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PIETRO ARETINO
(Arezzo, 1492 – Venezia, 1556)

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SOGGETTI

Rime


 
 

DOCUMENTI


  • ARETINO Lettere II 149, A Messer Francesco Calvo


TESTI



STUDI



NENCIONI


   Ripercorre le tappe fondamentali degli studi inerenti al rifacimento del Berni, sottolineando l'importanza del Virgili per quanto riguarda i moventi psicologici (come la competizione con l'avversario Pietro Aretino, che aveva avuto a sua volta intenzione di "emendare l'Innamoramento del Conte"), mentre per quelli culturali si rifà al Chiorboli, che afferma l'importanza della questione della lingua che imponeva il connubio fra l'arte letteraria e la lingua colta fiorentina. Osserva inoltre che proprio in quegli anni erano uscite le prime due redazioni del Furioso (1516, 1521), la cui lettura aveva risvegliato l'interesse per l'opera boiardesca, artistica nei contenuti ma stilisticamente poco pregiata. Ecco che allora alcuni letterati diressero i loro interessi verso un impegnativo lavoro di rifacimento (come l'Aretino, che si limitò ad accarezzare l'idea, il Dolce, il Domenichi, il Berni). (pp. VII-VIII) 
 

ROMEI Codice Marciano


   La violenta disputa letteraria scoppiata nel 1531 fra Pietro Bembo e Antonio Brocardo indusse molti letterati a schierarsi dall'una o dall'altra parte. Fra questi si ritrovano l'Aretino, a favore del Bembo, e il Berni, con gli abati Cornaro, a favore del Brocardo (p. 22)

   Fra i sonetti composti per l'occasione dalle due parti (ritrovati nel Codice Marciano It. XI 66 [=6730]) uno, adespoto e mutilo, riguarda gli abati Cornaro (n. 652, c. 334r). Considerando sia l'esordio del sonetto (Deh, Riuerendi miei Signori Abbati), molto simile a quello del capitolo Alli signori abbati del Berni (Signori abbati miei, se si può dire), sia la permanenza di quest'ultimo a Padova, ospite della famiglia Cornaro, proprio in quest'anno, si potrebbe pensare ad un'ipotesi di attribuzione bernesca (p. 33) 

   Il 9 gennaio 1529 papa Clemente VII fu colto da un violento attacco, che lo portò a rischiare la vita e lo costrinse a letto per circa tre mesi. Pochi giorni dopo l'attacco in alcune città italiane, fra cui Venezia, si sparse la voce che il papa era morto. Pietro Aretino colse al volo l'occasione "per vibrare una velenosa e trionfante stilettata al Giberti – che perdeva il suo più alto e temibile protettore –, con un sonetto che, oltre a soddisfare personalissimi rancori, rinnovava le insolenze di Pasquino contro i cardinali tutti, indegni pretendenti al soglio di Pietro" (p. 138). Il componimento è il seguente:

Fa noto et manifesto a tutta gente 
      il uescouo bastardo di Verona
      ch'el papa è morto, come si ragiona,
      ai diciassette ladri del presente.
E 'l detto Gian Matheo publicamente
      Confessa a ognun, come daben persona,
      ch'ei solo ha fatto, per far opra bona,
      dal Sanga velenar mastro Chemente.
Il Bernia, che a Roma ha negociato
      l'utile sancto sacro tradimento,
      n'ha in uisibilio il datario aduisato.
Et Dio uolesse che come Chimento 
      Stesse il Collegio arcigaglioffo e ingrato,
      ch'el mondo et Piero uiuerìa contento.
                Ma a dirlo lento lento,
      cioè pian pian, del nostro messer Christo
      sia vicario chi uuol, ch'el sarà tristo,
                se già sul papalisto
      non s'improntasse, per rader i preti,
      quella pazza animucia di ser Chieti.
                     (c. 326r)

Come si può notare fin dal secondo verso il bersaglio principale del sonetto è Giovan Matteo Giberti, vescovo di Verona e nemico dell'Aretino. Il Giberti, durante il sacco di Roma, era stato consegnato come ostaggio agli imperiali a garanzia degli accordi stipulati col papa. Sfuggito alla prigionia e sconvolto dall'accaduto, decise di lasciare la corte romana per trasferirsi nella sua diocesi veronese. Saputo della grave malattia del papa, partì da Verona per assisterlo, giungendo a Roma il 23 febbraio. I motivi che lo spinsero alla partenza furono principalmente due: l'affetto e la gratitudine che provava per Clemente e la speranza di convincerlo a desistere da un'alleanza con l'imperatore. Delusa tale speranza, il Giberti ripartì definitivamente per Verona il 26 aprile. 
   Il rapporto fra l'Aretino e il vescovo veronese fu caratterizzato da una serie di violente rotture seguite da subdoli tentativi di riconciliazione da parte del primo. Anche la diffusione del citato sonetto fu seguita da uno di questi tentativi, tutti motivati, nonostante le clamorose professioni di pentimento e di affezione, da spregiudicato opportunismo. Nel febbraio del 1530, infatti, il Giberti si trovò di passaggio a Venezia; ne approfittò subito l'Aretino per avvicinarlo e circuirlo, riferendo l'esito in una lettera al marchese Federico Gonzaga, usato come tramite. Il fine utilitaristico dell'Aretino si può identificare facilmente nell'opportunità di una "completa riabilitazione alla corte papale, che proprio nel '30 [...] [l'Aretino] fortemente perseguiva e in rapporto alla quale la riconquistata benevolenza del Giberti poteva giocare un ruolo decisivo per il forte ascendente [...] che egli conservava sul pontefice; a tal fine risultava proficua l'intercessione del marchese, puntualmente sollecitata e prontamente concessa" (p. 139). Ma, morto il papa nel 1534, tutto questo non ebbe più alcun valore e, puntualmente, uscì dalle mani dell'Aretino una nuova violenta invettiva contro il Giberti. 
   Al v. 8 viene nominato Giovan Battista Sanga. Colto umanista, il Sanga fu segretario del cardinale Dovizi prima, poi del Giberti ed infine del papa; la sua carriera fu stroncata dalla morte improvvisa, causata dalle mani della sua stessa madre, che lo avvelenò per errore. 
   Non poteva certo mancare, in un sonetto contro il Giberti, il nome del Berni, del quale "è ben noto il [...] sonetto Tu ne dirai e farai tante e tante (Rime XXXII), archetipo della libellistica antiaretiniana e sdegnata risposta alle ingiurie infamanti" (p. 140) che l'Aretino aveva rovesciato sul gruppo gibertino nella frottola Pax vobis, brigata. L'Aretino lo "ripagherà deridendo nelle Lettere la futilità della poesia bernesca [...] e interferendo nella pubblicazione postuma" (p. 140) del rifacimento dell'Orlando innamorato. Leggendo il testo sembrerebbe che il Berni si trovasse a Roma al momento della composizione del sonetto Fa noto et manifesto a tutta gente; in realtà si trovava a Verona: partirà per la città papale il 23 febbraio con il Giberti e per l'occasione comporrà tre sonetti sulla malattia e la guarigione del pontefice (Rime XXXVIII, XXXIX, XL). 
   Al v. 20 è interessante la menzione del vescovo di Chieti ("ser Chieti"), Giovan Pietro Carafa, fondatore dell'ordine dei Teatini e divenuto papa nel 1555 col nome di Paolo IV; "propugnò una riforma della Chiesa in senso autoritario, repressivo, rigorista [...]; è superfluo dire che per i 'chietini' e il 'chietinismo', interpretato come manifestazione di mera ipocrisia, l'Aretino ebbe sempre una viscerale avversione, che espresse a più riprese [...] in molte delle sue opere (associando spesso i nomi dei vescovi di Verona e di Chieti, che furono effettivamente amici, pur impersonando tendenze non in tutto assimilabili)" (pp. 138-141)
 

ROMEI Introduzione


   Il rifacimento dell'Orlando Innamorato del Boiardo si protrasse "almeno fino al 1530 o 1531, quando [il Berni] otteneva i privilegi di una stampa che, nel corso della sua vita, non avrebbe mai visto la luce. Il testo che ci è giunto è degno di ogni sospetto: alla morte del Berni vi mise le mani Gian Alberto Albicante, che, con l'incoraggiamento e l'approvazione di Pietro Aretino, soppresse i 'pregiudizi de gli amici', [...] che nessun restauro filologico sembra in grado di restituirci (ne sono forse un ritaglio le ottave XLIII)" (p. 13) 

   Nel 1527 il Berni inserisce nella sua produzione poetica una serie di invettive, fra le quali la maggiore è quella contro Pietro Aretino (XXXII). (p. 14) 

   Nel 1532 il Berni passa al servizio del cardinale Ippolito De' Medici. Ma approfittando "di un viaggio del padrone in Francia [...] il Berni si ferma a Firenze e rifiuta di proseguire. [...] egli conquista finalmente la libertà con un pericoloso atto di disubbidienza". Ma, diversamente dalla libertà che il nemico Aretino si era creato a Venezia (dove seppe viverla "con una sua sanguigna e corposa occupazione del presente"), "il Berni, più appartato, modesto, sfuggente fuori del metro consueto della cordialità amichevole, del commercio privato e geloso dei buoni sentimenti, subito la perderà con la morte" (p. 17) 
 

ROMEI Orlando


   Il rifacimento "ha subito manipolazioni dopo la morte dell'autore. [...] Il 15 febbraio del 1540 Pietro Aretino scrive una lettera a Francesco Calvo [nella quale lo] ringrazia perché ha saputo che quanto alla stampa dell'Orlando innamorato 'è per farne la volontà' sua; [e aggiunge:] 'Onde per grado de la propria modestia sete obligato o a non dar fuora il libro o a purgarlo da ogni maladicentia' [ARETINO Lettere II 149 pp. 630-632]. L'Aretino, che aveva trovato nel Berni un acerrimo oppositore, ovviamente pensava in primo luogo a se stesso. Ebbene, dei 'pregiudizi de gli amici' e della 'maladicentia' non c'è traccia nel testo che ci è pervenuto" (p. 3) 
 

ROMEI Pas vobis, brigate


   L'Aretino compose, in occasione del sacco di Roma, una frottola divulgata con il titolo Frottola di maestro Pasquino, nella quale in bocca alla maschera emblematica della maldicenza troviamo "una cronaca grottesca che evade ed irride il decoro dei tragici accadimenti" del 1527 (p. 435). In essa non potevano mancare, trovandosi coinvolti direttamente nel sacco, il Berni e il suo padrone Giberti, quali soggetti eccellenti di una giubilante vendetta. Ai vv. 403-420 si legge:

     Non fanno più·lle spose 
e cortigian[i] galanti,
anzi come furfanti     stanno i giotti,
     in tradimenti dotti;
dico la mala setta:
in ca[u]sa maladetta     è Giammatteo,
     il Sanga arciplebeo,
ch'ha·lla suora in bordello,
e 'l Berna, suo fratello     e 'l traditore,
     anch'egli en grave favore
per fottere il padrone,
e perché il bardassone     all'Aretino
     diede, per uom divino
l'ha 'l datario tenuto;
ora a·dDio n'è 'ncresciuto     tanto male,
     e vanno allo spedale, 
per li aspri portamenti,
e Cristo dà e tormenti     equali al merto.

In questi versi prorompe il tripudio vendicativo per gli avvenimenti romani, interpretati come giusta punizione divina. Brucia ancora il ferimento che l'autore subì per mano di un servitore di Giovan Matteo Giberti, dall'Aretino identificato sempre come il mandante dell'attentato. Proprio a questi versi (precisamente ai vv. 409-410) risponderà il Berni nel suo sonetto Contra Pietro Aretino, "quando, svergognate le sorelle che Pietro avrebbe 'nel bordel d'Arezzo a grand'onore', aggiunge: 'Di quelle, traditore, / dovevi far le frottole e novelle, / e non del Sanga, che non ha sorelle' (vv. 27-29)" (p. 466) 
 

VIRGILI


   Nel 1531 divampò a Padova una disputa fra Pietro Bembo e Antonio Brocardo, studente di legge della locale università, amante della letteratura. L'imprudente Brocardo osò parlare con disprezzo dell'autorevolissimo Bembo, notando perfino degli errori nelle Rime, alle quali ebbe il coraggio di contrapporre le sue. L'indignazione di quest'ultimo fu immediata e violenta. 
   Questa disputa è importante per noi in quanto il Berni, che si trovava proprio a Padova in quei mesi (ospite della famiglia Cornaro), la ricorda in un proemio del rifacimento (XIII 1-7). Con questi versi sembra che voglia mettere, in questa "lotta disuguale e accanita, una parola di pace" disinteressata. È sorprendente come, questa volta, cerchi la massima cautela e prudenza: il nome del Bembo rimane celato e vi si allude solo con perifrasi encomiastiche. La volontà di ammansire il luminare della letteratura lo porta addirittura all'adulazione; ma forse proprio la mancanza di spontaneità che traspare in questi versi fa intendere come la bilancia del consenso pendesse dalla parte del Brocardo: il Berni sembra mantenere una certa distanza nelle lodi al Bembo, mentre si avverte una calorosa partecipazione nel lodare lo spirito 'virtuoso' del giovane amico. 

[N.B.: In realtà le lodi sono tutte per il Brocardo. L'obiezione del Virgili, per cui sarebbero esagerate e incomprensibili se rivolte a un giovane scrittore semi-sconosciuto, è poco credibile: lo stile della lode nel Cinquecento era quello e non si curava della proporzione tra lode e oggetto lodato; inoltre proprio la passione polemica (anti-bembesca) poteva indurre a strafare]
   Come spesso accadeva a quei tempi i letterati si schierarono da una delle due parti. Non mancò in questo neppure l'Aretino, che decise, forse per convenienza, di prendere le parti del Bembo, accanendosi, con forte violenza verbale, contro il malcapitato Brocardo. Poiché questi ebbe ad ammalarsi e morire giovanissimo poco dopo, l'Aretino si vantò addirittura di averlo ucciso con i suoi sonetti. Certo il Berni dovette sentire una forte indignazione per il tragico avvenimento; probabilmente ne sono una prova le prime ottave del canto XIV del rifacimento (pp. 229-238) 
[N.B.: Ciò che afferma il Virgili è impossibile: nei versi del Berni il Brocardo è vivo (proprio per questo sono un elemento di datazione, individuando un terminus ante quem nella morte del Brocardo)]
   I Cornaro si schierarono dalla parte del Brocardo, loro amico, contro il Bembo (con il quale, benché fosse loro parente, avevano in sospeso vecchi rancori, legati ad interessi economici e benefici ecclesiastici) e di conseguenza contro il suo sostenitore, Pietro Aretino. Costui molto probabilmente si dolse non poco di questa inimicizia. Infatti, i Cornaro, essendo ricchi patrizi veneziani, avrebbero in seguito avuto un posto nel Senato di Venezia e ciò poteva preoccupare l'Aretino, che, se disse male di tutti, non osò mai dir male dei veneziani e di Venezia (pp. 245-246) 

   Sul finire del terzo decennio del '500 si scatenò un clamoroso battibecco, a suon di sonetti e lettere, fra il poeta Gian Alberto Albicante e Pietro Aretino, un tempo amici. Questa disputa acquista per noi un significato particolare in quanto investe le vicende del rifacimento dopo la morte del suo autore. Infatti l'editore Francesco Calvo aveva, in questi anni, intenzione di pubblicare per la prima volta il rifacimento del Berni, avvalendosi della collaborazione di un revisore, il quale era proprio Gian Alberto Albicante. Giunto a conoscenza di ciò, l'Aretino, che si trovava nel bel mezzo della "zuffa" suddetta, e preoccupandosi per quella stampa del rifacimento, nel quale era sicuramente contenuto anche il suo nome, associato a parole o concetti poco lusinghieri, pensò bene di interrompere quel battibecco volgendolo ai propri fini. Ecco quindi il "divino Aretino" umiliarsi di fronte all'Albicante con efficaci richieste di pace, in cambio di una raccomandazione presso Francesco Calvo. A questo punto ci occorre menzionare una lettera che l'Aretino inviò al Calvo il 16 febbraio del 1540, nella quale, molto gentilmente, si impone all'editore una scelta: "sète obbligato o a non dar fuora il libro, o a purgarlo da ogni maladicentia". Il docile Calvo, forse impaurito dal famoso temperamento dell'Aretino, decise così di stampare il libro privo di quelle maldicenze (pp. 543-546) 

   La prima edizione del rifacimento uscì il 1 gennaio del 1542 dalla tipografia di Andrea Calvo (fratello di Francesco) a Milano, riveduta e corretta da Gian Alberto Albicante (p. 555) 

   La revisione del rifacimento da parte dell'Albicante fu scrupolosa e lunga (occorsero infatti due anni). Oltre ai tagli che il rifacimento subì si possono scoprire anche numerose aggiunte sicuramente nel primo canto, in parte del secondo e negli ultimi due. In questi brani la mano dell'Albicante, con l'aiuto certamente dell'Aretino, è senza dubbio riconoscibile (pp. 561-562) 
   Ma c'è un altro punto da trattare: esiste infatti un'edizione del rifacimento datata ottobre 1541. Questa edizione, che secondo la data dovrebbe essere la prima, fu stampata a Venezia con l'autorevolissimo nome dei Giunti. Sembra però che, anche in questo caso, ci fosse lo zampino dell'Aretino. Infatti, le due edizioni si scoprono esattamente identiche: gli stessi errori, le stesse lettere sbagliate o fuori riga, gli stessi spazi. Insomma le due stampe sono in realtà una sola e Tommaso Giunti, amico devoto di Pietro Aretino, accettò di inserire l'onorato nome Giunti di Venezia su un libro stampato invece dal Calvo a Milano. Tutto ciò sicuramente per varie ragioni, fra le quali anche la necessità di dare maggior credibilità ad una stampa corrotta, che poteva però avvalersi di una garanzia incontestabile come era quella data dal marchio dei Giunti (pp. 561-563)
 

WOODHOUSE



    L'odio che accomunava l'Aretino e il nostro autore è cosa ormai risaputa ma Woodhouse ce la ripropone per giustificare la natura del rifacimento da un punto di vista linguistico. A questo proposito ricorre, non a caso, la lettera che Pietro Aretino spedì, nel 1540, a Francesco Calvo, nella quale il critico inglese, oltre alle emozioni personali, coglie un valore critico e morale: "A me pare che chi pone la penna ne le carte non sue  acquisti la lode che merita uno sarto nel rappezzare le sferre vecchie. E la temerità che aggiugne e leva a le cose d'altri, ponendosi in caratteri maiuscoli in fronte a le vigilie de gli uomini famosi, si debbe coronar di notte, acciò che il giorno non si arossi nel vedere simili sfacciati". L'interesse che queste poche righe suscitano sta nella loro autenticità, la volontà di degradare e schernire l'opera bernesca non può escludere il valore di una voce critica che afferma il ruolo subordinato del rifacitore; non solo, l'Aretino premette a tutto ciò una vera e propria morale: "edifichiamo la gloria cercata sui fondamenti de lo intelletto proprio, procacciandosi credito per la via de le fatiche medesime" [ARETINO Lettere II 149 pp. 630-632].
   Le insinuazioni dell'Aretino nascondono, come abbiamo già appurato, interessi e motivi ben diversi da quelli morali, ma Woodhouse le sfrutta per giustificare il libero uso che il Berni fece di un testo altrui. Ecco allora che, contestualizzando l'opera, appare l'innocenza di un tale gesto: una lettera papale del 1530 accorda i diritti d'autore al Berni, affermando la legittimità di una collaborazione dovuta alla mancata revisione da parte del suo autore originario, morto prima della conclusione dell'opera. Il dovuto riconoscimento è quindi assegnato per meriti narrativi al Boiardo mentre il Berni  ha il compito (e il merito) di perfezionare linguisticamente il lavoro [L. Suttina in 'Nuovi documenti su Francesco Berni', Giornale storico della letteratura italiana, 90 (1927), pp. 87-91]. Emerge chiaramente che il vituperio del Berni ai danni dell'Innamorato non è altro che una semplice collaborazione. Aggiungerei che operazioni di rifacimento erano a quei tempi normali ed anzi molto richieste (fra l'altro, come sappiamo, il Berni non si limitò assolutamente ad una correzione linguistica ma aggiunse e tolse a suo piacere), non deve stupire che lo stesso Aretino avesse dichiarato l'intenzione di rifare lui stesso il poema boiardesco (p. 1)