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STUDI



 

LONGHI



     Un elemento ricorrente nel capitolo bernesco (utilizzato come invettiva o satira) è riscontrabile nella premura dell'autore "di definire per contrasto il carattere normale dei suoi ternari, immuni dal 'dir male' [si veda il capitolo XVI contro papa Adriano], cioè privi di male intenzioni, alieni dalla volontà di nuocere. Il Berni salvaguarderà questa programmatica 'innocenza' del capitolo in tutta la produzione successiva; e distillerà invece i suoi veleni più mortali nel metro del sonetto" (p. 10) 
 

ROMEI Introduzione



     "Ben presto [...] la poesia bernesca appare in movimento. Dopo il tentativo isolato del capitolo del Diluvio (V) [...], attorno agli anni '21-22 si attesta un gruppo compatto di otto capitoli (VII-XIV), che segnano un momento nuovo e capitale" (p. 6)

     "[...] Nella storia della poesia del Berni il capitolo e il sonetto rappresentano filoni distinti e di saltuaria e precaria comunicazione: marcati da una separatezza (che le prime edizioni sanciscono materialmente) che per lo più è anche cronologica [...]. E si dirà subito che il capitolo è la forma nuova [...], a partire proprio dai capitoli del '21-22, con l'ibrida avanguardia del Lamento di Nardino (VI).
     Sono composizioni di apparenza stravagante, che assumono, per una sorta di sublimazione retorica, l'ostinato e risibile impegno di celebrare magnificamente oggetti vilissimi: i 'ghiozzi', le 'anguille', i 'cardi', le 'pesche', l''orinale', la 'gelatina', l''ago', la 'primiera'. Per questo verso, i capitoli rivelano una trasparente dipendenza dai modi dell'encomio paradossale classico e umanistico e trovano precedenti immediati ed illustri: [...] solo dieci anni prima, tornando proprio da Roma, il dotto Erasmo da Rotterdam aveva scritto l'irriverente Elogio della follia" (pp. 6-7)

     "[...] Gli squalificati bersagli della lode manifestavano subito, con divertito effetto di sorpresa, la loro vera natura di metafore sessuali, e degli oggetti più osceni ed infami, delle operazioni più turpi e deteriori. Il Berni aveva subdolamente incrociato la struttura dell'encomio paradossale con le malizie del canto carnascialesco fiorentino, di rito appunto mediceo e segnatamente laurenziano [...], inaugurando un genere nuovo. E la trovata [...] ebbe un successo strepitoso" (p. 7)

     "La poesia del Berni si trascina dietro da ben più d'un secolo un'etichetta di realismo popolaresco [...]. Ma la lettura dei capitoli di lode [...] la smentisce clamorosamente: è una poesia enigmatica, che punta tutto sull'ambiguità, una poesia ingegnosa e sorprendente, costruita su una cifra di acutezza intellettuale che l'esito furbesco delle metafore e il travestimento plebeo del linguaggio (ma disseminato di prestiti colti [...]) non possono in alcun modo smentire. [...]
     Ed è certamente un umanesimo trasgressivo. [...] Gli oggetti dei capitoli manifestano [...] sfiducia nella possibilità di trovare materia decente di lode e irridono [...] a coloro che la lode poetica praticavano senza ritegno, i colleghi di corte e di studi" (pp. 7-8)

     Con la morte di Leone X, nel 1521 fu eletto papa Adriano VI estraneo alla corte e odiato dai cortigiani. "Il Berni scagliò contro il papa un lungo capitolo (XVI). Un acerbo risentimento [...] si rovescia in una piena di sarcasmi e di vituperi, talvolta pungenti, spesso semplicemente calunniosi, che non risparmiano niente e nessuno e accomunano eletti ed elettori [...]. È una poesia per statuto denigratoria - [...] che si accende talora di trovate ingegnose, ma più spesso si accontenta di ripetere formule collaudate e si esalta, comunque, nella violenza del linguaggio e nella perentorietà dell'insulto - quella che il Berni apprende e ripete. Ma il capitolo di papa Adriano non trova precedenti quanto ad ampiezza e complessità di discorso e mobilità di lingua e di stile" (pp. 8-9)

     Nel 1523 il Berni viene allontanato da Roma a causa di un amore omosessuale e forse anche a causa del capitolo suddetto.

     Nel 1526 il Berni pubblica "il capitolo della Primiera con l'aggravante di un diffuso commento [...]. L'opera, la più sorniona, forse, e ambigua fra le sue [...]" (pp. 10-11).

     A Verona, dopo le invettive del 1527, fra le quali la maggiore è quella contro Pietro Aretino (XXXII), proseguì la "produzione giocosa" affidata al sonetto e al capitolo. A quest'ultimo "è consegnato il nuovo genere della poesia epistolare, inaugurato proprio in quegli anni (XXXV, XXXVI [...])" e ispirato al modello oraziano e ariostesco. È un genere caratterizzato da "un'accentuazione familiare e colloquiale [dell'espressività] che esclude per principio qualsiasi messaggio impegnativo e intensifica la divertita mimesi delle forme istituzionali della lettera (come la clausola del XXXVII: 'Vo' che tu m'imprometti / ch'io ti rivegga prima che si sverni. / Mi raccomando, tuo Francesco Berni'). E aggiunse la cordialità e la tenerezza amichevole che gli sono proprie, sotto la vernice scanzonata della burla ([...] [cfr.] Innam. III vii 42 4-5); e insieme un senso angoscioso della precarietà dei tempi e dell'insicurezza degli affetti: 'Messer Francesco, se voi sète vivo / (perch'i' ho inteso che voi sète morto) [...]' (XXXV 1-2); 'Io ho sentito, Giovan Marïani, / che tu sei vivo [...]' (XXXVII 1-2)" (pp. 14-15)

     "Ma il componimento più fortunato della serie sarebbe rimasto un capitolo [...], il celebratissimo del Prete da Povigliano, che alla consueta ingegnosità descrittiva accompagnava una sapienza narrativa di evidente apporto umanistico [...] e trovava modo di ospitare, fra le sue raffinate esibizioni, perfino una dotta disquisizione filologica (LI 178-89)" (pp. 15-16)

     "L'insofferenza, sempre più acuta, per la 'suggezione in che stava in Verona' (XLV) [...] faceva sì che il Berni meditasse la defezione e si attentasse a praticarla nel 1531, trasferendosi per qualche tempo a Padova e inaugurando con il capitolo Alli signori abbati (che sotto il pretesto di un'intenzione platonica dispiega - di nuovo - una trama scherzosa di equivoci sessuali) un'epoca nuova della sua poesia.
     Tornato poco dopo a Verona, marcando il definitivo distacco dall'ideologia gibertina, tornava alla poesia matta e disperata - incredula, ormai, di ogni riscatto e di ogni impegno edificante - dei capitoli di lode; non più equivoca, peraltro, ma schiettamente paradossale. Scelto ad interlocutore il maître della magra cucina del Giberti (coprotagonista delle stanze 'autobiografiche' dell'Innamorato e della mitizzazione del 'letto' che vi si celebra), il Berni cantava due volte la peste e il debito e - a rovescio - Aristotele. Architettava un 'mondo capovolto' [...], una società rovesciata in cui 'sei di te stesso e de gli altri signore' e in cui si vive 'con nuove leggi e patti' (LII 109-12): contro ogni vulgata opinione, niente di meno che il 'secol d'oro' ed il 'celeste / stato innocente primo di natura' (LII 143-44). È la poesia dove gli acidi intellettuali del Berni sono più scoperti" (p. 16)

     La produzione poetica dell'ultimo periodo della sua vita comprende due capitoli offerti "in caparra" al cardinale Ippolito De' Medici (LVI-LVII), "due notevoli epistole poetiche: famoso il capitolo A fra Bastiano (LXV) per l'omaggio a Michelangelo, ma assai più raffinato quello A Baccio Cavalcanti (LX), con quel saporoso autoritratto in veste di Margutte [...] e pur venato di tenere memorie, e con quell'immagine di uno stravagante corteggio di prelati che si avviano, 'cantando come pazzi', a un'allegra e 'glorïosa impalazione'" (p. 18)
 

ROMEI Orlando



     È interessante "il paradigma dottrinale su cui si aggrumano i due capitoli della Peste. E credo che sia uno snodo fondamentale nella personalità e nell'opera di Berni. [...] L'Innamorato XXXVI [II vii] 1-6 (ma anche altrove) pontifica:

Le cose che son sotto e sopra 'l sole
fatte da Dio, son tutte sante e buone;
e se talor d'alcuna l'uom si duole,
sappiate che si duol senza ragione [...].
(1 1-4)

     Da questa affermazione corretta, ortodossa, ottimistica, rassicurante, il Berni ricaverà [...] che la peste è un bene e che il 'tempo della peste' è addirittura l'età dell'oro, il 'celeste / stato innocente primo di natura' (Peste I 143-144). Dopo aver suggerito una sorta di fondamentale ambivalenza della natura ('che par benigna a un tratto e crudele' [Peste II 51]), immediatamente si corregge applicando il postulato della perfetta ortodossia:

Par, dico, a qualche pecora smarrita:
vedi ben tu che da lei non si cava
altro che ben, perch'è bontà infinita.
               (Peste II 52-54)

E subito ne deriva il perfido corollario:

Trovò la peste perché bisognava...
               (Peste II 55)"
                    (p. 17)