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IMITATORI DEL BERNI

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ROMEI Berni e berneschi



     Mattio Franzesi fu un bernesco pieno di talento e molto fertile, anche se poco riconosciuto, e membro dell'Accademia dei Vignaiuoli, nonché della posteriore Accademia della Virtù (pp. 56-57)

     Analizzando la cronologia delle opere degli eredi del Berni ci rendiamo conto che la nascita del bernismo è circoscrivibile ad una precisa fascia di anni e legata a due luoghi in particolare: essenzialmente Roma, trovando un punto saldo nell'Accademia dei Vignaiuoli, ma anche Firenze. La maggiore attività dei primi berneschi, non a caso, emerge verso il 1532 e prosegue certamente per qualche anno oltre il 1535.
     L'attività bernesca a Firenze, madrepatria della poesia giocosa, è da collegare soprattutto, più che alla presenza del Berni negli ultimissimi anni della sua vita, ai notevoli scambi con Roma, iniziati fin dal papato di Leone X. In generale, infatti, è palese la matrice prevalentemente romana del filone bernesco, sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo. Insomma la "diffusione del modello poetico offerto dal Berni" è dovuta in gran parte a quegli autori che ruotarono intorno all'Accademia e con i quali il Berni instaurò un rapporto di reciproca "interferenza". Se si pensa, poi, all'inizio della sua attività poetica e all'isolamento in cui si sviluppò e si pensa invece agli anni in cui divenne simbolo e modello di una folta schiera di letterati, si conclude che il Berni stesso fu trascinato, ed influenzato a sua volta, in questa nuova "coralità". Il fallimento del periodo gibertino, la frustrazione e l'estrema insofferenza che ne scaturirono furono certamente stimolati anche dal fermento romano, dalla complicità degli uomini nuovi della corte romana. Non a caso il Berni, ritrovando, in coincidenza con la fondazione dell'Accademia (1532), il familiare ambiente romano, ritorna ai suoi capitoli di lode, ai suoi paradossi (fra l'altro, alcuni componimenti di questi anni risultano evidentemente influenzati dal Bini e dal Mauro). In realtà, poi, quella solidarietà si rivelò fondamentalmente illusoria, precaria e comunque insoddisfacente, poiché il Berni decise in breve tempo di tornare a Firenze (pp. 66-67).

     Nella diffusione del bernismo la "poesia dell'Accademia sembra aver funzionato da filtro tra modello e utenti successivi, divulgandone una propria angolazione di lettura e proprie scelte operative, determinanti nella codificazione del 'genere' letterario" (p. 67). Questa operazione ha inevitabilmente comportato la riduzione o l'eliminazione di certi aspetti e il mantenimento e la promozione di altri. La scelta privilegiò gli elementi più innovativi dello stile bernesco, rappresentati in primo luogo dalla metrica e precisamente dall'utilizzo del capitolo ternario; soltanto qualche autore fiorentino, più legato alle proprie radici cittadine, ha continuato a privilegiare forme di stampo burchiellesco.
     "Il Berni, dunque, finisce col funzionare, suo malgrado, come capostipite di una rinnovata tradizione che coscientemente si oppone ai suoi predecessori, così come il Bembo per il nuovo petrarchismo, garantendo una diffusione nazionale del 'genere', finora patrimonio esclusivo dei toscani appunto per privilegio di nascita; in questo ambiente composito, infatti, si avvia quel conguaglio linguistico che avrebbe rapidamente emancipato la poesia burlesca dalle imposizioni di un'espressività idiomatica che [...] ne escludeva dall'utenza i non toscani" (pp. 67-69).
     Rinunciando al sonetto, i berneschi romani rinunciavano in primo luogo alla satira politica; di pari passo si allontanavano anche dalla pasquinata, riconoscendosi in "forme di polemica diverse, anche pungenti e compromettenti [...]; ma fra la loro poesia burlesca [...] e la pratica umile della pasquinata si frapponeva un diaframma ideologico che interdiva la scarica liberatoria dell'invettiva, dell'insulto senza ritegno [...]. [Nel] bernismo romano si assiste a una generale flessione dell'impegno polemico diretto. Una generica ed innocua satira di costume [...] è tutto quanto i nostri accademici si riservano, a sfogo di un moralismo un po' gretto o alla ricerca di pretesti bizzarri. Per il resto, i motivi più acri del Berni non trovano sviluppo conseguente nei suoi imitatori: riaffiorano talvolta, immiseriti, in spunti occasionali, compromessi dal contesto evasivo che li avvolge, che toglie loro vigore in un dolce soffocamento" (p. 71).

     "L'affievolimento dello spirito combattivo e l'elusione dell'attualità sono compensati [...] da un massiccio recupero umanistico", già presente nel Berni e di fatto maggiorato dai suoi eredi (p. 72).

     Su questa linea Romei giunge a tracciare un profilo del bernismo romano, il quale risulta caratterizzato fondamentalmente  come un fenomeno collettivo e quindi inserito in una precisa dinamica sociale. La rinuncia ad un impegno reale, la presenza di un prevedibile classicismo di fondo, l'assoluta leggerezza ed inconsistenza dei contenuti sono la garanzia dell'"immobilità dell'ordine costituito". A questo punto, allora, "lo sberleffo innocuo", prodotto da questo gruppo chiuso di colti intellettuali, potrebbe acquistare una valenza liberatoria collettiva, scaturita da una vera e propria necessità storica. Può far pensare a una crisi dell'identità intellettuale, ad una sorta di alienazione, di smarrimento, che trova sfogo nella frivolezza. Ma la poesia dei "Vignaiuoli" non è solo questo. Anzitutto si tratta della letteratura di un "dopoguerra" (il terribile sacco di Roma, infatti, era avvenuto soltanto pochi anni prima), che del prossimo passato porta ancora le ferite insanabili. In secondo luogo, forse, dello svago consolatorio questa poesia rivela soltanto la pulsione, mentre è incapace di fatto di una vera e propria evasione liberatoria. Il classico tema dell'"età dell'oro", per esempio, riesumato frequentemente dal Berni e dai suoi seguaci, con il suo desiderio malcelato di fuga in un mondo di sogno, non riesce a sottrarsi al confronto con una realtà irridente: quella squallida di un presente impietoso. Il tema favoloso dell'amore risulta incrinato dal 'mal francese'; l'innocenza della natura è costantemente minacciata dalla peste o dalla carestia. Di fronte a questa crudele consapevolezza l'illusione letteraria muore irrevocabilmente, trasformando la burla e il paradosso nel sintomo angosciante di un acuto malessere (pp. 74-77).

     Ciò che il bernismo produce è una "poesia negativa", proprio per la sua natura di "opposizione a qualcosa": al petrarchismo spirituale, al classicismo umanistico, ad un impegno intellettuale che sarebbe, forse, capace di sciogliere le contraddizioni di queste anime perse, le quali nella loro negatività, appunto, non riescono (e ne sono pienamente consapevoli) a proporre alternative  all'esistente. Significativo è, non a caso, il fatto che questa poesia "incroci la preistoria della contestazione ereticale" (p. 80) e che lo stesso Berni offra spunto ad interpretazioni che lo raffigurano "protestante", aspetto questo che non riguarda, fra l'altro, solo il nostro autore ma che comprende anche altri berneschi. 
     In ogni caso questa poesia non è, appunto, né eversiva né di rivolta quanto di malessere e di insicurezza. Gli autori in questione sono tutti più o meno felicemente integrati nel sistema politico-sociale, ricoprono prestigiosi incarichi di gestione e di rappresentanza, sono parte attiva della "classe dirigente". Quello che è da notare invece è che la loro poesia si sottrae agli schemi tradizionali del tributo cortigiano e del sostegno al potere e che proprio per questo cerca protezione in una solidarietà di gruppo. Tutto ciò sarebbe stato totalmente fuori dal contesto solo dieci anni prima, quando la cultura umanistica era funzione appunto del potere papale. Il sacco di Roma, travolgendo il potere, ha travolto anche sua la cultura ufficiale e in questi anni di transizione e di recupero di credibilità l'autorità politica non è ancora capace di esercitare un efficace controllo e si concede un atteggiamento tollerante. Ecco quindi che il bernismo si colloca proprio "tra devianza e integrazione, tra contestazione e tolleranza: prodotto di un cadente umanesimo, letteratissimo e di squisita cultura, ma che ha smarrito le sue ragioni vitali e rovescia le istanze etiche e civili, che ne avevano sorretto la formazione, in una futilità programmata nella quale [...] sarà da riconoscere una macerata impotenza" (pp. 79-83)
 

VIRGILI



     Fra tutti i successori ed imitatori dello stile bernesco uno soltanto forse gli si avvicina: il Mauro, che per ingegno, arte e stile è forse il più prossimo a lui.
Ma i "Berneschi veri non sono in Italia: non sono [...] Berneschi veri quella turba molesta che si attaccarono al Berni, e nulla ebbero della sua urbanità, della sua gentilezza, dell'ira sua, del suo stomaco, di tante e tante altre doti, il cui complesso è assai difficile trovar congiunto in una stessa persona, anche in quel paese che di siffatti scrittori abbonda forse meglio di ogni altro, cioè l'Inghilterra. L''umorismo' inglese, in tutti i suoi vari gradi e aspetti, da quello placido e sereno, ma argutamente maligno, di Sterne, a quello torbido e tenebroso di Swift, l'umorismo inglese parrà avere in sé assai più di vero bernesco che non sia in tutti questi inettissimi imitatori italiani del Berni. Il quale [...] in Italia [...] parve poco men che un buffone. Ma qual prova migliore della serietà [...] che, insieme con molto faceto, è nell'arte e nell'ingegno e nello stile di lui, come il trovarne tracce involontarie e spontanee presso il popolo più serio dell'Europa moderna?" (pp. 512-513)

Un altro bernesco italiano può essere riconosciuto nel Lasca. La sua arte, la sua lingua, che anch'esso "ebbe pronta ed intera, e [...] la festività e giovialità dell'ingegno, che in lui però di rado ridonda e trabocca", somigliano, nonostante le differenze, a quelle del Berni (p. 517)