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   BERNI  XLVIII 1-6 [II xix 1-6]

   BOIARDO  II xix 1-4
 

PREMESSA

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DEL TESTO

NOTA
AL TESTO

BIBLIOGRAFIA

SIGLE

PERSONE

SOGGETTI

Rime
 

1
Di questi Antropofaghi e Lestriconi
È gran dovizia ne' nostri paesi,
C'han que' dentacci lunghi e quegli unghioni,
E barbe e nasi grandi e cigli tesi:
Son questi i cortigiani empii padroni
C'hanno sempre a far mal gli animi accesi,
Mangian la carne e 'l sangue i traditori
De' loro sventurati servidori.
2
A chi mangian la testa, a chi le schiene,
A chi le braccia, a chi mano, a chi piede.
Significa la testa il voler bene,
Il troppo portar loro amore e fede;
Il piè vuol dir colui che va e viene,
Che corre in qua e in là senza mercede;
Vuol dir le braccia e le spalle e la mano,
Ogni servigio finalmente vano.
3
Queste cose i ribaldi scelerati
Mangiano a mensa in piatti e coppe d'oro;
Che vuol dir che si stan quïeti, agiati,
E par ch'ognun sia obligato loro;
Né pur non faccian male, essendo ingrati,
Ma sian pagati di sì bel lavoro
O da Dio, o dal diavolo, o da quella
Porca della Fortuna a' buon ribella.
4
Gli unghioni aguzzi, vuol dir l'ingordezza,
La lor voracità, la lor rapina:
Le ciglie tese, vuol dir l'alterezza,
La natura superba ed asinina,
Con la quale ognun d'essi odia e disprezza
Chi dì e notte a servirgli indovina:
A scempii, a bestie, a ghiotti fan carezza,
Che son degni di coltre e di cavezze.
5
Il naso lungo, vuol dir l'avanie
Ch'addosso a' buon ognor levando vanno,
Che gli vanno annasando con le spie,
E trovando i difetti che non hanno;
E benché san che dicon le bugie,
Basta lor a scusarsi, se non danno,
Ogni poco d'attacco, ogni colore
Che cuopra il loro crudele, ingrato core.
6
Restanci i denti, ch'è la quarta parte,
Che voglion dire i rabbuffi e' romori,
Le parole mordaci che con arte
Usan per sbigottire i servidori.
Dove sei tu, Orlando e Brandimarte,
E voi di simil bestie domatori?
Bestie ch'Ercole e Bacco non trovaro
Mai tal fra tutti i mostri che domaro.
7
Io lasciai Brandimarte che tornava
A dietro per trovare il conte Orlando:
Poi che fu ito un pezzo, riscontrava
Un fantaccin che in mano aveva un brando;
Era a cavallo, e quanto può spronava;
Dietro una donna gli venìa volando,
A braccia aperte andava e scapigliata
Com'una furia o un'anima dannata.
 
1
Già me trovai di maggio una matina
Intro un bel prato adorno de fiore,
Sopra ad un colle, a lato alla marina
Che tutta tremolava de splendore;
E tra le rose de una verde spina
Una donzella cantava de amore,
Movendo sì soave la sua bocca
Che tal dolcezza ancor nel cor mi tocca.
2
Toccami il core e fammo sovenire
Dal gran piacer che presi ad ascoltare;
E se io sapessi così farme odire
Come ella seppe al suo dolce cantare,
Io stesso mi verrebbi a proferire,
Ove tal volta me faccio pregare;
Ché, cognoscendo quel ch'io vaglio e quanto,
Mal volentieri alcuna fiata io canto.
3
Ma tutto quel che io vaglio, o poco o assai,
Come vedeti, è nel vostro comando,
E con più voglia e più piacer che mai
La bella istoria vi verrò contando;
Ove, se me ramenta, vi lasciai
Nel ragionar di Brandimarte, quando
Con Fiordelisa, di bellezza fonte,
Tornava adietro a ritrovare il conte.



























4
Tornando adietro il franco cavalliero
Con Fiordelisa, a mezo la giornata
Trovarno un varletino in su un destriero,
Che avea dietro una dama iscapigliata.
Lui via ne andava sì presto e legiero,
Che mai saetta de arco fu mandata
Con tanta fretta, o da ballestra il strale,
Qual non restasse a lui dietro a le spale.
 
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