INDICE
   BERNI  LXVII 36-57 [III vii 36-57]

   BOIARDO  III vii 29-30
 

PREMESSA

INDICE
DEL TESTO

NOTA
AL TESTO

BIBLIOGRAFIA

SIGLE

PERSONE

SOGGETTI

Rime
 

35
A suon di trombe quivi si ballava
Un certo ballo che di qua non s'usa;
Nel contrapasso l'un l'altro baciava,
Né si potea tener la bocca chiusa:
In cotal atto si dimenticava
Ognun sé stesso, ed io ne fo la scusa;
Ché non credo che incanto sia maggiore,
Ch'a bocca aperta un bel bacio d'amore.
36
Quivi era, non so come, capitato
Un certo buon compagno fiorentino;
Fu fiorentino e nobil, benché nato
Fusse il padre, e nutrito in Casentino;
Dove il padre di lui gran tempo stato
Sendo, si fece quasi cittadino,
E tolse moglie, e s'accasò in Bibbiena,
Ch'una terra è sopr'Arno molto amena.
37
Costui ch'io dico, a Lamporecchio nacque,
Ch'è famoso castel per quel Masetto;
Poi fu condotto in Firenze, ove giacque
Fin a diciannove anni poveretto;
A Roma andò da poi, com'a Dio piacque,
Pien di molta speranza e di concetto
D'un certo suo parente Cardinale,
Che non gli fece mai né ben né male.
38
Morto lui, stette con un suo nipote,
Dal qual trattato fu come dal zio;
Onde le bolge trovandosi vote,
Di mutar cibo gli venne disìo;
E sendo allor le laude molto note
D'un che serviva al Vicario di Dio
In certo officio che chiaman Datario,
Si pose a star con lui per secretario.
39
Credeva il pover uom di saper fare
Quello esercizio, e non ne sapea straccio:
Il padron non poté mai contentare;
E pur non uscì mai di quello impaccio:
Quanto peggio facea, più avea da fare;
Aveva sempre in seno e sotto il braccio,
Dietro e innanzi di lettere un fastello,
E scriveva, e stillavasi il cervello.
40
Quivi anche, o fusse la disgrazia, o 'l poco
Merito suo, non ebbe troppo bene:
Certi beneficioli aveva loco
Nel paesel che gli eran brighe e pene:
Or la tempesta, or l'acqua ed or il foco,
Or il dïavol l'entrate gli ritiene;
E certe magre pensïone aveva,
Onde mai un quattrin non riscoteva.
41
Con tutto ciò viveva allegramente,
Né mai troppo pensoso o tristi stava:
Era assai ben voluto dalla gente;
Di quei signor di corte ognun l'amava,
Ch'era faceto, e capitoli a mente
D'orinali e d'anguille recitava,
E certe altre sue magre poesìe,
Ch'eran tenute strane bizzarrìe.
42
Era forte, colerico e sdegnoso,
Della lingua e del cor libero e sciolto;
Non era avaro, non ambizïoso,
Era fedele ed amorevol molto,
Degli amici amator miracoloso;
Così anche chi in odio aveva tolto,
Odiava a guerra finita e mortale;
Ma più pronto era amar, ch'a voler male.
43
Di persona era grande, magro e schietto;
Lunghe e sottil le gambe forte aveva,
E 'l naso grande, e 'l viso largo, e stretto
Lo spazio che le ciglia divideva;
Concavo l'occhio aveva, azzurro e netto;
La barba folta quasi il nascondeva,
Se l'avesse portata; ma il padrone
Aveva con le barbe aspra quistione.
44
Nessun di servitù già mai si dolse,
Né più ne fu nimico di costui;
E pure a consumarlo il diavol tolse,
Sempre il tenne fortuna in forza altrui:
Sempre che comandargli il padron volse,
Di non servirlo venne voglia a lui;
Voleva far da sé, non comandato;
Com'un gli comandava, era spacciato.
45
Cacce, musiche, feste, suoni e balli,
Giochi, nessuna sorte di piacere
Troppo il movea; piacevangli i cavalli
Assai, ma si pasceva del vedere,
Ché modo non avea di comperalli:
Onde il suo sommo bene era in iacere
Nudo, lungo, disteso; è 'l suo diletto
Era non far mai nulla, e starsi in letto.
46
Tanto era dallo scriver stracco e morto,
Sì i membri e i sensi aveva strutti ed arsi,
Che non sapeva in più tranquillo porto
Da così tempestoso mar ritrarsi;
Né più conforme antidoto e conforto
Dar a tante fatiche, che lo starsi,
Che starsi in letto e non far mai nïente,
E così il corpo rifare e la mente.
47
Quella diceva ch'era la più bella
Arte, il più bel mestier che si facesse;
Il letto er'una veste, una gonnella
Ad ognun buona che se la mettesse;
Poteva un larga e stretta e lunga avella,
Crespa e schietta, secondo che volesse;
Quando un la sera si spogliava i panni,
Lasciava in sul forzier tutti gli affanni.
48
Qui trovandosi adesso, e fastidito
Di quel tanto ballare, indi levossi;
E perché quivi ognuno era ubbidito,
Fece che da' sergenti apparecchiossi
In una stanza un bel letto pulito,
Con certi materazzi larghi e grossi
Che d'ogni banda avevan capezzali;
Quadro era il letto, e' quadri eran eguali.
49
Di dïametro avea sei braccia buone,
Con lenzuoi bianchi e di bella cortina,
Ch'era pur troppo gran consolazione;
Una coperta avea di seta fina,
Stavanvi agiatamente sei persone;
Ma non volea colui star in dozzina,
Volea star solo, e pel letto nôtare
A suo piacer, come si fa nel mare.
50
Era con esso un altro buon compagno
Franzese, e molto tempo in corte stato,
Cuoco eccellente; ma poco guadagno
Della su'arte anch'egli avea cavato;
Per lui fu fatto un altro letto magno
Simil a quel, così dall'altro lato;
E tanto spazio in mezzo rimaneva,
Quanto messa una tavola teneva,
51
Sopra la quale eran apparecchiate
Vivande prezïose d'ogni sorte,
Tutte dal cuoco franzese ordinate,
Sapor', pasticci, lessi, arrosti e torte.
Ma il fiorentin volea cose stillate,
Però che la fatica odiava a morte;
Non voleva menar le man né i denti,
Ma imboccar si faceva dai sergenti.
52
Di lui sola la testa si vedeva,
La coperta gli andava insin al mento;
Un servidore in bocca gli metteva,
Fatto a quell'uso, un cannellin d'argento,
Col qual mangiava ad un tratto e beeva;
Del corpo non faceva un movimento,
Per non affaticar la lingua; rare
Volte anche si sentiva favellare.
53
Chiamavasi quel cuoco mastro Piero,
Favole raccontava molto belle;
Dicea quell'altro: Han pur poco pensiero
Quei che ballando si straccan la pelle.
Mastro Pier rispondea: Voi dite il vero;
E poi ch'aveva conte due novelle,
Toglieva dui bocconi, e s'acconciava
A dormire; e dormito, rimangiava.
54
Questo era il loro esercizio ordinario:
Si mangiava a vicenda, e si dormiva;
Non si osservava dì né calendario,
Mai non entrava settimana o usciva;
Senza vicissitudine o divario
Quivi ore né campane non s'udiva;
Avean i servidor commessïone
Nuove non portar mai triste né buone.
55
Sopra tutto le lettere sbandite,
E penne e inchiostro e carta e polver era;
Come le bisce eran da lor fuggite,
Come il diavol si fugge o la versiera;
Tanto eran ancor fresche le ferite
Di quel coltel, di quella peste fiera,
Che giorno e notte scrivendo sette anni,
Gli avean tutto squarciato il petto e' panni.
56
Fra gli altri spassi ch'avevan in letto,
N'era uno estremamente singolare;
Che voltati con gli occhi verso il tetto,
Si stavano i correnti a numerare;
E guardavan qual era largo e stretto,
E se più lungo l'un dell'altro pare;
S'egli era pari o caffo, e s'eran sodi,
Se v'era dentro tarli o buchi o chiodi.
57
In questo stato facevan dimora
Costor de' letti, e quei de' balli e canti:
Sol Brandimarte s'affatica ancora,
Né per la selva può spuntare avanti;
Quantunque intorno col brando lavora,
Tagliando il bosco, e da diversi incanti
Era assalito; ma nessun ne piglia,
Ché Fiordelisa sempre lo consiglia.
 
29
A suon de trombe quivi se trescava
Zoiosa danza, che di qua non se usa:
Nel contrapasso l'un l'altro baciava,
Né se potea tener la bocca chiusa.
A cotale atto se dimenticava
Ciascun se stesso; ed io faccio la scusa,
E credo che un bel baso a bocca aperta
Per la dolcezza ogni anima converta.





























































































































































































30
In cotal festa facevan dimora
Tutti e baroni in suoni e balli e canti;
Sol Brandimarte se affatica ancora,
Né per la selva può passare avanti,
Benché col brando de intorno lavora
Tagliando il bosco; e da diversi incanti
Era assalito, ed esso alcun non piglia,
Ché Fiordelisa sempre lo consiglia.
 
GUIDA