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STUDI ROMEI Berni e berneschi Mattio Franzesi fu un bernesco pieno di talento e molto fertile, anche se poco riconosciuto, e membro dell'Accademia dei Vignaiuoli, nonché della posteriore Accademia della Virtù (pp. 56-57) Analizzando la cronologia delle opere degli eredi del Berni ci
rendiamo conto che la nascita del bernismo è circoscrivibile ad
una precisa fascia di anni e legata a due luoghi in particolare: essenzialmente
Roma, trovando un punto saldo nell'Accademia dei Vignaiuoli, ma anche Firenze.
La maggiore attività dei primi berneschi, non a caso, emerge verso
il 1532 e prosegue certamente per qualche anno oltre il 1535.
Nella diffusione del bernismo la "poesia dell'Accademia
sembra aver funzionato da filtro tra modello e utenti successivi, divulgandone
una propria angolazione di lettura e proprie scelte operative, determinanti
nella codificazione del 'genere' letterario" (p. 67). Questa operazione
ha inevitabilmente comportato la riduzione o l'eliminazione di certi aspetti
e il mantenimento e la promozione di altri. La scelta privilegiò
gli elementi più innovativi dello stile bernesco, rappresentati
in primo luogo dalla metrica e precisamente dall'utilizzo del capitolo
ternario; soltanto qualche autore fiorentino, più legato alle proprie
radici cittadine, ha continuato a privilegiare forme di stampo burchiellesco.
"L'affievolimento dello spirito combattivo e l'elusione dell'attualità sono compensati [...] da un massiccio recupero umanistico", già presente nel Berni e di fatto maggiorato dai suoi eredi (p. 72). Su questa linea Romei giunge a tracciare un profilo del bernismo romano, il quale risulta caratterizzato fondamentalmente come un fenomeno collettivo e quindi inserito in una precisa dinamica sociale. La rinuncia ad un impegno reale, la presenza di un prevedibile classicismo di fondo, l'assoluta leggerezza ed inconsistenza dei contenuti sono la garanzia dell'"immobilità dell'ordine costituito". A questo punto, allora, "lo sberleffo innocuo", prodotto da questo gruppo chiuso di colti intellettuali, potrebbe acquistare una valenza liberatoria collettiva, scaturita da una vera e propria necessità storica. Può far pensare a una crisi dell'identità intellettuale, ad una sorta di alienazione, di smarrimento, che trova sfogo nella frivolezza. Ma la poesia dei "Vignaiuoli" non è solo questo. Anzitutto si tratta della letteratura di un "dopoguerra" (il terribile sacco di Roma, infatti, era avvenuto soltanto pochi anni prima), che del prossimo passato porta ancora le ferite insanabili. In secondo luogo, forse, dello svago consolatorio questa poesia rivela soltanto la pulsione, mentre è incapace di fatto di una vera e propria evasione liberatoria. Il classico tema dell'"età dell'oro", per esempio, riesumato frequentemente dal Berni e dai suoi seguaci, con il suo desiderio malcelato di fuga in un mondo di sogno, non riesce a sottrarsi al confronto con una realtà irridente: quella squallida di un presente impietoso. Il tema favoloso dell'amore risulta incrinato dal 'mal francese'; l'innocenza della natura è costantemente minacciata dalla peste o dalla carestia. Di fronte a questa crudele consapevolezza l'illusione letteraria muore irrevocabilmente, trasformando la burla e il paradosso nel sintomo angosciante di un acuto malessere (pp. 74-77). Ciò che il bernismo produce è una "poesia
negativa", proprio per la sua natura di "opposizione a qualcosa": al petrarchismo
spirituale, al classicismo umanistico, ad un impegno intellettuale che
sarebbe, forse, capace di sciogliere le contraddizioni di queste anime
perse, le quali nella loro negatività, appunto, non riescono (e
ne sono pienamente consapevoli) a proporre alternative all'esistente.
Significativo è, non a caso, il fatto che questa poesia "incroci
la preistoria della contestazione ereticale" (p. 80) e che lo stesso Berni
offra spunto ad interpretazioni che lo raffigurano "protestante", aspetto
questo che non riguarda, fra l'altro, solo il nostro autore ma che comprende
anche altri berneschi.
VIRGILI Fra tutti i successori ed imitatori dello stile bernesco uno soltanto forse gli si avvicina: il Mauro, che per ingegno, arte e stile è forse il più prossimo a lui. Ma i "Berneschi veri non sono in Italia: non sono [...] Berneschi veri quella turba molesta che si attaccarono al Berni, e nulla ebbero della sua urbanità, della sua gentilezza, dell'ira sua, del suo stomaco, di tante e tante altre doti, il cui complesso è assai difficile trovar congiunto in una stessa persona, anche in quel paese che di siffatti scrittori abbonda forse meglio di ogni altro, cioè l'Inghilterra. L''umorismo' inglese, in tutti i suoi vari gradi e aspetti, da quello placido e sereno, ma argutamente maligno, di Sterne, a quello torbido e tenebroso di Swift, l'umorismo inglese parrà avere in sé assai più di vero bernesco che non sia in tutti questi inettissimi imitatori italiani del Berni. Il quale [...] in Italia [...] parve poco men che un buffone. Ma qual prova migliore della serietà [...] che, insieme con molto faceto, è nell'arte e nell'ingegno e nello stile di lui, come il trovarne tracce involontarie e spontanee presso il popolo più serio dell'Europa moderna?" (pp. 512-513) Un altro bernesco italiano può essere riconosciuto
nel Lasca. La sua arte, la sua lingua, che anch'esso "ebbe pronta ed intera,
e [...] la festività e giovialità dell'ingegno, che in lui
però di rado ridonda e trabocca", somigliano, nonostante le differenze,
a quelle del Berni (p. 517)
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