Banca Dati "Nuovo Rinascimento"


LETTURE DEL SONETTO
I' ho già fatto un gozzo in questo stento
DI MICHELANGELO BUONARROTI


GLAUCO CAMBON, La poesia di Michelangelo. Furia della figura, trad. it. di Paola Ternavasio, Torino, Giulio Einaudi Editore («Piccola Biblioteca Einaudi», 553), 1991, pp. 3-13 [il testo originale: Michelangelo's Poetry. Fury of Form, Princeton, University Press, 1985]





Nel 1898 Heinrich Wölfflin espresse così la sua perplessità sugli affreschi della volta della Cappella Sistina, da lui appena definiti un trionfo di vitalità:

Se le figure della volta non tradissero così chiaramente la gioia dell'artefice, si sarebbe disposti a pensare che Michelangelo abbia voluto sfogare il suo cattivo umore e vendicarsi del faticoso compito: quei signori del Vaticano avrebbero avuto la loro volta, ma si sarebbero dovuti torcere il collo per guardarla.

Che Wölfflin ci pensasse o meno scrivendo quel commento, un componimento burlesco dello stesso Michelangelo manifesta il risentimento altrimenti non riscontrabile nei giganti sovrastanti, nati dal suo pennello durante gli anni di quella fatica erculea (1508-12). È un sonetto caudato famoso, scritto nello stesso periodo, apparentemente non destinato alla pubblicazione (a differenza di tanti altri) ed è visivamente corroborato da uno schizzo in cui l'artista fa una caricatura di sé, intento a dipingere una volta proprio sul suo capo. Il componimento si trova nell'Archivio Buonarroti della Biblioteca Laurenziana di Firenze, ma le edizioni critiche della poesia di Michelangelo del Guasti (1863) e di Frey (1897) avevano ampiamente divulgato questo fatto al momento in cui Wölfflin pubblicò il suo libro sull'arte italiana rinascimentale:

I'o gia facto un gozo in questo stento
chome fa l'acqua a' gacti in Lombardia
o ver d'altro paese che si sia
ch'a forza 'l ventre apicha socto 'l mento.    4
    La barba al cielo ella memoria sento
    in sullo scrignio e'l pecto fo d'arpia.
    e'l pennel sopra'l uiso tuctavia
    mel fa gocciando un ricco pauimento.       8
E' lombi entrati mi son nella peccia
e fo del cul per chontrappeso groppa
e' passi senza gli ochi muouo inuano.         11
    Dinanzi mi s'allunga la chorteccia,
    e per piegarsi indietro si ragroppa,
    e tendomi com'archo soriano.              14
Però fallace e strano
surgie il iuditio che la mente porta
ché mal si tra' per cerboctana storta.        17
    La mia pictura morta
    difendi ormai Giovanni e'l mio onore
    non sendo in loco ben né io pictore.      20

Poiché per prove e dati biografici si tende a far risalire l'inizio dell'opera poetica di Michelangelo agli ultimi anni del 400 o ai primi del 500 (essenzialmente 1502), questo sonetto appartiene alla prima fase poetica, e non al maturo raccolto degli anni decisamente romani (tra il 1530 e il 1550), che videro la passione di Michelangelo per Tommaso Cavalieri e Vittoria Colonna e la solidarietà con compatrioti fiorentini come Luigi del Riccio e Donato Giannotti. Il sonetto burlesco potrebbe dunque sembrarci del tutto marginale rispetto al corpo centrale dell'opera poetica buonarrotiana, e parte integrante del tirocinio letterario, visto il prevalere di un trasporto platonico nei temi e nello stile della maturità. È questo trasporto con le relative planate, sublimazioni e contorsioni, che ci viene per primo in mente quando pensiamo al poeta Michelangelo, e non lo consideriamo essenzialmente un rozzo scrittore bernesco, nonostante l'ammirazione che Berni professava per il suo stile (tutto cose e niente parole fini a se stesse) - un'ammirazione che non si limitava alle parti burlesche del canzoniere di Michelangelo.

Ora, la relativa importanza e proporzione di scritti comici rispetto a quelli seri nel canone buonarrotiano, per quanto di gran lunga inferiore che nel caso del Berni o di Lorenzo de' Medici (patrocinatore di Michelangelo e nelle veci di padre negli anni di formazione tra il 1489 e il 1492), richiede un'analisi approfondita. Innanzi tutto, la vena comica non si prosciuga interamente dopo la fase iniziale di Michelangelo; non la si può ridurre a mero tirocinio, anche se il suo talento letterario si sviluppa per lo più in una direzione totalmente diversa. Basta semplicemente riferirsi al sorprendente capitolo ternario degli anni quaranta, in cui l'artista si prodiga con umore saturnino in un'autocaricatura, che lo ritrae nello spiacevole connubio di isolamento, lerciume, rabbia repressa, cattiva salute e lavoro estenuante. E poi c'è il tardo sonetto scritto per Giorgio Vasari come nota di ringraziamento per alcuni regali utili (un mulo e varie vettovaglie), anche se qui l'umore è gioviale non ipocondriaco. In maniera analoga ci si può riferire anche all'opera precedente, ed in particolare alle tre stanze in ottava rima (G 20, dal 1518-24) che echeggiano chiaramente l'idillio comico rustico della Nencia da Barberino di Lorenzo de' Medici, e poi alle stanze incomplete ed intonate similmente nel G 54 del 1531-32, e all'affabile capitolo ternario G 85 del 1534 per Francesco Berni.

A parte le statistiche e la cronologia, ci sono altri aspetti da prendersi in considerazione. L'arguzia tipicamente toscana che sempre accompagna Michelangelo, è confermata da Vasari e da Condivi, e fu coltivata sicuramente nell'entourage di Lorenzo ai giardini di San Marco. Lì Pico della Mirandola, Cristoforo Landino e Marsilio Ficino familiarizzarono lo scultore apprendista con i principi essenziali del pensiero platonico, mentre Angelo Poliziano e lo stesso Lorenzo gli dispensarono una buona dose di spirito vernacolare per rinvigorire la sofisticata dieta letteraria offertagli quotidianamente alla tavola Medici. La simpatia di Lorenzo e Poliziano per il gusto popolaresco toscano è ben nota e ampiamente testimoniata da parte della loro migliore poesia, oltre ad essere compatibile con la loro erudizione umanistica. Le variazioni michelangiolesche sul tema e modo rustico laurenziano delle stanze in forma di strambotto, a cui si accennava prima, sono uno dei risultati di quella proficua frequentazione ed una prova dei suoi benefici; infatti nella transizione da G 20 a G 54 si verifica una lievitazione e certe forme dell'esposizione e delle immagini rivelano una consonanza con molti aspetti del canzoniere. Lo stesso si può dire del sonetto differentemente orchestrato, citato in precedenza, che non presenta nulla di immaturo o di incerto e formula motivi ricorrenti nelle Rime. Il lessico vivace e le espressioni idiomatiche sveltiscono la dizione. Quella che udiamo è una pungente voce fiorentina, che arriva dritta dalla piazza del mercato, e se fa del personaggio il suo bersaglio riflesso è perché può ridere dell'umanità intera. La risata ha il tratto feroce della satira, senza intenti moralizzanti; è rabbia volta all'incontrario con il risultato che la caricatura del soggetto che si autopunisce suscita un'ilarità catartica. La descrizione realistica si spinge per iperbole ad un effetto quasi allucinatorio - un processo che culmina nel capitolo degli anni quaranta, con il suo tema e modo analogo di dipingere un autoritratto negativo che è anche il ritratto dell'opposto michelangiolesco, la sua voce sotterranea.

Violentemente sotterraneo e fiorentino, il sonetto non si può scindere dalla sua occasione, il lavoro prolungato nella Roma di Giulio II. Questo medesimo impiccio, sempre che si accetti la datazione del 1512 del Girardi, suscitò anche un'aspra invettiva del poeta nel sonetto G 10. [NOTA DEL CURATORE] Seccato del temperamento dispotico e imprevedibile di Giulio II (e se ne veda la rimostranza espressa nel sonetto G 6) ed indisposto dagli sfacciati intrighi della corte romana, Michelangelo non poteva che sentirsi profondamente solo. Così soleva esplorare la sua terra natia per trovar conforto in quel dialetto popolare che rappresentava lui stesso, le sue radici, la sua città abbandonata. La smodata gaiezza di quelle parole tipiche del lungarno, «gozzo», «scrigno», «peccia», «cul», «corteccia», parole da far inorridire gentiluomini esangui e puristi petrarcheschi; parole non solo da sentirsi, ma da percepirsi nella loro qualità tattile, come argilla da modellarsi in forme bizzarre o da gettarsi contro sgradevoli estranei; la schiettezza delle affermazioni; l'insulto liberatorio - erano tutta una cospirazione epistolare con il sagace toscano Giovanni da Pistoia, che avrebbe ricevuto molte di queste missive confidenziali da Michelangelo.

Si renderebbe poca giustizia al sonetto se lo si considerasse un mero esercizio letterario nella nota tradizione fiorentina che risaliva fino a Cecco Angiolieri, due secoli prima, ed a Rustico di Filippo, e come se la finzione non avesse nulla a che fare con il nostro autore divertito ed infuriato. Michelangelo fu sempre un artista attento in qualunque cosa intrapresa, incluso l'esercizio letterario, ma tale esercizio aveva anche delle motivazioni profonde. L'approccio confessionale era intrinseco a tutti i suoi scritti, anche i più artificiali. Inoltre è utile osservare che questo componimento - per quanto sia stato generalmente considerato un anello nella catena intermittente del verso «bernesco» di Michelangelo - prese forma molto prima che l'autore venisse a conoscenza di Berni, a quel tempo ancora adolescente. Michelangelo, che ricevette un'istruzione letteraria, oltre a una solida preparazione in pittura e scultura, verso la fine del secolo si dedicò ad un prolungato studio dei classici in vernacolo, e specialmente di Dante e Petrarca (come riferisce Condivi nella sua biografia). Una lirica del 1534 (G 84) mostra la conoscenza dei tre stili (basso, medio, alto) in letteratura, e possiamo riconoscere all'autore la perspicacia necessaria a soddisfare i requisiti dell'arte intrapresa per ultima, per praticarla con la fedeltà di quasi una vita intera (cioè fino al 1560). Come nelle altre arti che egli conosceva a fondo, la disciplina di artigiano l'aiutò a rendere il mezzo trasparente e duttile al proprio fuoco interiore. Scrivere costituiva una sfida, non un passatempo.

Non c'è dubbio che nello stile «basso» vernacolare scelto per lo sfogo espressivo del sonetto G 5, il mezzo si adeguava prontamente al motivo per facilitare l'affiorare nella pagina dell'uomo sotterraneo michelangiolesco. Nel manoscritto non ci sono varianti o cancellature [una veramente sì (nota del curatore)] e, che si sappia, non esistono altre stesure. Abbiamo finora trascurato un aspetto di questo personaggio bizzoso, ed è l'intensità con cui la sua ribellione coinvolge l'arte stessa da lui praticata, e non unicamente quel papa formidabile che l'aveva costretto ad essa. La rinuncia finale di Michelangelo alla qualifica di pittore non si può prendere alla lettera, se solo pensiamo alla volta della Cappella Sistina, risultato sbalorditivo di una sfacchinata tutta a spese della sua schiena; neppure le sue dichiarazioni epistolari di preferire la scultura alla pittura ci faranno dimenticare che era entrato seriamente in competizione con altri artisti per assicurarsi questo incarico, dovendo nel contempo impegnarsi nella programmazione ed esecuzione del progetto che per più di tre decenni sarebbe stato il suo albatro di marmo: la tomba monumentale di Giulio II. Anziché compromettere il nostro impegno interpretativo, questi elementi biografici ci facilitano nella comprensione del componimento che prese la forma di una comunicazione privata con un amico perfettamente al corrente della situazione. Tutto ciò che possiamo fare è spiare questo fitto scambio. Le terzine che riprendono il tema con una vena analoga (G 267) circa trentacinque anni dopo, ci offriranno meno scambi confidenziali e più rivelazioni immediate, poiché il personaggio parlerà esplicitamente a se stesso anziché rivolgersi con fare cospiratorio ad un corrispondente; e parlando a se stesso valuterà severamente, anche se con ironia, ciò che è e ciò che ha fatto.

Intanto, se consideriamo la conversazione privata tra Michelangelo e Giovanni da Pistoia, in un intervallo del lavoro incessante del pittore, perveniamo ad un sorprendente quadro informale. Il gigante diviene nano, il sublime artista fa la parte di «angelo del bizzarro» per alleggerire l'impegno che si è assunto. Si tratta probabilmente di un gioco liberatorio, poiché l'autocaricatura distruttiva ha un'impronta vigorosa e la voce in sordina sprigiona una vivacità che contrasta con il messaggio letterale. Eppure le terzine di coda ci impediscono di considerare il sonetto nel suo insieme come una semplice chiacchiera scherzosa, tanto sono serie. Ma lo sono davvero? La loro serietà non è invece una nuova maschera, una più sottile contraffazione di tono? Il nostro giudizio oscilla sulla bilancia, come quello «fallace e strano» dell'autore. L'autoironia convoglia una protesta, e la protesta a sua volta non riesce a soffocare la curiosa ilarità dell'intera scena. L'autosmitizzazione di Michelangelo e della sua opera migliore è clamorosa e, anche se in quel processo ha minimizzato la propria figura per fare risaltare le maestose immagini con cui popola la volta micidiale, la risata rimane pur sempre colossale. Egli sembra voler liquidare tutto lo sforzo con un gesto annoiato; tuttavia, l'incongruità tra quel gesto e il risultato permanente dello sforzo così sminuito non può che accrescere il nostro stupore per il genio nascosto, che è riuscito al tempo stesso a liberare tale energia illimitata ed a schernire impietosamente il procedimento. Nonostante i suoi sforzi l'uomo sotterraneo non riesce a convincerci della sua pochezza. È il genio della bottiglia, come chiarirà il componimento G 267 posteriore al 1545:

   I' sto rinchiuso come la midolla
da la sua scorza,qua pover e solo,
come spirto legato in un'ampolla...

L'immagine correlata di polpa e buccia si profila già nella seconda terzina del sonetto del 1511-12:

   Dinanzi mi s'allunga la chorteccia
e per piegarsi indietro si ragroppa,
e tendomi chom'arco sorïano.

Il termine «corteccia» (dal latino cortex) è polivalente; in questo contesto denota metaforicamente la pelle dell'uomo (e ciò ha fatto venire in mente ad alcuni studiosi, specialmente a Robert Clements, la pelle di S. Bartolomeo nel Giudizio Universale della Sistina, santo che Michelangelo rese con un curioso autoritratto. Tuttavia, il significato primo del termine è di ordine vegetale e denota o la buccia di un frutto o il rivestimento di un albero, ed in questo senso il suo sinonimo «scorza» ricorre non solo nelle terzine burlesche del G 267 ma anche in alcuni madrigali di tono elevato, in particolare G 152 e G 158, con uguale sottinteso autodenigratorio:

Tal alcun'opre buone,
per l'alma che pur trema,
cela il superchio della propria carne
co' l'inculta sua cruda e dura scorza (G 152)
Caduto è il frutto e secca è già la scorza,
e quel, già dolce, amaro or par ch'i' senta (G 158)

Clements collega questa immagine ricorrente (si veda anche G 51) al tema saliente della forma in potenza, nascosta nel blocco di marmo ed in attesa di essere liberata dal mazzuolo e dal cesello dello scultore; il tema ha un correlativo metaforico nell'anima redenta, impaziente di abbandonare il guscio di carne e di peccato che l'avvolge (e il madrigale 152 convalida questo nesso).

Su un piano di sviluppo diverso, nelle terzine burlesche della fine degli anni quaranta l'immagine anticipa quella culminante del genio nella bottiglia mentre nel sonetto caudato del 1511-12 si modula nella similitudine dell'arco siriano. E qui si può notare una consonanza con il verso sentenzioso abbozzato da Michelangelo dieci anni prima su un foglio con due schizzi del David:

Davicte colla fromba e io coll'arco
                      Michelagnolo.

Anche se accettiamo l'interpretazione di Girardi, secondo la quale la fionda rappresenta la forza e l'arco l'ingegno, non è affatto erroneo scorgere una somiglianza di senso e funzione nella similitudine comica dell'arco, così come l'impiega il sonetto: infatti essa denota elasticità, ossia un insieme di forza e intraprendenza da parte del personaggio, grottescamente impegnato a lottare. Ciò determina la differenza tra totale disfatta e sopravvivenza, e proprio a dispetto del sarcasmo crudele e meditato. Delinea inoltre uno schema dinamico che caratterizza i ritmi sintattici di Michelangelo e l'effetto poetico complessivo: torsione, tensione ed improvvisa distensione. Né tale schema è irrilevante per quella figura «serpentinata» che Lomazzo individua come norma specifica nel disegno pittorico e scultoreo di Michelangelo e che contraddistingue infatti gran parte della sua arte figurativa.




immesso in rete il 20 dicembre 1995