INDICE
DISSIDIO INTERIORE

PREMESSA

GUIDA

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DEL TESTO

NOTA AL
TESTO

BIBLIOGRAFIA

SIGLE

PERSONE

SOGGETTI

Rime


 

 

TESTI



 

STUDI



 

LONGHI



     Nelle ottave 42-43 delle stanze autobiografiche (LXVII [III vii] 36-57) il Berni si cimenta in un particolareggiato autoritratto. La "descrizione del carattere precede quella dell'aspetto fisico: entrambe sono improntate a quella che si potrebbe dire un'intenzione realistica [...]; la franchezza del carattere, privo di quei vizi che comportano falsità e dissimulazione, si rispecchia nella generosità aperta della persona, dove lo 'schietto' e il 'netto' sono la regola, e nemmeno la barba è ammessa, a dare un po' d'ombra e di mistero alla fisionomia. A questa limpidezza non offuscata, da epitaffio celebrativo, il Berni volterà ben presto le spalle, optando per soluzioni più frammentarie e inquiete, più implicite e allusive. Sparsi lacerti di autodescrizione affiorano in tre testi del 1532-1534: nel capitolo a Ippolito De' Medici [LVII], in quello a Bartolomeo Cavalcanti [LX], e nel sonetto della vita in villa [LXVI]" (pp. 114-115). Gli autoritratti presenti in questi componimenti ci danno la visione di un uomo che ha ormai abbandonato certe ambizioni di nobiltà spirituale e stilistica, nelle quali un tempo aveva sicuramente creduto e delle quali la fatica del rifacimento dell'Orlando innamorato rappresentava l'esito concreto. La sua natura, inquieta ed incostante, e gli ambienti che lo circondavano non gli hanno permesso forse di perseverare in questa via. La disillusione ci mostra "lo scrittore che deve fatalmente restringersi al genere umile, inadatto com'è alle altezze dell'epica, e l'uomo ottuso, arrendevole e incostante, dall'aspetto risibile, ingaglioffato in abitudini rustiche e villane" (p. 116)
 

MARTI



     Nell'autoritratto che il Berni ha lasciato di sé nelle stanze autobiografiche l'elemento che maggiormente spicca è senza dubbio l'amore per la poltroneria: "'il suo sommo bene era in jacere / nudo, lungo disteso; e 'l suo diletto / era non far mai nulla e starsi in letto'. La quale 'poltroneria', tuttavia, era ampiamente giustificata: 'Tanto era dallo scriver stracco e morto, / sì i membri e i sensi aveva strutti ed arsi, / che non sapeva in più tranquillo posto / da così tempestoso mar ritrarsi, / né più conforme antidoto e conforto / dar a tante fatiche, che lo starsi, / che starsi in letto e non far mai niente / e così il corpo rifare e la mente'. E standosi in letto guardare, dei correnti, 'qual era largo o stretto / e se più lungo l'un dell'altro pare, / s'egli eran pari o caffo, e s'eran sodi, / se v'era dentro tarli o buchi o chiodi'. [...] Se un vero significato interiore [...] si voglia attribuire [a tutto ciò], oltre a quello di una precisa elezione letteraria, occorrerà pensare all'irrequietezza e all'indecisione spirituale tra una vita spensierata e godereccia e le esigenze riformistiche con il loro più affiorante richiamo morale; indecisione, che negli ultimi anni della vita del Berni sembra assumere la forza di un contrasto. L'ozio o la 'poltroneria' [...] non nasce dall'urgenza del superamento della vita d'ogni giorno per il raggiungimento ed il possesso di valori o di miti eterni ed universali (religione, filosofia, poesia), ma rimane l'aspirazione verso un impossibile nulla come regione di immobile rifugio di un'anima, che non ha saputo trovare il suo centro" (p. 222)
 

NENCIONI



     Si notano nel rifacimento "continui salti di tono [...] e, cosa ben più importante, un effetto d'insieme non persuasivo e un malessere, un dissenso nell'intimo dello stesso 'artifex additum'. Insieme al burlesco (fino al colmo dell''andava combattendo ed era morto' di II xxiv 60) s’insinua e si affianca una tetraggine amara e puritana" (p. XXII)
 

VIRGILI



     Negli anni del primo e secondo periodo romano il Berni compose numerosi capitoli e sonetti di genere satirico e paradossale (si pensi alle "pesche", ai "cardi", alla "gelatina", ai "ghiozzi", alle "anguille" e all'"orinale") riscuotendo un enorme favore e assicurandosi una folta schiera di imitatori. Sembra, però, che egli non fosse affatto entusiasta di questa sua produzione. Probabilmente "vide tutto quello che in [essa] era di passeggero, caduco e non durabile: [per questo] voleva [...] lasciarne meno traccia [possibile]; voleva recitarle da sé, non darle a leggere altrui; affidarle all'orecchio, sempre più benigno giudice e men tenace che l'occhio, vederle insomma disperdersi in quegli echi di sonore risate, che a sentirgliele recitare scoppiavano [...]" (p. 65)

Gran parte della produzione letteraria del Berni venne tenuta in scarsa considerazione da lui stesso, che infatti ne gradiva poco la diffusione. Diverso concetto ebbe invece del rifacimento, nel quale il Berni riversò tutto il suo impegno e tutto se stesso. È vero però che neppure il rifacimento vide mai la stampa (forse per altri motivi rispetto a quelli occorsi per le sue "baie") e che nel suo secolo egli divenne famoso soprattutto per le "pesche", le "anguille" e gli "orinali" (pp. 150-151)

     Quando il Berni si trasferì a Verona con il Giberti, quest'ultimo "fece della sua casa un monastero, e un monastero dell'osservanza più rigida": preghiere ad ore determinate durante la giornata, meditazioni, salmi penitenziali, obbligo della tunica per i preti, fuga dall'ozio e ricerca della solitudine. Come potesse il Berni adattarsi a questa vita non è difficile a comprendersi: da una parte sentiva forte il suo dovere chiamarlo in quella casa, dall'altra parte la sua natura e il suo temperamento la ripugnavano. "E il buon Giberti vedeva la fiera battaglia che si combatteva in quell'anima" sperando che alla fine riuscisse vincitore il dovere (p. 213)

     Ormai esausto della permanenza veronese, il Berni decise di lasciare la città nei primi mesi del 1531, trasferendosi a Padova con l'intenzione di stabilirvisi a lungo. Ma, come spesso gli accadde, dopo pochi mesi si ritrovò pentito di quella fuga e nell'ottobre dello stesso anno fu di nuovo a Verona in casa del Giberti, dove però non rimase che fino alla fine del 1532. I pentimenti, le contraddizioni, la "guerra interiore" che si combatteva nell'animo del Berni la ritroviamo frequentemente nei componimenti di questo periodo, fino alla fine della sua vita, e questa sua profonda inquietudine, questa sua incapacità di accontentarsi e di accomodarsi portò forse la sua vena poetica alla massima pienezza e forse alla perfezione. Dalle sue opere, ora più che mai, emerge "lo stato mutabilissimo dell'animo suo", ora sereno loda Verona (Orlando inn. XXX 7-8) e il suo padrone, un attimo dopo si lamenta del suo stato gastigato ed oneroso di servitore, in una casa che sembra un monastero (si vedano nelle Rime i sonetti Si duole della suggezione in che stava in Verona e Al Vescovo suo padrone), e tutto questo con un'ironia tragica, con una coscienza piena di ciò che è triste e comico nella sua vita. Forse anche gli ostacoli che si frapposero fra lui e la stampa del rifacimento (ricordiamo che era la prima volta che desiderava veramente stampare qualcosa di suo), forse il consiglio di qualcuno a tornare alle "baie" portarono il suo ingegno all'esplosione, facendolo più fervido e vivo che mai in questi pochi anni di vita che gli rimasero (pp. 412-415)

     Alla fine del 1532 il Berni lasciò definitivamente il Giberti passando al servizio del cardinale Ippolito De' Medici. Cambiando padrone il nostro autore si ritrovò di nuovo immerso nelle tanto sospirate agiatezze e baldorie della corte (fra l'altro l'accoglienza che ricevette fu veramente calorosa). Inizialmente egli si sentì, infatti, di nuovo felice e spensierato, libero finalmente dagli obblighi di casa Giberti (tornò anche a comporre alcune di quelle sue "baie" che aveva quasi abbandonato), ma una volta riassaporata questa frivolezza e questo ambiente sembrò di nuovo non esserne contento. La sua inquietudine tornò così a tormentarlo; ed approfittando di un viaggio a Nizza con il cardinale (settembre 1533), il Berni si fermò a Firenze decidendo di non ripartire mai più, con grande sdegno del padrone. Eccolo quindi cercare feste e baldorie quando aveva quiete e pace e viceversa cercare queste quando aveva quelle (pp. 437-458)