e' non ci averebbeno fatto disconcio alcuno, percioché io so bene che alla nostra Reina non sarebbe mancato che dire sopra il numero di sette. [ibid.]

Ma allora un numero vale l'altro. E la sacralità del «senario»? E le fatalità numerali nella vita della Regina?

Lo stesso si può dire della dottrina platonica dell'amore, che sembra il presupposto stesso del vivere e del ragionare insieme. La Regina distingue fra due Veneri e due Amori, deprecando le turpi operazioni dell'amore terrestre ed esaltando con ispirato fervore i nobili effetti dell'amore «celeste», fonte di sereno vivere e di lieta civiltà. Scioglie con sicurezza i quesiti che le pongono alcuni e dissolve con fermezza le obiezioni che le muovono altri. A questo punto salta su il solito Folchetto che rimette tutto in gioco, come se non si fosse dimostrato nulla:

- Madonna, voi mi avete dipinto questo vostro amore con certi colori e 'n un posar così strano, che io per me non lo giudico di mano di troppo eccellente maestro [...]; e se io vi ho a dire quello che io sento di queste vostre dispute, e' mi parrebbe che le fussero molto più convenienti dentro alle clausure delle vergini monacelle e per li chiostri dei religiosi frati che tra una compagnia di bellissime donne e di giovani uomini come è la nostra, venuta a la verdura per diportarsi e non per istare in contemplazione. Tenetevi addunche cotesto amore che voi dite è nipote del Cielo, voi i quali volete anzi tempo penetrar le regioni dello avol suo, e lasciate a me quello che voi dite che è nipote della Terra, ché non mi curo andar su per la avola carponi, e bramo veder frutto delle mie fatiche alli dì miei. [p. 107]

E la Regina non ha gran che da replicare.

Quello che voglio dire è questo. Manca nei Ragionamenti un sistema di valori solidamente organizzato, capace di sostenere il programma totalizzante che li fonda; un sistema all'altezza - insomma - della perfetta geometria del cristallo sognato e mai realizzato. Ma direi di più. Sembra mancare nei Ragionamenti una qualsiasi risposta che appaghi senza incertezze e senza ripensamenti, che non lasci campo all'insidia corrosiva del dubbio. In questo senso si può parlare dei Ragionamenti - sigillati in un involucro perfetto e indefettibile - come di un'opera “aperta”, che non ha frontiere (spaziali e ideologiche) invalicabili e ammette soluzioni alternative e persino contrastanti.

Il Firenzuola, ripeto, non portò a termine i Ragionamenti. Probabilmente smantellò la seconda giornata per riutilizzarne frammenti negli opuscoli pratesi. Le spiegazioni che si sono date per giustificare l'interruzione sono plausibili: la morte della donna ispiratrice, Costanza Amaretta, nell'inverno fra il 1524 e il 1525, la malattia che colpì l'autore nel 1526. (Fra parentesi: non si tratta affatto di sifilide, come si dice per inerzia, ma di malaria).

Sarebbero, dunque, motivazioni d'ordine personale: un infortunio strettamente privato ha interrotto un lavoro in crescita. La cosa è plausibile, ripeto. Ma io credo che il fallimento dei Ragionamenti - dopo quello che si è detto - possa e debba essere letto in una prospettiva più coraggiosa, che tenga conto delle ambizioni e degli impegni che in essi si dispiegano. La crisi strutturale dei Ragionamenti è parallela (e certo interdipendente) alla crisi ideologica che (apertamente o ambiguamente) in essi traspare. Insomma io credo che la crisi dei Ragionamenti sia il sintomo, il principale degli indizi che stiamo cercando. E cioè che la crisi dei Ragionamenti sia il riflesso non solo di infortuni privati (che nessuno vuole negare) ma non meno di quel disastro collettivo che ho cercato di accennare all'inizio del discorso. Se poi si considera che sui Ragionamenti incombe l'evento più traumatico di quest'epoca così travagliata (il sacco di Roma del 1527), allora avremo riscontri inequivocabili.

Il Firenzuola non poteva portare a conclusione i Ragionamenti. In essi si esprimeva un ordine cosmico tradotto in una ritmica armonia, in una cifra di razionale dominio. Quell'ordine dava un posto ad ogni aspetto della realtà e tutto interpretava nella luce superiore di un luminoso paradigma. Ma quell'ordine non reggeva un istante all'urto spaventoso di un reale caotico, sfuggito ad ogni controllo. I Ragionamenti erano stati ideati nel clima di provvisoria e illusoria sicurezza suscitato proprio dai papi medicei, quando sembrava che il papato potesse essere la forza capace di riscattare le sorti d'Italia e coalizzare energie sufficienti a recuperare una situazione che ci si ostinava a considerare non ancora compromessa. Crollata quella tragica illusione nel disastro più orrendo, come si poteva credere ancora all'ordine (ormai pretestuoso e presuntuoso) dei Ragionamenti?

E qui potrebbe terminare il mio discorso. Ho chiuso il cerchio, sono tornato là da dove mi son mosso. Ma per me i Ragionamenti sono qualcosa di più. Tutt'altro che un capolavoro, beninteso. Ma un'opera sintomatica sì. Un'opera che si colloca all'incerto confine tra la letteratura rinascimentale e la letteratura manierista.

La categoria “manierismo letterario” pare non sia più di moda. Ha avuto fortuna una ventina d'anni fa, quando le avanguardie dei cinquecentisti la sostenevano a spada tratta. Negli ultimi anni sembra quasi scomparsa dalla circolazione. Ma essere alla moda non è obbligatorio.

E bisognerà avvertire che il “manierismo letterario” è una metafora, un prestito dalla storia dell'arte. Nell'ambito della storia dell'arte il manierismo ha solide autorizzazioni nella teoresi e nella storiografia cinquecentesca. In fondo è il Vasari il padre del manierismo. Nel campo della letteratura non c'è niente del genere: nessuno ha mai teorizzato il concetto di maniera, contrapposto a quello di natura. Tuttavia a me pare che una larga fenomenologia comune consenta di estendere il concetto dalla cultura figurativa alla cultura letteraria. Ciascuna mantiene tratti specifici, naturalmente, che sarebbe sciocco voler trasferire a forza dall'una all'altra; ma, fatte le debite distinzioni, resta pur sempre un complesso di motivi comuni che sarebbe altrettanto sciocco ignorare.

Non mi sembra neppure plausibile la sfasatura cronologica che generalmente si ammette fra il progresso delle arti figurative e il progresso delle lettere. Il manierismo figurativo sarebbe in anticipo di un ventennio su quello letterario. Quindi se si fa iniziare il primo attorno al 1520, si dovrebbe spostare il secondo a dopo il '40. Io non ci credo. Al contrario a me sembra che proprio nella Roma dei papi medicei si instauri una singolare cospirazione delle arti. Sia al tempo di Raffaello, interprete d'elezione dell'ultima cultura umanistica, quella di Pietro Bembo e di Iacopo Sadoleto, di Marco Girolamo Vida e di Iacopo Sannazaro, degli orti colocciani e dell'accademia coriciana; sia nei primi anni del papato di Clemente VII, quando convergono a Roma quasi tutti i manieristi della prima generazione: il Rosso, il Parmigianino, Sebastiano del Piombo, per non dire degli scolari di Raffaello. Qualcuno ha parlato di uno «stile clementino», come di una delle manifestazioni più precoci e raffinate del manierismo figurativo. [6] Ecco, io cerco uno «stile clementino» nelle opere romane del Firenzuola.

E non deve preoccupare l'immagine incupita e “autunnale” che del manierismo si è diffusa e che sembra inconciliabile con l'amenità e la leggiadria che connotano di preferenza l'opera firenzuolesca. L'angoscia - si è visto - covava sotto la superficie, né, d'altra parte, il manierismo è solo tragedia e poema eroico.

Così come non deve spaventare l'indisponibilità per il Firenzuola di alcuni dei supporti ideologici solitamente invocati per il manierismo: la rifeudalizzazione della società, la Controriforma, la riscoperta di Aristotele, i torbidi circuiti della censura e della rimozione. Il Firenzuola appartiene a un'altra generazione, appunto quella dei primi manieristi figurativi, neppure per i quali quei supporti ideologici sono disponibili.

Negli scritti d'arte del Cinquecento maniera si oppone a natura e caratterizza quegli artisti che non disegnano dal vero ma si ispirano a schemi astratti, a elaborazioni già altamente formalizzate. Nemmeno il Firenzuola disegna dal vero. Non riproduce la realtà e non inventa nulla. Per tutte le sue opere si possono indicare “fonti” più o meno puntuali, in ogni caso schemi letterari partecipati. La sua dimensione ideale è quella della riscrittura, del rifacimento, della traduzione. Ciò non esclude, ovviamente, che nell'opera firenzuolesca possano entrare particolari di evidente emergenza autobiografica (si è già detto a proposito dell'Asino); quello che conta è che quei particolari si compongono spontaneamente in un astratto ideale paradigma. E allora ci sembrerà abbastanza curioso l'atteggiamento di quell'editore del Firenzuola novelliere che è andato a cercare la villa di Pozzolatico in cui si sarebbero svolti i Ragionamenti ed è rimasto piuttosto contrariato a non trovarla (ma non ha cessato di sostenere l'esistenza di realistiche e anzi domestiche «linfe personalissime, intime» nell'opera del Firenzuola). [7]

Si potrebbe obbiettare che al tempo del Firenzuola vige il principio letterario dell'imitazione. Non in senso aristotelico (come avverrà qualche decennio più tardi), ma in senso ancora umanistico. E dunque una letteratura che si nutre di letteratura non avrebbe nulla di singolare né di nuovo. Ma il Firenzuola proprio nei Ragionamenti esalta - contro la bembesca imitazione - i diritti dell'«innovazione» e cioè del mutamento. Certo, anche il Firenzuola imita, anzi addirittura riscrive, e senza nessun ritegno. Ma la sua è una imitazione trasgressiva, soggetta a caratteristici processi deformanti: anzitutto l'esasperazione dell'ornato: quel gratuito, estenuante impreziosimento che culmina nella parola come massa fonica, come ritmo puro e astratto. E alla scelta privilegiata del significante si deve connettere l'usuale atteggiamento amplificatorio, la forzatura dei moduli, l'esaltazione delle componenti squisite, patetiche, spettacolari. Si aggiunga il gusto della giustapposizione e della contaminazione di codici diversi, che testimonia l'incrinatura del principio razionalistico della convenientia, cardine della retorica classica, e si pone sulla linea dell'aperta mescidazione che connoterà la “maniera” della maturità. E non manca l'episodio bizzarro, l'invenzione grottesca, il capriccio, il concettismo: sintomi formali della nevrosi manierista, ormai prossimi a sbocciare nel loro pieno fulgore.

La riscrittura estrosa del Firenzuola è simile alla riscrittura deformante dei manieristi della prima generazione: la loro cerebralità capziosa, squisita, stranita è anche la sua. E qui torna bene la scelta anticlassica di Apuleio (della sua grammatica bizzarra e stravagante), tema esemplare di alcuni cicli grandiosi della prima pittura manierista, dalle logge della Farnesina ai saloni del Palazzo Te. Torna anche il formalismo esasperato che connota la struttura dei Ragionamenti e la sua intima crisi di autonegazione.

Si è parlato del Firenzuola come di un «alessandrino», come di un «decadente». [8] Le definizioni non sono senza suggestione, ma risultano pur sempre allusive e dunque approssimative. Ciò che Toffanin e Seroni leggevano a livello formale e interpretavano a livello psicologico (al livello di una psicologia strettamente privata) può trovare una definizione specifica e calzante, una spiegazione che coinvolge un sistema letterario.

Resta il senso di un'esperienza personale che - proprio per il suo modo di tradursi in letteratura - in gran parte ci sfugge. Ma a noi non compete evocare i morti. E` già molto se ci approssimiamo a leggere senza troppi equivoci la loro viva scrittura.



[25 settembre 1995]



NOTE



* E` il testo riveduto, ampliato, annotato del mio intervento alle celebrazioni per il cinquecentenario della nascita di Agnolo Firenzuola, che si sono tenute nel teatro del Convitto Cicognini a Prato il 25 settembre 1993.


[1] Per tutti i dati che qui non sono confortati da pezze d'appoggio rimando a D. ROMEI, La “maniera” romana di Agnolo Firenzuola (dicembre 1524-maggio 1525), Firenze, Edizioni Centro 2 P, 1983.


[2] L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano, 1870, vol. II, p. 133; A. BALDINI, Agnolo Firenzuola, in Le più belle pagine di A. F. scelte da A. B., Milano, Treves («Le più belle pagine degli scrittori italiani scelte da scrittori viventi», 25), s.d., pp. I-XII (pass.); G. D'ANNUNZIO, Laudi, II, Elettra, Le città del silenzio, Prato, X, in Versi d'amore e di gloria, vol. II, Milano, Mondadori («I classici contemporanei italiani»), 1964, p. 512.


[3] Le citazioni sono tratte da Opere di A. F., a c. di D. MAESTRI, Torino, U.T.E.T. («Classici italiani»), 1977. D'ora in poi mi limiterò a riportare la pagina nel testo. Devo onestamente avvertire che la pessima opinione che espressi tempo fa su questa edizione non è affatto cambiata.


[4] F. PETRARCA, Triumphus Mortis, I 133-134, in Triumphi, a c. di M. ARIANI, Milano, Mursia («G.U.M.», n.s., 95), 1988, p. 246.


[5] Testi umanistici sull'ermetismo, a c. di E. GARIN, M. BRINI, C. VASOLI, P. ZAMBELLI, Roma, Bocca, 1955, p. 85.


[6] A. CHASTEL, Il sacco di Roma 1527, Torino, Einaudi («Saggi», 659), 1983, in part. il cap. V, Lo stile clementino, pp. 136-167. Il volume, tuttavia, è nel complesso detestabile.


[7] E. RAGNI, Introduzione ad A. F., Le novelle, Milano, Giovanni Salerno Editore («I novellieri italiani»), 1971, p. XIII.


[8] Cfr. G. TOFFANIN, Il Cinquecento, Milano, Vallardi («Storia letteraria d'Italia»), 1935, pp. 225-233; A. SERONI, Introduzione ad A. F., Opere, Firenze, Sansoni («I classici italiani»), 1958, pp. XI-XLVII (poi, con il titolo Il Firenzuola, in AA.VV., Studi fiorentini, Firenze, Sansoni, 1963, pp. 211-233).