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SACCO DI ROMA (1527)

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DEL TESTO

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TESTO

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TESTI



 

STUDI



 

ROMEI Introduzione



     Il 1527 fu l'anno del sacco di Roma; "gli orrori e le nefandezze [...] il Berni cercò di esprimerli ('Io vorrei dir, ma l'animo l'aborre [...]') in alcune stanze dell'Orlando Innamorato (I xiv 23-28); ne riportò certo, come tutti coloro che rimasero coinvolti nella catastrofe, cicatrici insanabili, che approfondirono l'amarezza che ristagna cupa sotto il gioco delle sue 'filastrocche e tantafere' e il disinganno delle pazzie degli umani. La risposta fu una più stretta adesione al rigorismo gibertino" (p. 12)
 

ROMEI Pas vobis, brigate



     L'Aretino compose, in occasione del sacco di Roma, una frottola divulgata con il titolo Frottola di maestro Pasquino, nella quale in bocca alla maschera emblematica della maldicenza troviamo "una cronaca grottesca che evade ed irride il decoro dei tragici accadimenti" del 1527 (p. 435). In essa non potevano mancare, trovandosi coinvolti direttamente nel sacco, il Berni e il suo padrone Giberti, quali soggetti eccellenti di una giubilante vendetta. Ai vv. 403-420 si legge:

     Non fanno più·lle spose
e cortigian[i] galanti,
anzi come furfanti       stanno i giotti,
     in tradimenti dotti;
dico la mala setta:
in ca[u]sa maladetta       è Giammatteo,
     il Sanga arciplebeo,
ch'ha·lla suora in bordello,
e 'l Berna, suo fratello       e 'l traditore,
     anch'egli en grave favore
per fottere il padrone,
e perché il bardassone       all'Aretino
     diede, per uom divino
l'ha 'l datario tenuto;
ora a·dDio n'è 'ncresciuto       tanto male,
     e vanno allo spedale,
per li aspri portamenti,
e Cristo dà e tormenti       equali al merto.

     In questi versi prorompe il tripudio vendicativo per gli avvenimenti romani, interpretati come giusta punizione divina. Brucia ancora il ferimento che l'autore subì per mano di un servitore di Giovan Matteo Giberti, dall'Aretino identificato sempre come il mandante dell'attentato. Proprio a questi versi (precisamente ai vv. 409-410) risponderà il Berni nel suo sonetto Contra Pietro Aretino, "quando, svergognate le sorelle che Pietro avrebbe 'nel bordel d'Arezzo a grand'onore', aggiunge: 'Di quelle, traditore, / dovevi far le frottole e novelle, / e non del Sanga, che non ha sorelle' (vv. 27-29)" (p. 466)
 

VIRGILI



     Il sacco dei colonnesi portò Clemente VII ad un accordo filo-spagnolo imposto con la forza, il quale venne, però, interrotto poco tempo dopo dal papa stesso, tornando ad aderire alla Lega Santa. La Francia prometteva grandi elargizioni di denari e d'armi (anche se le promesse rimasero tali). L'imperatore si trovava angustiato economicamente, tant'è vero che il suo esercito che occupava la Lombardia rifiutava di muoversi da Milano per la mancanza di paghe. Insomma tutto faceva sperare per il meglio, quando Clemente VII, impaurito per varie ragioni, cominciò nuovamente a "tentennare" pensando ad un accordo con Carlo V. Fra l'altro, molti suoi consiglieri, escluso il Giberti, spingevano dalla parte imperiale (in relazione a queste vicende si ricorda un famoso sonetto del Berni intitolato Sonetto di Papa Chimente), invasi di paura per l'avanzata sul territorio italiano dei Lanzichenecchi arruolati a proprie spese dal Frundsberg. Così il papa, abbandonata la Lega e speranzoso di pace, concluse un armistizio (il 16 marzo 1527) con il vicerè di Napoli Charles de Lannoy, che implicava anche i Lanzichenecchi; ma questi, ricongiuntisi con gli spagnoli di Milano, proseguirono imperterriti la loro marcia verso Roma (pp. 167-174) 

     Il 6 maggio del 1527 Roma fu presa al primo assalto e terribilmente saccheggiata per mesi per mano di spagnoli e tedeschi. Il papa era in pratica prigioniero in Castel Sant'Angelo (p. 183) 

     Nel canto quattordicesimo del rifacimento il Berni inserisce alcune stanze (XIV 23-28) nelle quali ricorda gli avvenimenti del maggio 1527. "I primi onori sono meritatamente dati agli spagnoli, che in prove di ferocia, d'avarizia e libidine superarono tutti [...]. I tedeschi, venuti per così lungo cammino, che da tanti mesi pativano le più dure necessità della vita, sfogarono principalmente, come luterani, il loro odio [...] contro cose e persone della fede cattolica [...]. [Gli italiani] non furono certo [...] da meno degli altri, e con questo di più, [che si fecero] parricidi contro la città loro più illustre, in nome di un imperatore tedesco e re di Spagna. [...]
     All'orrore [...] d'ogni soverchieria e prepotenza a danno dei deboli, si aggiunge qui un altro sentimento non meno vivo, cioè l'odio agli stranieri" (si veda anche il Proemio al canto XVII) (pp. 179-180)
     In questi brani il Berni tralascia il suo "solito impeto [...]: parla calmo e severo [...], semplice e nudo, come chi senta bastargli i fatti che espone, e che impeto di poesia debba uscire dal solo narrarli" (p. 179). La verità storica si espande qui in tutta la sua crudezza.
     "[...] Quanto a sé, benché abbia dovuto averne assai danno, egli non si duole d'altro che d'averlo veduto" (p. 183)