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STUDI



 

NENCIONI



     Confrondando il poema originale con il rifacimento notiamo che "mentre il Boiardo si appella ad una corte effettiva, immersa nei miti cavallereschi, il Berni petrarchista 'malgré lui', dichiarava di narrare per un astratto pubblico di anime petrarchescamente elette e innamorate (si confronti la protasi del Boiardo con la bernesca)" (pp. XXII-XXIII) 
 

ROMEI Introduzione



     Nei primissimi decenni del Cinquecento l'ambiente della corte romana cambiò notevolmente con la successione dei papi. Dal fiorente mecenatismo e dalla mondanità della corte di Leone X si passò all'austerità del fiammingo Adriano VI, estraneo alla corte, subito odiato dai cortigiani, che disperse quel perenne congresso di letterati e artisti che si era insediato a Roma. In quegli anni il Berni, che risiedeva nella città, venne addirittura allontanato, forse per aver composto un capitolo contro il papa.

     "Leone X: quel Giovanni de' Medici, rampollo del magnifico Lorenzo", che aveva trapiantato nella corte romana "le splendide costumanze di vita della sua gente. Il prodigo mecenatismo di casa Medici aveva in quegli anni attirato a Roma il fiore dell'intellettualità italiana, sollecitata a promuovere il prestigio del papato [...]. Roma era la città delle improvvise fortune e delle sconfinate ambizioni" (p. 5) 
 

ROMEI Orlando



     Il Berni nel rifacimento, "se ripete col Boiardo:
[...] Esser non può che non mi doglia
trovando un gentiluom che sia scortese;
però che ben è un ramo senza foglia,
fiume senz'acqua e casa senza via,
la gentilezza senza cortesia
               (LXIV [III iv] 61 4-8)
subito dopo prorompe di suo:
Udite, gentiluomini, le vere
parole che Ruggier di sopra ha dette
alla discortesia del re d'Algiere,
che vere state son certo e perfette:
voi che volete il titol del messere,
uccellator d'inchini e di berrette,
che vi fate de' quali e de' cotali,
e sete, a dir il ver, grandi animali;

altro del gentiluomo non tenete,
che 'l nome solo, ed un campo diviso
per arme, dove tanta parte avete,
quanta ha san Marcellin in paradiso;
perché il contrario, per Dio grazia, sete
di quei ch'al vostro grazioso viso
han lasciato arme, titoli e tesoro
acquistato col sangue e virtù loro.
               (LXV [III v] 1-2)

Di più: la cortesia - la virtù ch'è propria della corte - andiamo all'esordio XLVIII [II xix] 1-6 ed eccola servita:
Di questi Antropofaghi e Lestrigoni
è gran dovizia ne' nostri paesi,
c'han que' dentacci lunghi e quegli unghioni,
e barbe e nasi grandi e cigli tesi:
son questi i cortigiani empii padroni,
c'hanno sempre a far mal gli animi accesi:
mangian la carne e 'l sangue, i traditori,
de' loro sventurati servidori [...].
               (XLVIII [II xix] 1)
L'eletta schiera di gentili cavalieri e di dame aggraziate, che il Boiardo convoca come degna corona (anzi l'unica possibile) al suo canto, si è tramutata in una torma di esseri mostruosi, tra l'orrido e il grottesco, presenze disgustose ed inquietanti che squilibrano il canto e le sue ragioni. È un motivo che inasprisce l'acredine di amare esperienze personali (di un magro 'servidore' in corte) [...]. Ma non è questione di vicende e sconfitte personali: è tutta la moralità laica dell'originale che viene sradicata come erbaccia" (pp. 6-7)

     "La decrittazione simbolica ed esemplare si fa acuta e particolareggiata soprattutto in occasione del biasimo della corte (XLVIII [II xix] 1-6) [...]: l'aspetto mostruoso dei Lestrigoni ricalca le fattezze crudeli dei signori [...].
     E ancora si potrebbe citare LXIII [III iii] 1-5, per non tornare a XLVII [II xviii] 1-3 (i 'piacer vani e fallaci / di questo mondo, che son figurati / in quelle donne' [XLVII 1 5-7])" (p. 12)