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RELIGIOSITÀ

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STUDI



 

CORSARO



     L'atteggiamento che il Berni ha verso la poesia ed i poeti può essere chiaramente esemplificato con le argomentazioni riportate nel Dialogo contra i poeti. Qui l'inutilità della poesia rappresenta il principale movente dell'opera, nella quale "la funzione estetica della scrittura" viene definita come assolutamente insufficiente. Non solo, i poeti sono per l'autore "gente immorale, ma anche e soprattutto gente che trasgredisce e fa spregio dei comandamenti di Nostro Signore perché atea e pagana, inosservante, blasfema; gente ambiziosa che fa proprio un irrazionale culto della poesia per arricchirsi a spese dei potenti" (p. 1) Lo scadere della letteratura a elemento d'intrattenimento per il signore è la base su cui il Berni fonda la sua concezione di strumento "retorico-formale. La lingua, in quanto elemento di persuasione, è un vuoto contenitore che presta il fianco ad ogni tipo di irregolare falsificazione" (pp. 5-6) Da qui l'assoluta divaricazione fra poesia e verità, che porta il Berni ad un uso delle lettere comico, gergale, paradossale (pp. 1-6)

     Dal Dialogo contra i poeti emergono fondamentalmente "una serie di tensioni negative verso la cultura umanistica di curia con un significativo anticipo rispetto alla data tradizionalmente proposta, quella del sacco, dopo la quale tali istanze saranno accolte con organicità." Questo precoce atteggiamento verte essenzialmente sul rapporto fra "umanesimo classicista e cultura: attraverso la negazione dell'elemento retorico e pagano della poesia, con il parallelo approfondimento della sostanza morale e confessionale dell'agire intellettuale" (pp. 20-21)

     A questo punto, quindi, il "paganesimo eretico dei poeti" diventa il principale argomento di polemica, che a sua volta pone in evidenza il profondo aspetto religioso dell'opera (p. 23)
     Da qui la questione si allarga investendo criticamente "il progetto culturale dei papi Medici, indifferenti alle contraddizioni implicite nel confronto di un classicismo miscredente con l'ansia ormai urgente di una rinnovata religiosità" (p. 25)
     Se pensiamo, poi, al periodo in cui il Dialogo è stato composto (fine '25 - inizio '26) appare chiara l'influenza dell'ambiente, in cui il Berni lavorava, dominato dal suo padrone Giovan Matteo Giberti. L'intransigenza religiosa di quest'ultimo (nonché di un altro suo collaboratore e principale interlocutore del Dialogo, Giovan Battista Sanga) si collega sicuramente ad un generale ripensamento dell'umanesimo che va a scontrarsi con l'ufficiale cultura umanistica della curia romana (pp. 30-32)

     Rinnegando la sua produzione burlesca precedente il Berni cerca, in questi anni, l'unione "fra letteratura, morale storica e spiritualità cristiana" (ricordiamo, per esempio, il Comento al capitolo della primiera o il rifacimento dell'Orlando innamorato) (p. 34)
     Nonostante l'importanza poetica delle sue opere giovanili, è necessario separarle da buona parte della produzione posteriore dominata da una negatività di fondo, giustificata "in senso contenutistico" e dietro alla quale il paradosso e il riso non celano tanto un generale disimpegno, quanto un'amara consapevolezza dell'impossibilità di cambiamento e di azione sulla realtà (p. 38)

     Il clima riformista gibertino influenzò notevolmente il Berni, lasciando evidenti tracce nella produzione letteraria di quegli anni. Se si pensa, per esempio, al Comento al capitolo della primiera, al sonetto Contro l'essergli dati a forza versi e carmi (XXVIII) e poi ancora al Sonetto in descrizion d'una badia (XXXIV) o al Sonetto contra li preti (XLII) si nota, col passare del tempo, una progressione ideologica verso una chiara "militanza riformatrice" che coinvolge una nuova moralità cristiana della chiesa e che si ispira all'operazione svolta dal Giberti nella sua diocesi veronese. Negli anni '30, poi, la voce evangelica ed erasmiana del Berni emerge palesemente con i capitoli della Peste (LII, LIII), con il Capitolo in laude d'Aristotele (LIV), fino al Capitolo a fra Bastian dal Piombo (LXV) dove "la paura di una evidente rivelazione di eresia si fa scoperta" (vv. 52-54) (pp. 48-52)
 

ROMEI Berni e berneschi



     Per comprendere la spiritualità cristiana del Berni è fondamentale inquadrare le sue opere nella sua biografia e in particolar modo quelle dalle quali affiora la sua profonda e sofferta coscienza religiosa, poiché queste potrebbero a prima vista stupire se confrontate con l'impudenza e la spregiudicatezza delle Rime. Le opere in questione sono essenzialmente tre: il Comento al capitolo della primiera (1526), il Dialogo contra i poeti (fra il 1525 e il maggio 1527) e il rifacimento dell'Orlando innamorato (1527-1531). Le datazioni relative a questo "trittico" ci riportano al lungo periodo che il Berni trascorse al servizio del pio Giovan Matteo Giberti, il quale esigeva dai suoi sottoposti non solo una rigorosa disciplina del comportamento ma anche l'assoggettamento della letteratura a fini morali (in questo ambito, non a caso, trova posto una delle tematiche principali del Berni: il "primato [...] delle res sui verba", enunciato nel Dialogo e ribadito anni dopo nel capitolo dedicato a Michelangelo Buonarroti). Sono gli anni in cui il Berni prese le distanze dai capitoli di lode (vi tornerà solo più tardi, quando l'oneroso periodo gibertino starà per volgere al termine) orientandosi semmai verso la satira politica, consona al suo ufficio, e verso la progettazione di opere di maggior spessore ed impegno intellettuale e morale.
     Con la composizione del Comento il Berni mirò ad un'auto-giustificazione, alla giustificazione della sua passata attività, certo frivola e leggera ma innocente e comunque non destituita d'arte [il Romei ha attualmente abbandonato questa interpretazione]; nel Dialogo dichiarò addirittura di "spoetarsi", rinnegando coscientemente le sue "baie" ed esprimendo il suo ravvedimento, che egli sentì come vera e propria guarigione. Con la composizione del rifacimento, poi, cercò di mettere in pratica i suoi propositi facendo esplodere quella moralità che in se stesso percepiva (che solo il Giberti forse riuscì a stimolare) e piegando un famoso poema di intrattenimento in opera didascalica e quasi catechistica; la vera originalità del rifacimento sta proprio nella composizione di numerosissimi proemi, a sfondo morale e cristiano, che volgono il contenuto dei canti in perfette allegorie (funzione non facile se si pensa alla materia del poema e all'insofferenza che spesso l'autore sentiva per essa): ecco quindi che si ritrova la necessità di una poesia didascalica tanto vagheggiata nel Dialogo e certamente in linea con l'ambiente cristiano del cenacolo veronese. 
     Ad avvallare questa interpretazione del rifacimento Romei richiama la testimonianza di Pietro Paolo Vergerio, autore protestante di un opuscolo anticuriale, pubblicato nel 1554, nel quale compaiono diciotto stanze inedite ed alternative del rifacimento. Al di là della poca credibilità di alcune affermazioni del Vergerio e delle stanze da lui proposte nella loro interezza (quelle conclusive per esempio potrebbero essere veramente del Berni) è interessante e credibile la sua convinzione di un fine alto e nascosto del rifacimento contro lo scopo esclusivamente letterario dell'opera. In essa il Vergerio notava piuttosto una sentita "propaganda riformista" e un "serio e sincero impegno religioso". Allineando il riformismo gibertino con le idee (già nel Dialogo) contro un umanesimo esclusivamente letterario e ibrido di mitologia pagana e rito cristiano, queste discusse stanze vanno oltre, dichiarando l'assoluta inconciliabilità fra classicismo e fede ed aggredendo un umanesimo corrotto per volgersi interamente verso un'ascesi. A questo punto ciò che emerge dietro le avventure dei cavalieri non è altro che una profonda "dottrina evangelica" (pp. 22-28)

     Così con "la trilogia inquadrata fra gli anni 1525-1531 abbiamo dunque circoscritto il ciclo edificante della conversione e della disciplina, quando il Berni, fatto 'teatino e romito' e macerato dai 'digiuni in pane et in acqua' (come egli ambisce a presentarsi in una sua lettera di questo periodo [...] [a Maria Caterina Cybo]), lascia le letture profane del Burchiello e del Pistoia (con qualche ricaduta, in verità) per le lettere paoline e sembra lealmente impegnato nel programma di rinnovamento e di purificazione portato avanti da 'monsignore di Verona', cui poter demandare, con sottomessa umiltà, un ruolo di guida illuminata e di ispirato direttore di coscienza" (pp. 28-29)
     Ma l'animosità del Berni non si esaurisce qui. Già verso la fine del suo rifacimento l'insofferenza per quella vita claustrale cominciò a diventare intollerabile; non solo rinunciò alla pubblicazione del suo copioso lavoro, ormai pronto per la stampa, ma decise, dopo fughe, ripensamenti e relativi ritorni,  di abbandonare definitivamente la diocesi veronese tornando alla vita di corte ed alla poesia disperata, sconsacrante e paradossale dei capitoli di lode. A questo punto la parola ipocrisia potrebbe tacciare definitivamente la sua vita, ma oltre l'apparenza, alla quale non occorrerebbero altre spiegazioni, giace l'esistenza di un uomo tormentato e contraddittorio sempre in equilibrio fra la sua natura ribelle e polemica e il suo pudore morale radicato nelle rigide leggi cristiane. L'intento che dominò il rifacimento non fu che "l'estremo e fallimentare tentativo di salvare un ruolo costruttivo della poesia, l'ultima e perduta possibilità di riscatto di un intellettuale in contraddizione con se stesso. Né si deve pensare a una nuova apostasia dopo l'estremo naufragio: non mancheranno negli ultimi anni del Berni manifestazioni anche più esplicite di fervore religioso e candide e commoventi confessioni di fede rinnovata; ma la fede [...] mai più sarà capace di poesia" (pp. 31-32) Quello che gli restò dunque fu la perfidia del gioco e della burla sublimati nella totale negazione, in primo luogo di una cultura "delusoria", e nella rinuncia alla "speranza della salvezza letteraria" (p. 32)