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IPOTESI SULLE MOTIVAZIONI DEL RIFACIMENTO

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STUDI



 

ROMEI Berni e berneschi



     Per comprendere le motivazioni che spinsero il Berni a compiere l'oneroso lavoro del rifacimento è indispensabile inquadrare biograficamente l'opera in questione. Le datazioni a nostra disposizione ci riportano al periodo che il Berni trascorse al servizio del pio Giovan Matteo Giberti, il quale esigeva dai suoi sottoposti non solo una rigorosa disciplina ma anche l'assoggettamento della letteratura a fini morali (in questo ambito trova non a caso posto una delle tematiche principali del Berni riguardante il "primato [...] delle res sui verba", enunciato nel Dialogo e ribadito anni dopo nel capitolo dedicato a Michelangelo Buonarroti). Furono gli anni questi in cui il Berni prese le distanze dai capitoli di lode (vi tornerà solo più tardi, quando l'oneroso periodo gibertino starà per volgere al termine), orientandosi semmai verso la satira politica, consona al suo ufficio, e verso la progettazione di opere di maggior spessore ed impegno intellettuale e morale.
     Con la composizione del Comento al capitolo della primiera (1526) il Berni mirò ad un'auto-giustificazione, alla giustificazione della sua passata attività, certo frivola e leggera ma innocente e comunque non destituita d'arte [il Romei ha attualmente abbandonato questa interpretazione]; nel Dialogo contra i poeti (composto fra il 1525 e il maggio 1527) dichiarò addirittura di "spoetarsi", rinnegando le sue "baie" ed esprimendo il suo ravvedimento, che egli sentì come una vera e propria guarigione. Con la composizione del rifacimento, poi, si può ipotizzare un tentativo di mettere in pratica i suoi propositi facendo emergere quella moralità che il Giberti esigeva e piegando un famoso poema di intrattenimento ad opera didascalica e quasi catechistica; la vera originalità del rifacimento sta proprio nella composizione di numerosissimi proemi, a sfondo morale e devoto, che rileggono il contenuto dei canti in funzione allegorica (funzione non facile se si pensa alla materia del poema e all'insofferenza che spesso l'autore sentiva per essa): ecco quindi che si ritrova la necessità di una poesia didascalica in linea con l'ideologia espressa nel Dialogo e certamente in linea con l'ambiente cristiano del cenacolo veronese.
     Ad avallare questa interpretazione del rifacimento Romei richiama la testimonianza di Pietro Paolo Vergerio, autore protestante di un opuscolo anticuriale, pubblicato nel 1554, nel quale compaiono diciotto stanze inedite ed alternative del rifacimento. Non sono molto credibili certe affermazioni del Vergerio e non sono molto credibili le stanze da lui proposte nella loro interezza (quelle conclusive, però, potrebbero essere veramente del Berni); è interessante e credibile, invece, la sua convinzione che nel rifacimento ci fosse un fine alto e nascosto del rifacimento contro lo scopo esclusivamente letterario dell'opera. In esso il Vergerio indicava una sentita "propaganda riformista" e un "serio e sincero impegno religioso". Allineando il riformismo gibertino con le idee (già nel Dialogo) contro un umanesimo esclusivamente letterario e ibrido di mitologia pagana e rito cristiano, queste discusse stanze vanno oltre, dichiarando l'assoluta inconciliabilità fra classicismo e fede ed aggredendo un umanesimo corrotto per volgersi interamente verso un'ascesi totale. A questo punto ciò che può emergere dalle avventure dei cavalieri non è altro che una schietta "dottrina evangelica" (pp. 22-28)

     Così con "la trilogia inquadrata fra gli anni 1525-1531 abbiamo dunque circoscritto il ciclo edificante della conversione e della disciplina, quando il Berni, fatto 'teatino e romito' e macerato dai 'digiuni in pane et in acqua' (come egli ambisce a presentarsi in una sua lettera di questo periodo [...] [a Maria Caterina Cybo]), lascia le letture profane del Burchiello e del Pistoia (con qualche ricaduta, in verità) per le lettere paoline e sembra lealmente impegnato nel programma di rinnovamento e di purificazione portato avanti da 'monsignore di Verona', cui poter demandare, con sottomessa umiltà, un ruolo di guida illuminata e di ispirato direttore di coscienza" (pp. 28-29)
 

ROMEI Orlando



     Il "rifacimento non è certo una riscrittura 'grammaticale'" (p. 1).
     Allora "ci si può chiedere se il suo non sia stato un 'esercizio di stile', secondo una pratica diffusa negli ambienti letterari a lui vicini.
     Per esempio il 'sozio' suo Agnolo Firenzuola [...] riscrive negli stessi anni l'Asino d'oro di Apuleio. Non lavora per un editore [...], lavora per sé e per un gruppo di amici. Il suo si potrebbe dire un 'esperimento di laboratorio'.
     Anche l'Innamorato del Berni può essere un 'esperimento di laboratorio'?
     Non credo. 
     Il Firenzuola lavorava abitualmente così. La riscrittura 'manierista' era parte essenziale della sua ideologia letteraria. Apuleio era strumento di un'accesa polemica (anticiceroniana e dunque antibembesca). L'autore era un cesellatore di parole.
     Tutto questo non vale per il Berni, che [...] ha propugnato il primato delle 'res' sui 'verba' [...].
     [...] Bisogna privilegiare le 'cose': i motivi tematici e ideologici, i contenuti più che il contenitore. 
     In via d'ipotesi ci si può anche chiedere se il poema non fosse un testo così amato, così consentaneo da riscriverlo per farlo ancora più proprio.
     Non si direbbe davvero.
     [...] Mostra più volte segni di impazienza e di insofferenza per quello che sta scrivendo" (p. 2)

     Per esempio, il "Berni esprime il sollievo per la conclusione di una fase particolarmente protratta (e greve) di episodi militari, rivendicando i diritti (e lamentando i 'fastidi') della sua indole pacifica, insofferente di qualsiasi manifestazione di violenza:

Ho voglia anch'io d'esser innamorato
d'Angelica, da poi ch'ella n'ha tanti;
ch'ella m'ha fatto un servigio più grato,
che mai facesse insieme a tutti quanti:
hammi da quel fastidio liberato,
nel quale io mi trovavo poco avanti
di raccontar quella maladizione
del conte Orlando e del figliuol d'Amone;

il qual benché bisogno non avesse
d'aiuto, pure io son schiavo a colei
che in mezzo a tutti dui così si messe.
D'una natura io son, che non vorrei
sentir che mai si gridasse o si desse,
massimamente fra gli amici miei;
non è chi in odio abbia il romor, quant'io:
or parliam d'altro per l'amor di Dio.
               (XXIX [I xxix] 1-2)

     In altro luogo condensa in un'ottava (LXVII 71) le 'minuzie fastidiose' di ben dieci ottave guerresche del Boiardo (III vii 44-53):

Or eccogli alle mani; ecco Gradasso
c'ha pur trovato il disiato brando.
L'ira, la furia, il romore, il fracasso
che qui si fece, al pensier vostro mando;
e le minuzie fastidiose passo
de' colpi di costui, di quei d'Orlando,
il disarmarsi, il farsi tramortire,
l'aspro di due valenti alto ferire.

     Persino il famigerato episodio delle 'virtù' di Durlindana (LIII [II xxiv] 59-62) [...] può essere letto in questa chiave" (p. 14)

     "E se il poema fosse un'opera su commissione? 
     Il Giberti (che a Verona costituì un cenacolo di un rigoroso umanesimo evangelico e che disprezzava la frivolezza letteraria) potrebbe aver 'suggerito' al suo segretario di trasformare un testo di grande successo come l'Orlando innamorato [...] nel veicolo di quella testimonianza e di quella catechesi che erano il dovere dell'illuminato, dello spirituale, dell'uomo rigenerato da un'esigente esperienza religiosa" (p. 18)

     "In verità, la 'dottrina che s'asconde' sotto la vernice di 'sogno' delle venture cavalleresche e dietro il paravento delle 'fole dei romanzi' appare [...] una banalità.
     [...] Considerato che il supporto allegorico è la stampella che contribuisce a reggere in piedi quegli sparuti 2000 versi omeliaci; [...] mi sembra non si possa negare che ci troviamo di fronte a un tentativo di riscrittura moralizzata, cioè di una riscrittura che interpreta il narrato come 'exemplum', come attualizzazione di un paradigma universale e perenne e come veicolo di educazione" (p. 15)
 

VIRGILI



     In seguito alla stampa dell'Orlando furioso, che era artisticamente perfetta, l'opera boiardesca dovette essere messa, in poco tempo, in secondo piano. Fu forse questo uno dei motivi che spinsero il Berni al rifacimento, in modo da elevare la prima parte al livello della seconda inserendoci ciò che le mancava, cioè la fine, l'arte, la forma. 
     A quei tempi (e successivamente) girò anche la voce che il Berni si fosse impegnato in questa impresa per voler competere con l'Ariosto e forse superarlo. Se questa gara ci fu, non ci fu certo dal punto di vista dell'invenzione ma da quello "della lingua, della forma e dello stile". Infatti, se l'Orlando furioso fosse sempre stato come lo leggiamo oggi, l'intenzione del Berni sarebbe stata sicuramente molto "ardita". Ma se pensiamo al fatto che il rifacimento fu compiuto prima dell'edizione del 1532 dell'Orlando furioso, che è, dal punto di vista stilistico e linguistico, notevolmente migliore delle precedenti, ci rendiamo conto che questa intenzione non era poi così presuntuosa (pp. 306-310)