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STUDI ROMEI Introduzione Il datario (e vescovo do Verona) coltivava "progetti grandiosi e lungimiranti" sia in campo politico che religioso. Ed è a quest'ultimo che, paradossalmente, si dovrà prestare maggiore attenzione proprio "per quel pudore dei buoni sentimenti che il Berni ebbe sempre, a fronte dell'ostentata impudicizia della sua maschera comica" (p. 10) È indubbiamente rintracciabile nelle opere bernesche di questi anni "l'impronta di colui che, nella sua diocesi di Verona, ammetterà soltanto un severo umanesimo cristiano, applicato alla catechesi e all'interpretazione dei sacri testi" (p. 11) Nel 1532 il Berni lasciò definitivamente il Giberti
passando al servizio del cardinale Ippolito De' Medici. "Il servizio con
quel 'virtüoso putto' del cardinale, gratificato di pochi e scialbi
versi di lode [...], doveva essere tutto fuor che gravoso [...]" (p. 17).
Questo terzo periodo romano, infatti, fu caratterizzato da una prestigiosa
accoglienza e da un servizio sempre meno impegnativo. "Ma neppure i riconoscimenti
e le agiatezze romane, dopo le astinenze veronesi, dovevano assopire [la
sua] profonda inquietudine [...]. Approfittando di un viaggio del padrone
in Francia [...] il Berni si ferma a Firenze e rifiuta di proseguire. [...]
Egli conquista finalmente la libertà con un pericoloso atto di disubbidienza".
Ma diversamente dalla libertà del nemico Aretino, "il Berni, più
appartato, modesto, sfuggente fuori del metro consueto della cordialità
amichevole, del commercio privato e geloso dei buoni sentimenti, subito
la perderà con la morte" (p. 17)
VIRGILI Negli anni del primo e secondo periodo romano il Berni compose numerosi capitoli e sonetti di genere satirico e paradossale (si pensi alle "pesche", ai "cardi", alla "gelatina", ai "ghiozzi", alle "anguille" e all'"orinale") riscuotendo un enorme favore e assicurandosi una folta schiera di imitatori. Ma sembra che il Berni non fosse affatto entusiasta di questa sua produzione. Probabilmente "vide tutto quello che in [essa] era di passeggero, caduco e non durabile: [per questo] voleva [...] lasciarne meno traccia [possibile]; voleva recitarle da sé, non darle a leggere altrui; affidarle all'orecchio, sempre più benigno giudice e men tenace che l'occhio, vederle insomma disperdersi in quegli echi di sonore risate, che a sentirgliele recitare scoppiavano [...]" (p. 65) Molti signori e padroni, soprattutto, avevano una gran voglia di possedere queste "bizzarrie" e gliene facevano gran richiesta. Il Berni, dal canto suo, cercava con vari pretesti di non accontentarli e quando non poteva si raccomandava a questi perché li tenessero segreti e non li facessero girare per molte mani. Preferiva recitarli a memoria evitando perfino di tenerne una copia scritta e tanto meno stampata, come si legge anche nelle stanze autobiografiche ("[...] capitoli a mente / D'orinali e d'anguille recitava" [LXVII 41]). Non c'era astuzia in questo suo atteggiamento ma, forse, solo coscienza di ciò che in essi era di superficiale e un "rispetto al pudore, troppo spesso e troppo crudamente offeso, in quei versi" (pp. 120-121) L'elemento più caratteristico sta nel "non trovare
in tutto il lungo Poema un tratto, aggiunto o rifatto, che veramente offenda
la decenza o il pudore". È istruttivo il fatto che il Berni simili
scrupoli non li abbia mai avuti per le rime giocose (che non avrebbe mai
voluto vedere stampate), mentre li abbia avuti per questo poema (l'unico
che avrebbe voluto dare alla stampa). Tutto questo è di non poca
importanza per entrare nell'animo dell'autore e per capire le sue intenzioni
segrete "d'uomo e d'artista" (pp. 331)
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