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BERNI XLI 1-6 [II xii 1-6] |
BOIARDO II xii 1-5 |
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1 Io ho sentito dir parecchie volte, Che più fatica è tacer, che parlare: Quantunque alle ignoranti genti stolte Strana proposta questa forse pare; Né sia chi innanzi mi ponga le molte Orazioni, ed altre opere egregie e rare Di Tullio e di Demostene, e di tanti Autor dotti, eloquenti ed eleganti; 2 Né chi m'alleghi un valente avvocato, Un che esprimer ben sappia i suoi concetti, Che senza ch'alcun sia del suo fraudato, Della laude cioè de' suoi be' detti; Dirò, che quando egli hanno anche ciarlato Meglio era lor tenere i labbri stretti; Ché lasciando la briglia all'eloquenzia, Fatto han de' loro error la penitenzia. 3 Omero, il quale è 'l re degli scrittori, Dice che le parole han tutte l'ale; E però, quando alcuna uscita è fuori, Per trarla indietro il fil tirar non vale. Dal cicalar son nati molti errori, Molti scandali usciti e molto male: Pochi si son del silenzio pentiti; Dell'aver troppo parlato, infiniti. 4 Diciamo adunque che non è men bello Il saper ben tacer, che 'l parlar bene; E ch'esser mostra poco savio quello Che i suoi segreti in sé stesso non tiene; Ma colui privo al tutto di cervello, E debil molto e tenero di schiene, Ch'ad una donna (sia chi vuol) gli dica, Perch'a tener le duran gran fatica. 5 Perdonatemi, donne, in questo caso Parlo del tener vostro solamente: Avete troppi buchi al vostro vaso, E sete ragionevol bestialmente. Però quel Greco, al quale era rimaso Questo consiglio, a far colui prudente, Che la casta mogliera aspetta e prega, Il conferir con lei gli vieta e niega, 6 Dicendo che imparar debbia da lui, Il qual la donna sua fece morire Per conferir con essa i pensier sui. Potriasi questo ad Orlando anche dire, Che dato fu nelle man di colui; Anzi a posta si fe' quasi tradire Da quella trista, alla qual pazzamente Conferì i suoi segreti e la sua mente: 7 Dico quella Origilla traditrice, Che tenendo a Grifon la fantasia, Quel che l'ha tratto il cor dalla radice, Al re ne va la scelerata e ria; E ciò che Orlando a lei segreto dice Di voler que' prigion far fuggir via, E le cose ordinate tutte quante La ribalda rapporta a Monodante. |
1 Stella de amor, che 'l terzo cel governi, E tu, quinto splendor sì rubicondo, Che, girando in duo anni e cerchi eterni, De ogni pigrizia fai digiuno il mondo, Venga da' corpi vostri alti e superni Grazia e virtute al mio cantar iocondo, Sì che lo influsso vostro ora mi vaglia, Poi ch'io canto de amor e di battaglia. 2 L'uno e l'altro esercizio è giovenile, Nemico di riposo, atto allo affanno; L'un e l'altro è mestier de omo gentile, Qual non rifiuti la fatica, o il danno; E questo e quel fa l'animo virile, A benché al dì de ancoi, se io non m'inganno, Per verità de l'arme dir vi posso Che meglio è il ragionar che averle in dosso, 3 Poi che quella arte degna ed onorata Al nostro tempo è gionta tra villani; Né l'opra più de amore anco è lodata, Poscia che in tanti affanni e pensier vani, Senza aver de diletto una giornata, Si pasce di bel viso e guardi umani; Come sa dir chi n'ha fatto la prova, Poca fermezza in donna se ritrova. 4 Deh! Non guardate, damigelle, al sdegno Che altrui fa ragionar come gli piace; Non son tutte le dame poste a un segno, Però che una è leal, l'altra fallace; Ed io, per quella che ha il mio core in pegno, Cheggio mercede a tutte l'altre e pace; E ciò che sopra ne' miei versi dico, Per quelle intendo sol dal tempo antico: 5 Come Origilla, quella traditrice, Qual per aver Grifone in sua balìa (Ché il cor gli ardea d'amor ne la radice) A Manodante andò, la dama ria; E ciò che Orlando a lei secreto dice Per trar fuor quei baron de pregionia, E le cose ordinate tutte quante, Lei le rivela e dice a Manodante. |
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