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DOCUMENTI
STUDI LONGHI L'Accademia dei Vignaiuoli sorse a Roma divenendo, fin dai primi anni '30 del '500, "un centro di incontro e di verifica, un banco di prova per la poesia burlesca. Il Berni vi [rientrò] di giusta misura; ne [furono] membri il Mauro, il Bini, il Firenzuola, il Casa, il Molza, insomma tutti i 'burleschi' della prima ora". L'illustre Umberto Strozzi fu il promotore delle riunioni che dell'Accademia si svolgevano in quegli anni (pp. 43-44) ROMEI Berni e berneschi L'epistolario bernesco comprende tre lettere nelle quali viene nominata l'accademia romana dei "Vignaiuoli" e vengono citati alcuni suoi componenti. Le lettere in questione sono indirizzate rispettivamente a Giovan Francesco Bini, in data 27 dicembre 1533 e 12 aprile 1534, e a Carlo Gualteruzzi da Fano, in data 7 maggio 1535, nella quale il Berni chiede (a pochi giorni dalla sua morte) di essere raccomandato al Molza, al Della Casa, nonché all'intera Accademia (p. 51) Dai documenti attendibili a nostra disposizione risulterebbe che il nome dei "Vignaiuoli" non sia propriamente legittimo; tuttavia, poiché ormai è entrato nell'uso, si può conservare come "un'etichetta di comodo, convenzionale ed inesatta" (p. 55). La data di fondazione dell'Accademia – nata forse da un'ormai disgregata Accademia Romana - potrebbe risalire al 1532; la sua attività, che sembra durare fino al 1537 (nonostante l'assenza di documenti certi posteriori al 1535, non fu regolata da nessun tipo di statuto, ma caratterizzata da una sorta di libera aggregazione di persone, con comuni ideologie ed intenti letterari. Per quanto riguarda i rapporti del nostro autore con essa è possibile affermare che furono saltuari e sporadici, poiché il Berni fu a Roma solo nel 1533 (per pochi mesi) e di passaggio nel 1534; "il suo epistolario, del resto, rivela un'evidente familiarità con il gruppo di quei letterati, ma anche una distanza che non è soltanto fisica" (p. 55). La rosa dei membri sicuri dell'Accademia comprende il Molza, il Gualteruzzi, il Caro, Gandolfo Porrino, Trifone Benci, Mattio Franzesi, il Mauro (p. 56); ricordiamo inoltre quali altri frequentatori il Della Casa, il Bini, Agnolo Firenzuola (p. 58). Analizzando la cronologia delle opere degli eredi del Berni
ci rendiamo conto che la nascita del bernismo è circoscrivibile
ad una precisa fascia di anni e legata a due luoghi in particolare: essenzialmente
Roma, trovando un punto saldo nell'Accademia dei Vignaiuoli, ma anche Firenze.
La maggiore attività dei primi berneschi, non a caso, si emerge
verso il 1532 e prosegue certamente per qualche anno oltre il 1535.
Nella diffusione del bernismo la "poesia dell'Accademia
sembra aver funzionato da filtro tra modello e utenti successivi, divulgandone
una propria angolazione di lettura e proprie scelte operative, determinanti
nella codificazione del 'genere' letterario" (p. 67). Questa operazione
ha inevitabilmente comportato la riduzione o l'eliminazione di certi aspetti
e il mantenimento e la promozione di altri. La scelta privilegiò
gli elementi più innovativi dello stile bernesco, rappresentati
in primo luogo dalla metrica e precisamente dall'utilizzo del capitolo
ternario; soltanto qualche autore fiorentino, più legato alle proprie
radici cittadine, ha continuato a privilegiare forme di stampo burchiellesco.
"L'affievolimento dello spirito combattivo e l'elusione dell'attualità sono compensati [...] da un massiccio recupero umanistico", già presente nel Berni e di fatto maggiorato dai suoi eredi (p. 72). Su questa linea Romei giunge a tracciare un profilo del bernismo romano, il quale risulta caratterizzato fondamentalmente come un fenomeno collettivo e quindi inserito in una precisa dinamica sociale. La rinuncia ad un impegno reale, la presenza di un prevedibile classicismo di fondo, l'assoluta leggerezza ed inconsistenza dei contenuti sono la garanzia dell'"immobilità dell'ordine costituito". A questo punto, allora, "lo sberleffo innocuo", prodotto da questo gruppo chiuso di colti intellettuali, potrebbe acquistare una valenza liberatoria collettiva, scaturita da una vera e propria necessità storica. Può far pensare a una crisi dell'identità intellettuale, ad una sorta di alienazione, di smarrimento, che trova sfogo nella frivolezza. Ma la poesia dei "Vignaiuoli" non è solo questo. Anzitutto si tratta della letteratura di un "dopoguerra" (il terribile sacco di Roma, infatti, era avvenuto soltanto pochi anni prima), che del prossimo passato porta ancora le ferite insanabili. In secondo luogo, forse, dello svago consolatorio questa poesia rivela soltanto la pulsione, mentre è incapace di fatto di una vera e propria evasione liberatoria. Il classico tema dell'"età dell'oro", per esempio, riesumato frequentemente dal Berni e dai suoi seguaci, con il suo desiderio malcelato di fuga in un mondo di sogno, non riesce a sottrarsi al confronto con una realtà irridente: quella squallida di un presente impietoso. Il tema favoloso dell'amore risulta incrinato dal 'mal francese'; l'innocenza della natura è costantemente minacciata dalla peste o dalla carestia. Di fronte a questa crudele consapevolezza l'illusione letteraria muore irrevocabilmente, trasformando la burla e il paradosso nel sintomo angosciante di un acuto malessere (pp. 74-77). Ciò che il bernismo produce è una "poesia
negativa", proprio per la sua natura di "opposizione a qualcosa": al petrarchismo
spirituale, al classicismo umanistico, ad un impegno intellettuale che
sarebbe, forse, capace di sciogliere le contraddizioni di queste anime
perse, le quali nella loro negatività, appunto, non riescono (e
ne sono pienamente consapevoli) a proporre alternative all'esistente. Significativo
è, non a caso, il fatto che questa poesia "incroci la preistoria
della contestazione ereticale" (p. 80) e che lo stesso Berni offra spunto
ad interpretazioni che lo raffigurano "protestante", aspetto questo che
non riguarda, fra l'altro, solo il nostro autore ma che comprende anche
altri berneschi.
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