Analisi del sonetto
In principio era buio, e buio fia
di Luigi Pulci





CIRCOSTANZE







E` pressoché unanime nella critica la convinzione che il sonetto sia stato composto nel 1475, in occasione dell'anno giubilare.

Nel pieno delle sue polemiche più accese, il Pulci non seppe resistere alla pericolosa tentazione di abbandonarsi a un velenoso commento delle pratiche devote intensificate per l'occasione. Fu, come al solito, un commento improntato allo scetticismo e alla derisione. Le conseguenze furono rovinose. Già sotto il tiro incrociato del solito Matteo Franco, di Feo Belcari, dei ficiniani per la scandalosa uscita del sonetto Costor che fan sì gran disputazione (che dovrebbe essere anteriore di un anno – o al massimo di due), a dispetto dei contraccolpi devastanti che le contumelie degli avversari avevano sul suo carattere nient'affatto tetragono (si pensi soltanto alla lettera a Lorenzo del febbraio 1474 [Lettere, XXXVI, pp. 991-992], scritta con la mano che trema per la febbre), il Pulci si esponeva senza rimedio alla riprovazione universale.

L'eco del nuovo scandalo si coglie in modo particolare in Morg. XXVIII 42-46:

        Sempre i giusti son primi i lacerati:
     io non vo' ragionar più della fede,
     ch'io me ne vo poi in bocca a questi frati
     dove vanno anche spesso le lamprede,
     e certi scioperon pinzocorati
     rapportano: - Il tal disse, il tal non crede -
     donde tanto romor par che ci sia
     se «in principio era buio e buio fia».
        In principio creò la terra e il cielo
     Colui che tutto fe' qual sapiente,
     e le tenebre al sol facevon velo;
     non so quel ch'e' si fia poi finalmente
     nella revoluzion del grande stelo:
     basta che tutto giudica la Mente;
     e se pur vane cose un tempo scrissi,
     contra hypocritas tantum, pater, dissi.
        Non in pergamo adunque, non in panca
     reprendi il peccator, ma quando siedi
     nella tua cameretta, se e' pur manca;
     salite colassù col piombo a' piedi:
     la fede mia come la tua è bianca,
     e farotti vantaggio anche due Credi;
     predicate e spianate lo Evangelio
     con la dottrina del vostro Aurelio;
        e s'alcun susurrone è che v'imbocchi,
     palpate come Tomma, vi ricordo,
     e giudicate alle man, non agli occhi,
     come dice la favola del tordo.
     E non sia ignun più ardito che mi tocchi,
     ch'io toccherò poi forse un monacordo,
     ch'io troverrò la solfa e' suoi vestigi:
     io dico tanto a' neri quanto a' bigi.
        Vostri argumenti e vostri sillogismi,
     tanti maestri, tanti bacalari,
     non faranno con loica o soffismi
     ch'alfin sien dolci i miei lupini amari;
     e non si cercherà de' barbarismi,
     ch'io troverrò ben testi che fien chiari:
     per carità per sempre vi sia detto;
     e non si dirà poi più del sonetto.

E` stato per una felice intuizione di Stefano Carrai (cfr. CARRAI Confessione) se è possibile adesso identificare in Girolamo Savonarola l'indiscreto predicatore contro il quale si scagliano questi versi (scritti, evidentemente, dopo il primo ciclo di prediche savonaroliane a Firenze nel 1582). Ma ciò che conta non è l'identificazione di un ultimo avversario (riferibile agli ultimissimi anni di vita dell'autore); ciò che conta è che né le minacce («io toccherò... io troverrò... io troverrò...») né i ridimensionamenti apologetici («contra hypocritas tantum, pater, dissi») basteranno a salvare il Pulci. Travolto dal nuovo scandalo, il Pulci si alienò definitivamente il favore dei Medici. Già il 1° gennaio 1476 Marsilio Ficino poteva scrivere trionfalmente a Giovanni Cavalcanti: «Medices utrique [cioè Lorenzo e Giuliano] paucis ante diebus in causa nostra adversus adversarios nostros non correptione tantum usi sunt, sed etiam invectiva» (cit. in ORVIETO Pulci medievale p. 241). Espulso definitivamente dalla cerchia medicea, dirottato al servizio di Roberto Sanseverino, il Pulci terminerà la sua vita in una lontananza che ha il sapore amaro dell'esilio.

E non basterà a salvarlo dalla sepoltura in terra sconsacrata neppure l'ultima abiura della Confessione 55-66:

        Che colpa ho io se quella madre antica
     ci creò con peccati e con defetti?
     (Però pur la speranza mi nutrica).
        E la natura par che si diletti
     varie cose crear, diversi ingegni:
     a me dette per dote i miei sonetti.
        S'io ho della ragion passati i segni,
     m'accordo colla Bibbia e col Vangelo,
     pur che tu [Madonna] per le chioma mi sostegni.
        In principio creò la terra e 'l cielo
     Colui che tutto fe', poi fe' la luce
     e levò delle tenebre il gran velo...


[25 settembre 1995]


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