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Canto dodicesimo


Gugl. Tir. Hist. 8.14:
1
Era la notte, e non prendean ristoro
co 'l sonno ancor le faticose genti:
ma qui vegghiando nel fabril lavoro
stavano i Franchi a la custodia intenti,
e là i pagani le difese loro
gian rinforzando tremule e cadenti
e reintegrando le già rotte mura,
e de' feriti era comun la cura.
  2
Curate al fin le piaghe, e già fornita
de l'opere notturne era qualcuna;
e rallentando l'altre, al sonno invita
l'ombra omai fatta più tacita e bruna.
Pur non accheta la guerriera ardita
l'alma d'onor famelica e digiuna,
e sollecita l'opre ove altri cessa.
Va seco Argante, e dice ella a se stessa:
  3
« Ben oggi il re de' Turchi e 'l buon Argante
fèr meraviglie inusitate e strane,
ché soli uscìr fra tante schiere e tante
e vi spezzàr le machine cristiane.
Io (questo è il sommo pregio onde mi vante)
d'alto rinchiusa oprai l'arme lontane,
sagittaria, no 'l nego, assai felice.
Dunque sol tanto a donna e più non lice?
Hom. Il. 21.620-624:
[...] Gli è ver che fra le donne
ti fe' Giove un lïone, e qual ti piaccia
ti concesse ferir. Ma per le selve
meglio ti fia dar morte a capri e cervi,
che pugnar co' più forti.
4
Quanto me' fòra in monte od in foresta
a le fère aventar dardi e quadrella,
ch'ove il maschio valor si manifesta
mostrarmi qui tra cavalier donzella!

Ché non riprendo la feminea vesta,
s'io ne son degna e non mi chiudo in cella? »
Così parla tra sé; pensa e risolve
al fin gran cose ed al guerrier si volve:


Hom. Il. 10.281-324

Verg. Aen. 9.176-261:

Ar. Fur. 18.165-171:
5
- Buona pezza è, signor, che in sé raggira
un non so che d'insolito e d'audace
la mia mente inquieta: o Dio l'inspira,
o l'uom del suo voler suo Dio si face.
Fuor del vallo nemico accesi mira
i lumi; io là n'andrò con ferro e face
e la torre arderò: vogl'io che questo
effetto segua, il Ciel poi curi il resto.
Verg. Aen. 9.210-211:
sed si quis (quae multa vides discrimine tali) / si quis in adversum rapiat casusve deusve

Verg. Aen. 9.283-290:
te super omnia dona / unum oro: genitrix Priami de gente vetusta / est mihi, quam miseram tenuit non ilia tellus / [...] / at tu, oro, solare inopem et succurre relictae
6
Ma s'egli averrà pur che mia ventura
nel mio ritorno mi rinchiuda il passo
,
d'uom che 'n amor m'è padre a te la cura
e de le care mie donzelle io lasso.
Tu ne l'Egitto rimandar procura
le donne sconsolate e 'l vecchio lasso.
Fallo per Dio, signor, ché di pietate
ben è degno quel sesso e quella etate. -
Ar. Fur. 18.170.1:
Stupisce Cloridan

Verg. Aen. 9.197-200:
7
Stupisce Argante, e ripercosso il petto
da stimoli di gloria acuti sente.
- Tu là n'andrai, - rispose - e me negletto
qui lascierai tra la vulgare gente?
E da secura parte avrò diletto
mirar il fumo e la favilla ardente?
No, no; se fui ne l'arme a te consorte,
esser vo' ne la gloria e ne la morte.
Verg. Aen. 9.205-206:
est hic, est animus lucis contemptor et istum / qui vita bene credat emi, quo tendis, honorem


Verg. Aen. 12.40-42:
quid consanguinei Rutuli, quid cetera dicet / Italia, ad mortem si te (fors dicta refutet!) / prodiderim, natam et conubia nostra petentem?
8
Ho core anch'io che morte sprezza e crede
che ben si cambi con l'onor la vita
. -
- Ben ne fésti - diss'ella - eterna fede
con quella tua sì generosa uscita.
Pure io femina sono, e nulla riede
mia morte in danno a la città smarrita;
ma se tu cadi (tolga il Ciel gli augùri),
or chi sarà che più difenda i muri? -
Verg. Aen. 9.219-220:
ille autem: causas nequicquam nectis inanis / nec mea iam mutata loco sententia cedit

Verg. Aen. 9.230-233:
Tum Nisus et una / Euryalus confestim alacres admittier orant: / rem magnam pretiumque morae fore. Primus Iulus / accepit trepidos [...]
9
Replicò il cavaliero: - Indarno adduci
al mio fermo voler fallaci scuse
.
Seguirò l'orme tue, se mi conduci;
ma le precorrerò, se mi ricuse. -
Concordi al re ne vanno, il qual fra i duci
e fra i più saggi suoi gli accolse e chiuse.
Incominciò Clorinda
: - O sire, attendi
a ciò che dir voglianti, e in grado il prendi.




Verg. Aen. 9.251:
et vultum lacrimis atque ora rigabat
10
Argante qui (né sarà vano il vanto)
quella machina eccelsa arder promette.
Io sarò seco, ed aspettiam sol tanto
che stanchezza maggiore il sonno allette. -
Sollevò il re le palme, e un lieto pianto
giù per le crespe guancie a lui cadette
;
e: - Lodato sia tu, - disse - che a i servi
tuoi volgi gli occhi e 'l regno anco mi servi.

Verg. Aen. 9.247-254:
11
Né già sì tosto caderà, se tali
animi forti in sua difesa or sono.
Ma qual poss'io, coppia onorata, eguali
dar a i meriti vostri o laude o dono?
Laudi la fama voi con immortali
voci di gloria, e 'l mondo empia del suono.
Premio v'è l'opra stessa, e premio in parte
vi fia del regno mio non poca parte. -
Verg. Aen. 9.250-251:
Sic memorans humeros dextrasque tenebat / amborum
12
Sì parla il re canuto, e si ristringe
or questa or quel teneramente al seno
.
Il Soldan, ch'è presente e non infinge
la generosa invidia onde egli è pieno,
disse: - Né questa spada in van si cinge;
verravvi a paro o poco dietro almeno.
- Ah! - rispose Clorinda - andremo a questa
impresa tutti? e se tu vien, chi resta? -
  13
Così gli disse, e con rifiuto altero
già s'apprestava a ricusarlo Argante;
ma 'l re il prevenne, e ragionò primiero
a Soliman con placido sembiante:
- Ben sempre tu, magnanimo guerriero,
ne ti mostrasti a te stesso sembiante,
cui nulla faccia di periglio unquanco
sgomentò, né mai fosti in guerra stanco.
  14
E so che fuora andando opre faresti
degne di te; ma sconvenevol parmi
che tutti usciate, e dentro alcun non resti
di voi che séte i più famosi in armi.
Né men consentirei ch'andasser questi
(ché degno è il sangue lor che si risparmi),
s'o men util tal opra o mi paresse
che fornita per altri esser potesse.
  15
Ma poi che la gran torre in sua difesa
d'ogni intorno le guardie ha così folte
che da poche mie genti esser offesa
non pote, e inopportuno è uscir con molte,
la coppia che s'offerse a l'alta impresa,
e 'n simil rischio si trovò più volte,
vada felice pur, ch'ella è ben tale
che sola più che mille insieme vale.



Verg. Aen. 5.743:
et sopitos suscitat ignis
Petr. RVF 33.6:
et desto avea 'l carbone
16
Tu, come al regio onor più si conviene,
con gli altri, prego, in su le porte attendi;
e quando poi (ché n'ho secura spene)
ritornino essi e desti abbian gli incendi,
se stuol nemico seguitando viene,
lui risospingi e lor salva e difendi. -
Così l'un re diceva, e l'altro cheto
rimaneva al suo dir, ma non già lieto.
  17
Soggiunse allora Ismeno: - Attender piaccia
a voi, ch'uscir dovete, ora più tarda,
sin che di varie tempre un misto i' faccia
ch'a la machina ostil s'appigli e l'arda.
Forse allora averrà che parte giaccia
di quello stuol che la circonda e guarda. -
Ciò fu concluso, e in sua magion ciascuno
aspetta il tempo al gran fatto opportuno.
  18
Depon Clorinda le sue spoglie inteste
d'argento e l'elmo adorno e l'arme altere,
e senza piuma o fregio altre ne veste
(infausto annunzio!) ruginose e nere,
però che stima agevolmente in queste
occulta andar fra le nemiche schiere.
È quivi Arsete eunuco, il qual fanciulla
la nudrì da le fasce e da la culla,
Petr. RVF 16.5:
indi trahendo poi l'antiquo fianco
19
e per l'orme di lei l'antico fianco
d'ogni intorno traendo, or la seguia.
Vede costui l'arme cangiate, ed anco
del gran rischio s'accorge ove ella gìa,
e se n'affligge, e per lo crin che bianco
in lei servendo ha fatto e per la pia
memoria de' suo' uffici instando prega
che da l'impresa cessi; ed ella il nega.
  20
Onde ei le disse alfin: - Poi che ritrosa
sì la tua mente nel suo mal s'indura
che né la stanca età, né la pietosa
voglia, né i preghi miei, né il pianto cura,
ti spiegherò più oltre, e saprai cosa
di tua condizion che t'era oscura;
poi tuo desir ti guidi o mio consiglio. -
Ei segue, ed ella inalza attenta il ciglio.
  21
- Resse già l'Etiopia, e forse regge
Senapo ancor con fortunato impero,
il qual del figlio di Maria la legge
osserva, e l'osserva anco il popol nero.
Quivi io pagan fui servo e fui tra gregge
d'ancelle avolto in feminil mestiero,
ministro fatto de la regia moglie
che bruna è sì, ma il bruno il bel non toglie.
  22
N'arde il marito, e de l'amore al foco
ben de la gelosia s'agguaglia il gelo.
Si va in guisa avanzando a poco a poco
nel tormentoso petto il folle zelo
che da ogn'uom la nasconde, e in chiuso loco
vorria celarla a i tanti occhi del cielo.
Ella, saggia ed umil, di ciò che piace
al suo signor fa suo diletto e pace.


Petr. Tr. Cup. 2.144:
vergine bruna i begli occhi e le chiome
23
D'una pietosa istoria e di devote
figure la sua stanza era dipinta.
Vergine, bianca il bel volto e le gote
vermiglia, è quivi presso un drago avinta.
Con l'asta il mostro un cavalier percote:
giace la fèra nel suo sangue estinta.
Quivi sovente ella s'atterra, e spiega
le sue tacite colpe e piange e prega.







Hor. Carm. 35.21-22:
te Spes et albo rara Fides colit / velata panno
24
Ingravida fra tanto, ed espon fuori
(e tu fosti colei) candida figlia.
Si turba; e de gli insoliti colori,
quasi d'un novo mostro, ha meraviglia.
Ma perché il re conosce e i suoi furori,
celargli il parto alfin si riconsiglia,
ch'egli avria dal candor che in te si vede
argomentato in lei non bianca fede.
  25
Ed in tua vece una fanciulla nera
pensa mostrargli, poco inanzi nata.
E perché fu la torre, ove chius'era,
da le donne e da me solo abitata,
a me, che le fui servo e con sincera
mente l'amai, ti diè non battezzata;
né già poteva allor battesmo darti,
ché l'uso no 'l sostien di quelle parti.
  26
Piangendo a me ti porse, e mi commise
ch'io lontana a nudrir ti conducessi.
Chi può dire il suo affanno, e in quante guise
lagnossi e raddoppiò gli ultimi amplessi?
Bagnò i baci di pianto, e fur divise
le sue querele da i singulti spessi.
Levò alfin gli occhi, e disse: « O Dio, che scerni
l'opre più occulte, e nel mio cor t'interni,






Verg. Aen. 12.435-436:
disce, puer, virtutem ex me verumque laborem, / fortunam ex aliis
27
s'immaculato è questo cor, s'intatte
son queste membra e 'l marital mio letto,
per me non prego, che mille altre ho fatte
malvagità: son vile al tuo cospetto;
salva il parto innocente, al qual il latte
nega la madre del materno petto.
Viva, e sol d'onestate a me somigli;
l'essempio di fortuna altronde pigli
.
  28
Tu, celeste guerrier, che la donzella
togliesti del serpente a gli empi morsi,
s'accesi ne' tuo' altari umil facella,
s'auro o incenso odorato unqua ti porsi,
tu per lei prega, sì che fida ancella
possa in ogni fortuna a te raccòrsi. »
Qui tacque; e 'l cor le si rinchiuse e strinse,
e di pallida morte si dipinse.

Ov. Epist. 11.27-28:
frugibus infantem ramisque albentis olivae / et levibus vittis sedula celat anus
29
Io piangendo ti presi, e in breve cesta
fuor ti portai, tra fiori e frondi ascosa;
ti celai da ciascun
, che né di questa
diedi sospizion né d'altra cosa.
Me n'andai sconosciuto; e per foresta
caminando di piante orride ombrosa,
vidi una tigre, che minaccie ed ire
avea ne gli occhi, incontr'a me venire.
  30
Sovra un arbore i' salsi e te su l'erba
lasciai, tanta paura il cor mi prese.
Giunse l'orribil fèra, e la superba
testa volgendo, in te lo sguardo intese.
Mansuefece e raddolcio l'acerba
vista con atto placido e cortese;
lenta poi s'avicina e ti fa vezzi
con la lingua, e tu ridi e l'accarezzi;
  31
ed ischerzando seco, al fero muso
la pargoletta man secura stendi.
Ti porge ella le mamme e, come è l'uso
di nutrice, s'adatta, e tu le prendi.
Intanto io miro timido e confuso,
come uom faria novi prodigi orrendi.
Poi che sazia ti vede omai la belva
del suo latte, ella parte e si rinselva;






Petr. RVF 325.87-88:
con voci anchor non preste,
di lingua che dal latte si scompagne
32
ed io giù scendo e ti ricolgo, e torno
là 've prima fur vòlti i passi miei,
e preso in picciol borgo alfin soggiorno,
celatamente ivi nutrir ti fei.
Vi stetti insin che 'l sol correndo intorno
portò a i mortali e diece mesi e sei.
Tu con lingua di latte anco snodavi
voci indistinte
, e incerte orme segnavi.
Petr. RVF 315.3-4:
et era giunto al loco / ove scende la vita ch'al fin cade.
33
Ma sendo io colà giunto ove dechina
l'etate omai cadente a la vecchiezza
,
ricco e sazio de l'or che la regina
nel partir diemmi con regale ampiezza,
da quella vita errante e peregrina
ne la patria ridurmi ebbi vaghezza,
e tra gli antichi amici in caro loco
viver, temprando il verno al proprio foco.

Verg. Aen. 11.540-584:
34
Partomi, e vèr l'Egitto onde son nato,
te conducendo meco, il corso invio,
e giungo ad un torrente, e riserrato
quinci da i ladri son, quindi dal rio.
Che debbo far? te, dolce peso amato,
lasciar non voglio, e di campar desio.
Mi gitto a nuoto, ed una man ne viene
rompendo l'onda e te l'altra sostiene.



Verg. Aen. 1.116-117:
ast illam ter fluctus ibidem / torquet agens circum, et rapidus vorat aequore vortex
35
Rapidissimo è il corso, e in mezzo l'onda
in se medesma si ripiega e gira;
ma, giunto ove più volge e si profonda,
in cerchio ella mi torce e giù mi tira.
Ti lascio allor, ma t'alza e ti seconda
l'acqua, e secondo a l'acqua il vento spira,
e t'espon salva in su la molle arena;
stanco, anelando, io poi vi giungo a pena.
  36
Lieto ti prendo; e poi la notte, quando
tutte in alto silenzio eran le cose,
vidi in sogno un guerrier che minacciando
a me su 'l volto il ferro ignudo pose.
Imperioso disse: « Io ti comando
ciò che la madre sua primier t'impose:
che battezzi l'infante; ella è diletta
del Cielo, e la sua cura a me s'aspetta.


Hom. Il. 2.36-39:
[...] Attento
dunque m'ascolta. A te vengh'io celeste
nunzio di Giove, che lontano ancora
su te veglia pietoso.
37
Io la guardo e difendo, io spirto diedi
di pietate a le fère e mente a l'acque.
Misero te s'al sogno tuo non credi,
ch'è del Ciel messaggiero
. » E qui si tacque.
Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi
come del giorno il primo raggio nacque;
ma perché mia fé vera e l'ombre false
stimai, di tuo battesmo non mi calse,
  38
né de i preghi materni; onde nudrita
pagana fosti, e 'l vero a te celai.
Crescesti, e in arme valorosa e ardita
vincesti il sesso e la natura assai:
fama e terre acquistasti, e qual tua vita
sia stata poscia tu medesma il sai;
e sai non men che servo insieme e padre
io t'ho seguita fra guerriere squadre.

Verg. Aen. 6.522:
dulcis et alta quies placidaeque simillima morti
39
Ier poi su l'alba, a la mia mente oppressa
d'alta quiete e simile a la morte,
nel sonno s'offerì l'imago stessa,
ma in più turbata vista e in suon più forte:
« Ecco, » dicea « fellon, l'ora s'appressa
che dée cangiar Clorinda e vita e sorte:
mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo. »
Ciò disse, e poi n'andò per l'aria a volo.
  40
Or odi dunque tu che 'l Ciel minaccia
a te, diletta mia, strani accidenti.
Io non so; forse a lui vien che dispiaccia
ch'altri impugni la fé de' suoi parenti.
Forse è la vera fede. Ah! giù ti piaccia
depor quest'arme e questi spirti ardenti. -
Qui tace e piagne; ed ella pensa e teme,
ch'un altro simil sogno il cor le preme.
  41
Rasserenando il volto, al fin gli dice:
- Quella fé seguirò che vera or parmi,
che tu co 'l latte già de la nutrice
sugger mi fésti e che vuoi dubbia or farmi;
né per temenza lascierò, né lice
a magnanimo cor, l'impresa e l'armi,
non se la morte nel più fer sembiante
che sgomenti i mortali avessi inante. -
  42
Poscia il consola; e perché il tempo giunge
ch'ella deve ad effetto il vanto porre,
parte e con quel guerrier si ricongiunge
che si vuol seco al gran periglio esporre.
Con lor s'aduna Ismeno, e instiga e punge
quella virtù che per se stessa corre;
e lor porge di zolfo e di bitumi
due palle, e 'n cavo rame ascosi lumi.
Petr. Tr. Fam. 1.46:
di Claudio dico, che notturno e piano
43
Escon notturni e piani, e per lo colle
uniti vanno a passo lungo e spesso,
tanto che a quella parte ove s'estolle
la machina nemica omai son presso.
Lor s'infiamman gli spirti, e 'l cor ne bolle
né può tutto capir dentro se stesso:
gli invita al foco, al sangue, un fero sdegno.
Grida la guardia, e lor dimanda il segno.
  44
Essi van cheti inanzi, onde la guarda
- A l'arme! a l'arme! - in alto suon raddoppia;
ma più non si nasconde e non è tarda
al corso allor la generosa coppia.
In quel modo che fulmine o bombarda
co 'l lampeggiar tuona in un punto e scoppia,
movere ed arrivar, ferir lo stuolo,
aprirlo e penetrar, fu un punto solo.
  45
E forza è pur che fra mill'arme e mille
percosse il lor disegno al fin riesca.
Scopriro i chiusi lumi, e le faville
s'appreser tosto a l'accensibil esca,
ch'a i legni poi l'avolse e compartille.
Chi può dir come serpa e come cresca
già da più lati il foco? e come folto
turbi il fumo a le stelle il puro volto?

Verg. Aen. 3.570-574:

Verg. Aen. 9.75-76:
diripuere focos: piceum fert fumida lumen / taeda et commixtam Volcanus ad astra favillam
46
Vedi globi di fiamme oscure e miste
fra le rote del fumo in ciel girarsi.
Il vento soffia, e vigor fa ch'acquiste
l'incendio e in un raccolga i fochi sparsi.
Fère il gran lume con terror le viste
de' Franchi, e tutti son presti ad armarsi.
La mole immensa, e sì temuta in guerra,
cade, e breve ora opre sì lunghe atterra.
  47
Due squadre de' cristiani intanto al loco
dove sorge l'incendio accorron pronte.
Minaccia Argante: - Io spegnerò quel foco
co 'l vostro sangue -, e volge lor la fronte.
Pur ristretto a Clorinda, a poco a poco
cede, e raccoglie i passi a sommo il monte.
Cresce più che torrente a lunga pioggia
la turba, e li rincalza e con lor poggia.
  48
Aperta è l'Aurea porta, e quivi tratto
è il re, ch'armato il popol suo circonda,
per raccòrre i guerrier da sì gran fatto,
quando al tornar fortuna abbian seconda.
Saltano i due su 'l limitare, e ratto
diretro ad essi il franco stuol v'inonda,
ma l'urta e scaccia Solimano; e chiusa
è poi la porta, e sol Clorinda esclusa.
  49
Sola esclusa ne fu perché in quell'ora
ch'altri serrò le porte ella si mosse,
e corse ardente e incrudelita fora
a punir Arimon che la percosse.
Punillo; e 'l fero Argante avisto ancora
non s'era ch'ella sì trascorsa fosse,
ché la pugna e la calca e l'aer denso
a i cor togliea la cura, a gli occhi il senso.
  50
Ma poi che intepidì la mente irata
nel sangue del nemico e in sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé da' nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch'alcuno in lei non guata,
nov'arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente s'infinge, e fra gli ignoti
cheta s'avolge; e non è chi la noti.

Verg. Aen. 11.809-815:
51
Poi, come lupo tacito s'imbosca
dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la confusion, da l'aura fosca
favorita e nascosa, ella se 'n gìa.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch'essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.
  52
Vuol ne l'armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtù si paragone.
Va girando colei l'alpestre cima
verso altra porta, ove d'entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d'armi suone,
ch'ella si volge e grida: - O tu, che porte,
che corri sì? - Risponde: - E guerra e morte. -


Verg. Aen. 11.710-711:
tradit equum comiti paribusque resistit in armis ense pedes nudo puraque interrita parma.
Verg. Aen. 12.108:
Aeneas acuit Martem et se suscitat ira
53
- Guerra e morte avrai; - disse - io non rifiuto
darlati, se la cerchi -, e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende
.
E impugna l'uno e l'altro il ferro acuto,
ed aguzza l'orgoglio e l'ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d'ira ardenti.
  54
Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno
teatro, opre sarian sì memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l'oblio fatto sì grande,
piacciati ch'io ne 'l tragga e 'n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l'alta memoria.
  55
Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre 'n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.
  56
L'onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l'onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s'aggiunge e cagion nova.
D'or in or più si mesce e più ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co' pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
  57
Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que' nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d'amante.
Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.



Sil. Ital. Pun. 2.28:
Heu caecae mentes tumefactaque corda secundis!
Sen. Troad. 310-311:
O tumide, rerum dum secundarum status / extollit animos [...]!
58
L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue
su 'l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l'ultima stella il raggio langue
al primo albor ch'è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch'ogn'aura di fortuna estolle!
  59
Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Così tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l'altro scoprisse:
  60
- Nostra sventura è ben che qui s'impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l'opra,
pregoti (se fra l'arme han loco i preghi)
che 'l tuo nome e 'l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore. -
  61
Risponde la feroce: - Indarno chiedi
quel c'ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese. -
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: - In mal punto il dicesti -; indi riprese
- il tuo dir e 'l tacer di par m'alletta,
barbaro discortese, a la vendetta. -
  62
Torna l'ira ne' cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u' l'arte in bando, u' già la forza è morta,
ove, in vece, d'entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna,
ne l'arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.
Ov. Fasti. 2.775-776:
ut solet a magno fluctus languescere flatu, / sed tamen a vento, qui fuit, unda tumet
63
Qual l'alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s'accheta ei però, ma 'l suono e 'l moto
ritien de l'onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co 'l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l'impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.



Verg. Aen. 11.803-804:
Verg. Aen. 10.817-819:

Verg. Aen. 9.414:
volvitur ille vomens calidum de pectore flumen
64
Ma ecco omai l'ora fatale è giunta
che 'l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s'immerge e 'l sangue avido beve
;
e la veste, che d'or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l'empie d'un caldo fiume
. Ella già sente
morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.
  65
Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch'a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtù ch'or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.
  66
- Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l'alma sì; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. -
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.
  67
Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v'accorse e l'elmo empiè nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentì la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
  68
Non morì già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise.
Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: « S'apre il cielo; io vado in pace. »




Petr. Tr. Mort. 1.169-172:
Quasi un dolce dormir ne' suo' belli occhi,
sendo lo spirto già da lei diviso,
era quel che morir chiaman gli sciocchi:
Morte bella parea nel suo bel viso.
69
D'un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a' gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e 'l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma
.
  70
Come l'alma gentile uscita ei vede,
rallenta quel vigor ch'avea raccolto;
e l'imperio di sé libero cede
al duol già fatto impetuoso e stolto,
ch'al cor si stringe e, chiusa in breve sede
la vita, empie di morte i sensi e 'l volto.
Già simile a l'estinto il vivo langue
al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue.
  71
E ben la vita sua sdegnosa e schiva,
spezzando a forza il suo ritegno frale,
la bella anima sciolta al fin seguiva,
che poco inanzi a lei spiegava l'ale;
ma quivi stuol de' Franchi a caso arriva,
cui trae bisogno d'acqua o d'altro tale,
e con la donna il cavalier ne porta,
in sé mal vivo e morto in lei ch'è morta.
  72
Però che 'l duce loro ancor discosto
conosce a l'arme il principe cristiano,
onde v'accorre, e poi ravisa tosto
la vaga estinta, e duolsi al caso strano.
E già lasciar non volle a i lupi esposto
il bel corpo che stima ancor pagano,
ma sovra l'altrui braccia ambi li pone,
e ne vien di Tancredi al padiglione.
  73
A fatto ancor nel piano e lento moto
non si risente il cavalier ferito;
pur fievolmente geme, e quinci è noto
che 'l suo corso vital non è fornito.
Ma l'altro corpo tacito ed immoto
dimostra ben che n'è lo spirto uscito.
Così portati, è l'uno e l'altro appresso;
ma in differente stanza al fine è messo.
  74
I pietosi scudier già sono intorno
con vari uffici al cavalier giacente,
e già se 'n riede a i languidi occhi il giorno,
e le mediche mani e i detti ei sente;
ma pur dubbiosa ancor del suo ritorno,
non s'assecura attonita la mente.
Stupido intorno ei guarda, e i servi e 'l loco
al fin conosce; e dice afflitto e fioco:
Verg. Aen. 10.855:
nunc vivo neque adhuc homines lucemque relinquo?
75
- Io vivo? io spiro ancora? e gli odiosi
rai miro ancor di questo infausto die?

Dì testimon de' miei misfatti ascosi,
che rimprovera a me le colpe mie!
Ahi! man timida e lenta, or ché non osi,
tu che sai tutte del ferir le vie,
tu, ministra di morte empia ed infame,
di questa vita rea troncar lo stame?
  76
Passa pur questo petto, e feri scempi
co 'l ferro tuo crudel fa' del mio core;
ma forse, usata a' fatti atroci ed empi,
stimi pietà dar morte al mio dolore.
Dunque i' vivrò tra memorandi essempi
misero mostro d'infelice amore:
misero mostro, a cui sol pena è degna
de l'immensa impietà la vita indegna.






Sen. Epist. 3.28:
Quaris quare te fuga ista non adiuvet? Tecum fugis. Onus animi deponendum est.
77
Vivrò fra i miei tormenti e le mie cure,
mie giuste furie, forsennato, errante;
paventarò l'ombre solinghe e scure
che 'l primo error mi recheranno inante,
e del sol che scoprì le mie sventure,
a schivo ed in orrore avrò il sembiante.
Temerò me medesmo; e da me stesso
sempre fuggendo
, avrò me sempre appresso.
  78
Ma dove, oh lasso me!, dove restaro
le reliquie del corpo e bello e casto?
Ciò ch'in lui sano i miei furor lasciaro,
dal furor de le fère è forse guasto.
Ahi troppo nobil preda! ahi dolce e caro
troppo e pur troppo prezioso pasto!
ahi sfortunato! in cui l'ombre e le selve
irritaron me prima e poi le belve.
  79
Io pur verrò là dove séte; e voi
meco avrò, s'anco séte, amate spoglie.
Ma s'egli avien che i vaghi membri suoi
stati sian cibo di ferine voglie,
vuo' che la bocca stessa anco me ingoi,
e 'l ventre chiuda me che lor raccoglie:
onorata per me tomba e felice,
ovunque sia, s'esser con lor mi lice. -
  80
Così parla quel misero, e gli è detto
ch'ivi quel corpo avean per cui si dole:
rischiarar parve il tenebroso aspetto,
qual le nube un balen che passe e vòle;
e da i riposi sollevò del letto
l'inferma de le membra e tarda mole;
e traendo a gran pena il fianco lasso,
colà rivolse vacillando il passo.






Petr. RVF 358.1-2:
Non pò far Morte il dolce viso amaro,
ma 'l dolce viso dolce pò far Morte.
81
Ma come giunse, e vide in quel bel seno,
opera di sua man, l'empia ferita,
e quasi un ciel notturno anco sereno
senza splendor la faccia scolorita,
tremò così che ne cadea, se meno
era vicina la fedele aita.
Poi disse: - Oh viso che poi far la morte
dolce, ma raddolcir non puoi mia sorte!
  82
Oh bella destra che 'l soave pegno
d'amicizia e di pace a me porgesti!
quali or, lasso!, vi trovo? e qual ne vegno?
E voi, leggiadre membra, or non son questi
del mio ferino e scelerato sdegno
vestigi miserabili e funesti?
Oh di par con la man luci spietate:
essa le piaghe fe', voi le mirate.
  83
Asciutte le mirate? or corra, dove
nega d'andare il pianto, il sangue mio. -
Qui tronca le parole, e come il move
suo disperato di morir desio,
squarcia le fasce e le ferite, e piove
da le sue piaghe essacerbate un rio;
e s'uccidea, ma quella doglia acerba,
co 'l trarlo di se stesso, in vita il serba.
  84
Posto su 'l letto, e l'anima fugace
fu richiamata a gli odiosi uffici.
Ma la garrula fama omai non tace
l'aspre sue angoscie e i suoi casi infelici.
Vi tragge il pio Goffredo, e la verace
turba v'accorre de' più degni amici.
Ma né grave ammonir, né pregar dolce
l'ostinato de l'alma affanno molce.
  85
Qual in membro gentil piaga mortale
tocca s'inaspra e in lei cresce il dolore,
tal da i dolci conforti in sì gran male
più inacerbisce medicato il core.
Ma il venerabil Piero, a cui ne cale
come d'agnella inferma al buon pastore,
con parole gravissime ripiglia
il vaneggiar suo lungo, e lui consiglia:
  86
- O Tancredi, Tancredi, o da te stesso
troppo diverso e da i princìpi tuoi,
chi sì t'assorda? e qual nuvol sì spesso
di cecità fa che veder non puoi?
Questa sciagura tua del Cielo è un messo;
non vedi lui? non odi i detti suoi?
che ti sgrida, e richiama a la smarrita
strada che pria segnasti e te l'addita?
  87
A gli atti del primiero ufficio degno
di cavalier di Cristo ei ti rappella,
che lasciasti per farti (ahi cambio indegno!)
drudo d'una fanciuila a Dio rubella.
Seconda aversità, pietoso sdegno
con leve sferza di là su flagella
tua folle colpa, e fa di tua salute
te medesmo ministro; e tu 'l rifiute?
  88
Rifiuti dunque, ahi sconoscente!, il dono
del Ciel salubre e 'ncontra lui t'adiri?
Misero, dove corri in abbandono
a i tuoi sfrenati e rapidi martìri?
Sei giunto, e pendi già cadente e prono
su 'l precipizio eterno; e tu no 'l miri?
Miralo, prego, e te raccogli, e frena
quel dolor ch'a morir doppio ti mena. -







Petr. RVF 325.4:
a la sua donna, che dal ciel n'ascolta.
89
Tace, e in colui de l'un morir la tema
potè de l'altro intepidir la voglia.
Nel cor dà loco a que' conforti, e scema
l'impeto interno de l'interna doglia,
ma non così che ad or ad or non gema
e che la lingua a lamentar non scioglia,
ora seco parlando, or con la sciolta
anima che dal Ciel forse l'ascolta.
Verg. Georg. 4.465-466:
te, dulcis coniunx, te solo in litore secum, / te veniente die, te decedente canebat
Verg. Georg. 4.511-515:
Petr. RVF 311.1-2:
Quel rosignol, che sì soave piagne,
forse suoi figli, o sua cara consorte
90
Lei nel partir, lei nel tornar del sole
chiama con voce stanca, e prega e plora,
come usignuol cui 'l villan duro invole
dal nido i figli non pennuti ancora,
che in miserabil canto afflitte e sole
piange le notti, e n'empie i boschi e l'òra
.
Al fin co 'l novo dì rinchiude alquanto
i lumi, e 'l sonno in lor serpe fra 'l pianto.




Petr. Tr. Mort. 1.25-26:
Petr. RVF 342.9-11:

Petr. RVF 119.36-37:
Petr. RVF 341.12:
91
Ed ecco in sogno di stellata veste
cinta gli appar la sospirata amica:
bella assai più, ma lo splendor celeste
orna e non toglie la notizia antica;
e con dolce atto di pietà le meste
luci par che gli asciughi, e così dica:
« Mira come son bella e come lieta,
fedel mio caro, e in me tuo duolo acqueta
.

Purg. 1.4-6:
e canterò di quel secondo regno
dove l'umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
92
Tale i' son, tua mercè: tu me da i vivi
del mortal mondo, per error, togliesti;
tu in grembo a Dio fra gli immortali e divi,
per pietà, di salir degna mi fésti.
Quivi io beata amando godo, e quivi
spero che per te loco anco s'appresti,
ove al gran Sole e ne l'eterno die
vagheggiarai le sue bellezze e mie.





Par. 5.136-138:
per più letizia sì mi si nascose
dentro al suo raggio la figura santa;
e così chiusa chiusa mi rispuose
93
Se tu medesmo non t'invidii il Cielo
e non travii co 'l vaneggiar de' sensi,
vivi e sappi ch'io t'amo, e non te 'l celo,
quanto più creatura amar conviensi. »
Così dicendo, fiammeggiò di zelo
per gli occhi, fuor del mortal uso accensi;
poi nel profondo de' suoi rai si chiuse
e sparve, e novo in lui conforto infuse
.





Verg. Georg. 4.179:
et daedala fingere tecta
94
Consolato ei si desta e si rimette
de' medicanti a la discreta aita,
e intanto sepellir fa le dilette
membra ch'informò già la nobil vita.
E se non fu di ricche pietre elette
la tomba e da man dedala scolpita,
fu scelto almeno il sasso, e chi gli diede
figura, quanto il tempo ivi concede.
  95
Quivi da faci in lungo ordine accese
con nobil pompa accompagnar la feo,
e le sue arme, a un nudo pin sospese,
vi spiegò sovra in forma di trofeo.
Ma come prima alzar le membra offese
nel dì seguente il cavalier poteo,
di riverenza pieno e di pietate
visitò le sepolte ossa onorate.




Purg. 31.19-21:
sì scoppia' io sottesso grave carco,
fuori sgorgando lagrime e sospiri,
e la voce allentò per lo suo varco.
96
Giunto a la tomba, ove al suo spirto vivo
dolorosa prigione il Ciel prescrisse,
pallido, freddo, muto, e quasi privo
di movimento, al marmo gli occhi affisse.
Al fin, sgorgando un lagrimoso rivo,
in un languido: - oimè! - proruppe, e disse
:
- O sasso amato ed onorato tanto,
che dentro hai le mie fiamme e fuori il pianto,
  97
non di morte sei tu, ma di vivaci
ceneri albergo, ove è riposto Amore;
e ben sento io da te l'usate faci,
men dolci sì, ma non men calde al core.
Deh! prendi i miei sospiri, e questi baci
prendi ch'io bagno di doglioso umore;
e dalli tu, poi ch'io non posso, almeno
a le amate reliquie c'hai nel seno.



Petr. RVF 340.8:
Pur lassù non alberga ira né sdegno
98
Dalli lor tu, ché se mai gli occhi gira
l'anima bella a le sue belle spoglie,
tua pietate e mio ardir non avrà in ira,
ch'odio o sdegno là su non si raccoglie.
Perdona ella il mio fallo, e sol respira
in questa speme il cor fra tante doglie.
Sa ch'empia è sol la mano; e non l'è noia
che, s'amando lei vissi, amando moia.
  99
Ed amando morrò: felice giorno,
quando che sia; ma più felice molto,
se come errando or vado a te d'intorno,
allor sarò dentro al tuo grembo accolto.
Faccian l'anime amiche in Ciel soggiorno,
sia l'un cenere e l'altro in un sepolto;
ciò che 'l viver non ebbe, abbia la morte.
Oh se sperar ciò lice, altera sorte! -


Verg. Aen. 2.486-488:
at domus interior gemitu miseroque tumultu / miscetur, penitusque cavae plangoribus aedes / femineis ululant
100
Confusamente si bisbiglia intanto
del caso reo ne la rinchiusa terra.
Poi s'accerta e divulga, e in ogni canto
de la città smarrita il romor erra
misto di gridi e di femineo pianto
;
non altramente che se presa in guerra
tutta ruini, e 'l foco e i nemici empi
volino per le case e per li tèmpi.


Inf. 33.49:
Io non piangëa, sì dentro impetrai

Verg. Aen. 10.844-845; Verg. Aen. 11.85-87; Verg. Aen. 12.611:
101
Ma tutti gli occhi Arsete in sé rivolve,
miserabil di gemito e d'aspetto.
Ei come gli altri in lagrime non solve
il duol, ché troppo è d'indurato affetto
;
ma i bianchi crini suoi d'immonda polve
si sparge e brutta, e fiede il volto e 'l petto
.
Or mentre in lui vòlte le turbe sono,
va in mezzo Argante e parla in cotal suono:
  102
- Ben volev'io, quando primier m'accorsi
che fuor si rimanea la donna forte,
seguirla immantinente; e ratto corsi
per correr seco una medesma sorte.
Che non feci o non dissi? o quai non porsi
preghiere al re che fésse aprir le porte?
Ei me pregante, e contendente invano,
con l'imperio affrenò c'ha qui soprano.
  103
Ahi! che s'io allora usciva, o dal periglio
qui ricondotta la guerriera avrei,
o chiusi, ov'ella il terren fe' vermiglio,
con memorabil fine i giorni miei.
Ma che potevo io più? parve al consiglio
de gli uomini altramente e de gli dèi:
ella morì di fatal morte, ed io
quant'or conviensi a me già non oblio.
Verg. Aen. 12.175-176:
Tum pius Aeneas stricto sic ense precatur: / esto nunc Sol testis et haec mihi terra vocanti
Verg. Aen. 12.200-201:
audiat haec genitor qui foedera fulmine sancit. / Tango aras, medios ignis et numina testor
104
Odi, Gierusalem, ciò che prometta
Argante; odi 'l tu, Cielo; e se in ciò manco,
fulmina su 'l mio capo:
io la vendetta
giuro di far ne l'omicida franco,
che per la costei morte a me s'aspetta,
né questa spada mai depor dal fianco
insin ch'ella a Tancredi il cor non passi
e 'l cadavero infame a i corvi lassi. -




Ar. Fur. 1.9:
Contrari ai voti poi furo i successi
105
Così disse egli, e l'aure popolari
con applauso seguìr le voci estreme;
e imaginando sol, temprò gli amari
l'aspettata vendetta in quel che geme.
Oh vani giuramenti! ecco contrari
seguir tosto gli effetti a l'alta speme
,
e cader questi in tenzon pari estinto
sotto colui ch'ei fa già preso e vinto.