Banca Dati "Nuovo Rinascimento"


LETTURE DEL SONETTO
I' ho già fatto un gozzo in questo stento
DI MICHELANGELO BUONARROTI


COMMENTI E PARAFRASI





Rime e Lettere di MICHELANGELO, a cura di PAOLA MASTROCOLA, Torino, UTET («Classici italiani»), 1992, pp. 70-71



È il sonetto sulle fatiche della volta Sistina (1508-12), datato 1509 dal Guasti, 1510 dal Frey. Alla destra dei versi è il disegno di un uomo che dipinge in piedi una figura in alto, come in un soffitto, in evidente relazione col tema del sonetto stesso.

Il lavoro degli affreschi della Cappella Sistina è descritto nei termini di una disumana fatica fisica sino ad una sorta di vera e propria trasformazione deformante del corpo. Le lettere di questi stessi anni confermano lo stato di isolamento e di estrema prostrazione - un condurre la vita totalmente astratto dalle più comuni regole dell'umanità, in una dimensione irrealistica in cui esistono solo più le imperiose ragioni dell'arte - a cui lo obbligò l'impresa della Sistina: «Io mi sto qua malcontento e non troppo ben sano e con gran fatica, senza governo e·ssenza danari» (Lettere, 34); «Io sto qua in grande afanno e con grandissima fatica di corpo, e non ho amici di nessuna sorte, e no' ne voglio: e non ho tanto tempo che io possa mangiare el bisonio mio» (Lettere, 39).

Lo stile del sonetto è realistico-grottesco, secondo un modello burchiellesco-bernesco che, sempre a proposito del suo corpo, Michelangelo riprenderà molti anni più tardi per il capitolo 267. Per entrambi questi componimenti valgano i riferimenti ai poeti realistico-giocosi del Quattrocento (Burchiello, Pistoia, Francesco Cei), e soprattutto al sonetto del Burchiello che inizia «Son diventato in questa malattia, / come graticcio da seccar lasagne», in Sonetti del Burchiello, ecc., Londra, 1751, p. 100. cit. in GIRARDI, Studi, p. 74. Anche Condivi e Vasari riportano un quadro delle difficoltà e dei disagi fisici cui l'artista dovette far fronte, ma, come rileva la Barocchi, mentre i biografi ne danno una «tranquilla illustrazione» appellandosi oltretutto ad una categoria - quella di «fatica» -, che, almeno dal Vasari è generlamente considerata indispensabile a conseguire dei frutti in arte, Michelangelo qui presenta un'ironia venata di «sarcasmo e tormento» (cfr. BAROCCHI, Comm. II, pp. 12-15 e pp. 447-8).


2. gacti: «abitanti, contadini», secondo un uso gergale della parola segnalato da Contini, che vi aggiunge il riscontro in Burchiello di gatto «contadino» (CONTINI, recens.). Ma Girardi difende la sua interpretazione letterale nel senso di «gatti gozzuti», che fornirebbe a suo parere un correlativo all'altra immagine animalesca delle arpie al v. 6.

4. ch': «la quale» (cioè l'acqua), sogg.; apica socto 'l mento: «attacca, unisce al mento» (apica sta per appicca).

5. barba: «mento», secondo alcuni; memoria: «nuca» (esempi in Berni, cfr.CONTINI).

6. scrignio: «gobba»; d'arpia: «arcuato come il petto d'un'arpia».

8. mel fa: «me lo (cioè il viso) rende»; rico: cioè ricco di incrostazioni che paiono decorazioni.

9. peccia: «pancia» (registrato in Burchiello, Magnifico, Pulci, Michelangelo il Giovane, cfr.CONTINI).

11. Il senso del verso sia: «non vedo dove metto i piedi».

12. corteccia: «pelle» (risulta già in Santa Caterina, cfr. CONTINI).

13. si ragroppa: «si raggrinza».

14. arco soriano: «arco di Sorìa, di Siria»; non è precisazione geografica, ma espressione topica che vale «arco infallibile». Contini ne segnala la ricorrenza in incipit di Onesto da Bologna e in Pulci, Morgante, VII, 77, 2-3, e sottolinea che l'esempio risale molto addietro, fino a CAVALCANTI, O tu che porti, v. 6 e O donna mia, v. 7. L'uso, dapprima neutro, si colora di un «gusto bernesco» in Michelangelo, come prova la ricorrenza in 20, vv. 13-14 (CONTINI).

16. il iudizio: «la facoltà di giudizio».

17. si tra': «si tira»; per: «con una, per mezzo di una».

18. pictura morta: «la pittura di uno che è morto», in linea con l'impressionante autoritratto fisico testé delineato; ma anche in relazione a quanto afferma in finale e più volte nelle lettere del periodo, cioè al non essere quella «sua arte»: pictura morta quindi anche nel senso di «opera scadente, senza vita».

19. Giovanni: sul verso del foglio è la scritta di Michelangelo: «A Giovanni, a quel propio di Pistoia», che Michelangelo il Giovane confonde con «il Pistoia» (pseudonimo di Antonio Cammelli, 1430-1502); si tratta invece, corregge il Girardi, di Giovanni di Benedetto da Pistoia, letterato, funzionario del governo ducale e, nel 1540, cancelliere dell'Accademia Fiorentina; di lui sono conservati cinque sonetti a Michelangelo.

20. non sendo in loco bon: «trovandomi a lavorare in posizione disagevole», ma anche si può intendere «in un paese ostile». Contini propone di leggere la litote non ... bon «al lume del fiorentino attuale poco bono «farabutto» e già di non ... bene in Angiolieri, LII 10» (cfr. CONTINI); né io pictore: è l'antico dissidio tra pittore e scultore (si ricordi che nelle lettere di questo periodo Michelangelo amava firmarsi «scultore»). «Il sonetto chiude con un topos di modestia cui non c'è da fare un affidamento assoluto: resta comunque evidente l'umorismo di chi accetta la propria situazione, e insieme sa che quanto essa ha di comico non basta a distruggere, tutt'altro, la terribile serietà del proprio lavoro (...) L'elemento essenziale del personaggio di M. in queste rime è proprio nella coscienza di essere insieme un soggetto derisorio e comico, ma anche un'anima tormentata e tragica, e nella contemporaneità con cui egli vive questi due aspetti» (BARATTO, pp. 422-3).




immesso in rete il 20 dicembre 1995