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FUGA DAL MONDO

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LONGHI



     "Nel terzo libro dell'Orlando innamorato, al canto settimo, un'avventura dal fascino singolare coinvolge i cavalieri con la forza di un irresistibile incantamento. Nelle profondità delle acque di un fiume, chiamato 'fiume del Riso', le Naiadi hanno edificato un palazzo d'oro e di cristallo; una vita di spensierata letizia attende gli occasionali ospiti, totalmente smemorati di sé stessi dopo il tuffo nelle 'onde chiare'. Si tuffano Orlando e Sacripante, Ruggero e Gradasso, 'e molti altri baroni e gran milizia' [...]. A interrompere questo stato di smemoratezza felice e irresponsabile, questa allegria d'altro mondo [...], ci pensa Fiordelisa, con certe sue ghirlandette che restituiscono l'autocoscienza ai cavalieri. Ed ecco che essi risalgono alla superficie del fiume, e la descrizione di questa emersione progressiva dalle acque è propriamente quella di una 'nascita' [...]. I cavalieri 'nascono' alla realtà; e subito rimuovono dalla mente un'esperienza che appare loro coi connotati di un sogno, svanito e inafferrabile al risveglio" (pp. VII-VIII)
     In questo brano del poema boiardesco il Berni innestò una serie di ventuno ottave tutte sue, che rappresentano l'interpolazione più rilevante del rifacimento (LXVII [III vii] 36-57). Ed ecco allora che sul fondo delle acque del fiume del Riso scorgiamo fra i cavalieri anche il nostro autore: "'Quivi era, non so come capitato, / un certo buon compagno fiorentino'. Anch'egli con una sua storia, che fa da controcanto 'realistico' alle gesta dei paladini: speranze deluse, la grama vita del cortigiano, fastidi, 'brighe e pene' dell'ufficio di segretario e delle dissestate condizioni economiche; ma contro tutto questo, una potente forza di riscatto, l''allegria':

Con tutto ciò viveva allegramente,
né mai troppo pensoso o tristo stava;
era assai ben voluto dalla gente,
di quei signor' di corte ognun l'amava:
ch'era faceto, e capitoli a mente
d'orinali e d'anguille recitava,
e certe altre sue magre poesie,
ch'eran tenute strane bizzarrie.
               (III vii 41, 1-8)

     Il passo è denso di elementi autobiografici [...] [e quello che più importa] è scrutare e interpretare la condotta del Berni [...] nell'oltremondo del Riso. Ebbene il nostro eroe, 'dallo scriver stracco e morto', e stanco anche dei divertimenti [...], non trova di meglio che starsene tutto il tempo a letto: 'onde il suo sommo bene era in iacere / nudo lungo disteso; e 'l suo diletto / era non far mai nulla, e starsi in letto'. [...] il letto è la sede preferenziale per un insolito, ilare adattamento dell'esercizio contemplativo" (pp. VIII-IX)

     Il tema del letto è molto ricorrente nel genere burlesco e quello che il Berni in queste stanze ci descrive è decisamente un letto di "proporzioni epiche" (si leggano i vv. 1-8 in III vii 49). Ma c'è dell'altro: in questo giaciglio formidabile al dormire si alterna l'occupazione del mangiare tramite una cannuccia, dalla quale si possono comodamente succhiare cibi liquidi. E in questo mondo onirico il Berni si pone accanto un altro personaggio, forse un suo doppio, Piero Buffet, del quale oggi sappiamo assai poco tranne ciò che il Berni stesso ci dice: il cuoco della cucina del Giberti. "La descrizione dell'autore, immobile, immerso fino al mento nelle coperte, regredito a un livello di vita fetale [...] è l'esatto opposto della scena in cui i cavalieri risalgono dalle acque del fiume, venendo alla luce del mondo reale. È chiaro ormai che il personaggio Berni non parteciperà a quell'emersione: anzi, evitando il minimo movimento, egli par proprio voler scongiurare il rischio di una nascita" (pp. X-XI)

     "Il riso che dà la morte ha lo stesso carattere di forza eccessiva e dirompente del riso che impedisce la nascita: in entrambi i casi esso lega l'individuo a una dimensione altra da quella del mondo reale" (p. XII). Anche il tema del riso, come quello del letto, è facilmente riscontrabile in gran parte della tradizione burlesca: si può pensare al Pulci, che fa morire dalle risa il suo Margutte, al quale il Berni deve sicuramente molto; oppure al successivo Ortensio Lando che nei suoi Cathaloghi (1552) inserisce un capitolo tutto dedicato a coloro che morirono per il troppo ridere (p. XIII)
 

ROMEI Orlando



     Tenendo presenti le contraddizioni che sono alla base delle sue opere, "non si può fare a meno di pensare che il Berni vero sia quello dei capitoli della Peste e non quello delle edificanti omelie dell'Innamorato rifatto, quel poeta impudico e beffardo piuttosto che questo predicatore di maniera.
     D'altronde non ci mette lui stesso sull'avviso, vanificando alla fine del poema tutti i buoni esempi profusi in precedenza?
     Tra i cavalieri ospiti delle ninfe della Fonte del Riso (LXVII [III vii]) il Berni mette anche se stesso. Ma non coinvolto negli spassi che rallegrano il tempo delle creature del Boiardo, bensì in uno stato che sconfessa tutta la buona volontà, tutta la saggezza, tutta la cristiana operosità dispiegata nel poema. Uno stato che corrisponde a una fuga dal mondo. Ma non in un eremo ascetico, scorciatoia per la santità, bensì in una sorta di condizione fetale (o limbale). Immerso nudo in un letto confortevole in cui si può 'notare', non fa nulla, non sa nulla; si nutre attraverso una cannula (una specie di cordone ombelicale); ha per solo compagno una sorta di gemello, un 'alter ego': l'improbabile cuoco del vescovo Giberti, maestro Piero Buffet [interlocutore, non per caso, degli ultimi capitoli veronesi, quelli che si potrebbero dire – si parva licet – i 'grandi idilli' del Berni]. Tutti i problemi, tutte le complicazioni, tutte le ansie e le pene della vita sono chiuse fuori.
     Questa regressione totale, fino al grembo materno, è il segno di una rinuncia, di una sconfitta, che coinvolge il rifacimento" (p. 18)