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datario di Clemente VII e vescovo di Verona (Palermo, 20 settembre 1495 - Verona, 30 dicembre 1543) |
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TESTI
STUDI ROMEI Codice Marciano Il 9 gennaio 1529 papa Clemente VII fu colto da un violento attacco, che lo portò a rischiare la vita e lo costrinse a letto per circa tre mesi. Pochi giorni dopo l'attacco in alcune città italiane, fra cui Venezia, si sparse la voce che il papa era morto. Pietro Aretino colse al volo l'occasione "per vibrare una velenosa e trionfante stilettata al Giberti – che perdeva il suo più alto e temibile protettore –, con un sonetto che, oltre a soddisfare personalissimi rancori, rinnovava le insolenze di Pasquino contro i cardinali tutti, indegni pretendenti al soglio di Pietro" (p. 138). Il componimento è il seguente: Fa noto et manifesto a tutta genteCome si può notare fin dal secondo verso il bersaglio principale del sonetto è Giovan Matteo Giberti, vescovo di Verona e nemico dell'Aretino. Il Giberti, durante il sacco di Roma, era stato consegnato come ostaggio agli imperiali a garanzia degli accordi stipulati col papa. Sfuggito alla prigionia e sconvolto dall'accaduto, decise di lasciare la corte romana per trasferirsi nella sua diocesi veronese. Saputo della grave malattia del papa, partì da Verona per assisterlo, giungendo a Roma il 23 febbraio. I motivi che lo spinsero alla partenza furono principalmente due: l'affetto e la gratitudine che provava per Clemente e la speranza di convincerlo a desistere da un'alleanza con l'imperatore. Delusa tale speranza, il Giberti ripartì definitivamente per Verona il 26 aprile. Il rapporto fra l'Aretino e il vescovo veronese fu caratterizzato da una serie di violente rotture seguite da subdoli tentativi di riconciliazione da parte del primo. Anche la diffusione del citato sonetto fu seguita da uno di questi tentativi, tutti motivati, nonostante le clamorose professioni di pentimento e di affezione, da spregiudicato opportunismo. Nel febbraio del 1530, infatti, il Giberti si trovò di passaggio a Venezia; ne approfittò subito l'Aretino per avvicinarlo e circuirlo, riferendo l'esito in una lettera al marchese Federico Gonzaga, usato come tramite. Il fine utilitaristico dell'Aretino si può identificare facilmente nell'opportunità di una "completa riabilitazione alla corte papale, che proprio nel '30 [...] [l'Aretino] fortemente perseguiva e in rapporto alla quale la riconquistata benevolenza del Giberti poteva giocare un ruolo decisivo per il forte ascendente [...] che egli conservava sul pontefice; a tal fine risultava proficua l'intercessione del marchese, puntualmente sollecitata e prontamente concessa" (p. 139). Ma, morto il papa nel 1534, tutto questo non ebbe più alcun valore e, puntualmente, uscì dalle mani dell'Aretino una nuova violenta invettiva contro il Giberti. Al v. 8 viene nominato Giovan Battista Sanga. Colto umanista, il Sanga fu segretario del cardinale Dovizi prima, poi del Giberti ed infine del papa. Non poteva certo mancare, in un sonetto contro il Giberti, il nome del Berni, del quale "è ben noto il [...] sonetto Tu ne dirai e farai tante e tante (Rime XXXII), archetipo della libellistica antiaretiniana e sdegnata risposta alle ingiurie infamanti" (p. 140) che l'Aretino aveva rovesciato sul gruppo gibertino nella frottola Pax vobis, brigata. L'Aretino lo "ripagherà deridendo nelle Lettere la futilità della poesia bernesca [...] e interferendo nella pubblicazione postuma" (p. 140) del rifacimento dell'Orlando innamorato. Leggendo il testo sembrerebbe che il Berni si trovasse a Roma al momento della composizione del sonetto Fa noto et manifesto a tutta gente; in realtà si trovava a Verona: partirà per la città papale il 23 febbraio con il Giberti e per l'occasione comporrà tre sonetti sulla malattia e la guarigione del pontefice (Rime XXXVIII, XXXIX, XL). Al v. 20 è interessante la menzione del vescovo di Chieti ("ser Chieti"), Giovan Pietro Carafa, fondatore dell'ordine dei Teatini e divenuto papa nel 1555 col nome di Paolo IV; "propugnò una riforma della Chiesa in senso autoritario, repressivo, rigorista [...]; è superfluo dire che per i 'chietini' e il 'chietinismo', interpretato come manifestazione di mera ipocrisia, l'Aretino ebbe sempre una viscerale avversione, che espresse a più riprese [...] in molte delle sue opere (associando spesso i nomi dei vescovi di Verona e di Chieti, che furono effettivamente amici, pur impersonando tendenze non in tutto assimilabili)" (pp. 138-141) ROMEI Introduzione Con l'elezione del nuovo papa Clemente
VII il Berni iniziò a lavorare nella segreteria del potente datario
Giovan Matteo Giberti, personaggio molto diverso dal faceto cardinale Dovizi.
L'ambiente gibertino era regolato da severe norme formali e disciplinari,
saturo di proibizioni e rigori, contro i quali il Berni manifesterà
la sua avversione. Ma certamente la lunga convivenza con il Giberti non
può essere ridotta semplicemente a questo aspetto; infatti comportò
elementi ben più profondi che andranno ad influenzare e modificare
la produzione letteraria dell'autore, la quale in questi anni assumerà
aspetti sempre più contraddittori (p. 9).
In seguito agli eventi del 1527 il Giberti decise di abbandonare, insieme ai suoi progetti politici, la corte romana, per trasferirsi nella sua diocesi di Verona, impegnandosi tutto nella sua attività pastorale e nella realizzazione dei sui progetti religiosi (abbandonò l'ambizione di una riforma "in capite" per l'ipotesi di una riforma "in membris", che partisse dalla periferia implicando prima di tutto l'obbligo di residenza per i vescovi), i quali sarebbero divenuti modello della Controriforma (p. 12). Nella sua città organizzò un cenacolo di intellettuali "impegnati in un umanesimo cristiano che sanciva [...] l'indissolubilità di 'litterae et boni mores' e l'assoggettamento della letteratura al fine superiore dell'apostolato" (p. 13) Il Berni seguì il vescovo nel suo trasferimento, scrivendo il 10 ottobre 1528 a Maria Caterina Cybo: lasciate "'ch'io vinca un poco questa mia poltroneria, con la quale ho combattuto tanti anni e sempre ho perso, come faceva colui con la cena, la vostra eccellenzia conoscerà ch'io sono un uomo da bene, idest ho voglia di essere un uomo da bene; e che sia vero, son tornato a Verona per stare appresso ad un uomo da bene e provare se li essempli suoi mi possono far qualche giovamento'" (p. 13) Nel rifacimento "gli interventi di maggior peso, se si eccettua l'inserzione di gruppi di ottave come le note 'autobiografiche' (III vii 36-57), consistono nella serie indefessa dei proemi (69, si ricordi, benché non tutti di eguale importanza) che, a imitazione del Furioso, il Berni premise ai canti del poema, con una propensione moralistica e didascalica, talvolta devozionale e davvero 'chietina', che risulta abbastanza singolare e sconcertante. L'Orlando 'moralizzato' dal Berni (e spesso castigato nelle sue intemperanze), ingabbiato in una rigida armatura edificante che stride con la libera ed estrosa materia narrativa del Boiardo, non è, quale ci è giunto, troppo difforme dagli intendimenti del pio umanesimo veronese, santamente ispirato dal Giberti. Ed è, invece, il rovescio della poesia empia e negativa delle Rime [...]" (p. 14) Nel 1531 il Berni si avviava alla
fine della sua permanenza a Verona. "L'insofferenza, sempre più
acuta, per la 'suggezione in che stava in Verona'
(XLV), che si appaiava allo scontento del vescovo per l'indocile segretario
('pur fo, pur scrivo anch'io / e m'affatico assai
e sudo e stento, / ancorch'io sappi ch'io non vi contento', protestava
in XLIV 6-8), faceva sì che il Berni meditasse la defezione e si
attentasse a praticarla nel 1531, trasferendosi per qualche tempo a Padova
e inaugurando con il capitolo
Alli signori abbati [...] un'epoca
nuova della sua poesia.
Il 1532 vede la separazione definitiva
dal Giberti. Nello stesso anno "il Berni passò al servizio del cardinale
Ippolito de' Medici, giovane esuberante e scapestrato, incline alle giostre
amorose e militari piuttosto che ai severi impegni dello spirito [...]:
quasi un ritorno all'antico, alle costumanze spregiudicate della 'famiglia'
dei Bibbiena. E tuttavia [...] il Berni mantenne rapporti abbastanza stretti
con il Giberti (che non esitava a servirsi di lui per i suoi maneggi),
tributandogli accese attestazioni di stima, tanto più significative
perché in epoca non sospetta" (p. 17)
ROMEI Nota Nel 1528 Verona fu minacciata da un esercito imperiale costringendo il Giberti e il suo seguito a fuggire a Venezia (p. 19) Nel 1529 (febbraio-marzo) Il Berni
seguì il Giberti a Roma per una grave malattia del papa. Verso la
fine dell'anno lo seguì a Bologna per l'incoronazione dell'imperatore
(p. 19)
ROMEI Orlando "Il Giberti (che a Verona costituì
un cenacolo di un rigoroso umanesimo evangelico e che disprezzava la frivolezza
letteraria) potrebbe aver 'suggerito' al suo segretario di trasformare
un testo di grande successo come l'Orlando innamorato [...] nel
veicolo di quella testimonianza e di quella catechesi che erano il dovere
dell'illu-mi-nato, dello spirituale, dell'uomo rigenerato da un'esigente
esperienza religiosa" (p. 18)
ROMEI Pas vobis, brigate L'Aretino compose, in occasione del sacco di Roma, una frottola divulgata con il titolo Frottola di maestro Pasquino, nella quale in bocca alla maschera emblematica della maldicenza troviamo "una cronaca grottesca che evade ed irride il decoro dei tragici accadimenti" del 1527 (p. 435). In essa non potevano mancare, trovandosi coinvolti direttamente nel sacco, il Berni e il suo padrone Giberti, quali soggetti eccellenti di una giubilante vendetta. Ai vv. 403-420 si legge: Non fanno più·lle sposeIn questi versi prorompe il tripudio vendicativo per gli avvenimenti romani, interpretati come giusta punizione divina. Brucia ancora il ferimento che l'autore subì per mano di un servitore di Giovan Matteo Giberti, dall'Aretino identificato sempre come il mandante dell'attentato. Proprio a questi versi (precisamente ai vv. 409-410) risponderà il Berni nel suo sonetto Contra Pietro Aretino, "quando, svergognate le sorelle che Pietro avrebbe 'nel bordel d'Arezzo a grand'onore', aggiunge: 'Di quelle, traditore, / dovevi far le frottole e novelle, / e non del Sanga, che non ha sorelle' (vv. 27-29)" (p. 466) VIRGILI Il trasferimento a Verona, a seguito del Giberti, portò una svolta nella produzione letteraria del Berni. Prima di tutto "non ci occorreranno più [...] quelle sue baie [...]: alle sue bizzarrie si mescola d'ora innanzi [...] qualche cosa di serio" e dei suoi nuovi proponimenti si ha una chiara prova nella lettera a Caterina Cybo del 10 ottobre 1528 (p. 212) A Verona il Giberti "fece della sua casa un monastero, e un monastero dell'osservanza più rigida": preghiere ad ore determinate durante la giornata, meditazioni, salmi penitenziali, obbligo della tunica per i preti, fuga dall'ozio e ricerca della solitudine. Come potesse il Berni adattarsi a questa vita non è difficile a comprendersi: da una parte sentiva forte il suo dovere chiamarlo in quella casa, dall'altra parte la sua natura e il suo temperamento ripugnavano ad essa. "E il buon Giberti vedeva la fiera battaglia che si combatteva in quell'anima" sperando che alla fine riuscisse vincitore il dovere (p. 213).
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