Analisi del sonetto STRUTTURA La struttura del sonetto si qualifica in senso dialogico o epistolare, assumendo ad interlocutore l'amico Benedetto Dei. L'impostazione dialogica, tuttavia, non permea interamente la struttura, limitandosi a manifestarsi nei vv. 2 («Hai tu veduto, Benedetto Dei [...]»), 5-6 («Tu riderai in capo della via, / ché tu vedrai [...]») e 17 («in bocca al drago tuo»). Ma la presenza di un interlocutore privilegiato – e certo consenziente – è implicita in tutto il sonetto, anche quando non si manifesta in strutture sintattiche esplicite. L'apostrofe successiva del v. 12 («O pecorelle mie...»), anziché verso il registro della colloquialità, si orienta verso un registro deprecativo che apre la strada al tono apocalittico ed escatologico che pervade le code. Il passaggio dalla deprecazione all'apocalissi è marcato dalla brusca sostituzione della 2ª persona plurale implicita della seconda terzina con la 3ª persona esplicita delle code. La convergenza tematico-sintattica suggerisce un'articolazione del testo così strutturata. Il primo e l'ultimo verso costituiscono unità autonome, almeno nella formulazione linguistica (e a maggior ragione nel caso dell'ultimo, addirittura composto in una lingua enigmatica, probabilmente di matrice turchesca e dunque “pagana”). Tra i due si instaura una rispondenza consequenziaria: il primo, nella sua formulazione antifrastica e parodistica rispetto ai testi scritturali, contiene una sorta di professione di fede negativa (che non può non ricordare riscontri notissimi del Morgante) che si riverbera su tutto il contenuto del sonetto e che trova la sua conclusione nell'ultimo verso. Questo, infatti, già nella sua dizione “pagana” mostra quasi di ripetere intenzioni più volte espresse dall'autore di voler «sbattezzarsi» (cfr. Lettere, III, p. 940: «[...] io verrò costì in su la fonte a sbattezzarmi dove fui in maladetta hora et punto indegnamente battezzato; che io ero più tosto distinato al turbante che al cappuccio») e indica nel secondo emistichio (il solo accettabilmente perspicuo) l'irriverente alternativa all'ipocrita devozione che la poesia burlesca ha sempre indicato: il denaro solo concreto valore in un mondo senza grazia e senza fede. Il sonetto assume, dunque, l'aspetto di una composizione anulare, quasi per applicazione della figura retorica della redditio. I vv. 2-4 contengono la propositio, la proposta del tema principale: la vanità delle pratiche devote giubilari e conseguentemente l'irrisione di coloro che vi si dedicano. In quanto tali, fanno parte a sé. Si accoppiano, invece, la seconda quartina e la prima terzina (con evidente infrazione della barriera metrica che oppone la fronte e la sirma del sonetto), sviluppando, la prima il divertimento che offrono i romei, i pellegrini maschi (propensi a non sdegnare i conforti non proprio spirituali che si possono incontrare per via, trasformandosi da penitenti in avvinazzati), la seconda il «piacere» che riservano le capperucce, le beghine, con i loro atteggiamenti di ridicola santimonia. L'apostrofe del v. 12, che accomuna i due sessi nell'analoga condizione di pecorelle del Buon Pastore, introduce un nuovo blocco strutturale, che infrange di nuovo una barriera metrica (quella fra le terzine e le code) e proietta il motivo contingente del giubileo e dei giubilanti in una improvvisamente dilatata prospettiva di salvazione e di perdizione. L'enfasi del polisindeto che occupa i vv. 15-19 e la scandita dizione lineare precisano un marcato mutamento di registro: dal «piacere» che offre a un occhio disincantato lo spettacolo della vanità delle cose umane a una profezia apocalittica e crudele (intonata alla divisa del dir male che il Pulci ripete più volte nelle lettere). I primi due versi della seconda coda (prima dell'enigma esorbitante dell'ultimo verso) chiudono con sapore di epigrafe. L'analisi che qui si è sviluppata si può condensare approssimativamente nello schema che segue: |-----------------------------------------------| | 1 In principio era buio, e buio fia. | |-----------------------------------------------| | 2 Hai tu veduto, Benedetto Dei, | | 3 come sel beccon questi gabbadei, | | 4 che dicon ginocchion l'avemaria? | |-----------------------------------------------| | 5 Tu riderai in capo della via, | | 6 ché tu vedrai le squadre de' romei | | 7 levarsi le gallozze e gli agnusdei | | 8 e tornare a cercar dell'osteria. | | 9 Ma il piacer fie di queste capperucce, | | 10 e di certe altre avemarie infilzate, | | 11 che biascion tutto dì come bertucce. | |-----------------------------------------------| | 12 O pecorelle mie, zoppe e sciancate, | | 13 che credete lassù salire a grucce, | | 14 e nespole parer poi 'ncoronate! | | 15 Le porte fien serrate, | | 16 e tutte al buio indietro torneranno, | | 17 e in bocca al drago tuo si troveranno, | | 18 e fia ben male il danno, | | 19 ma, a mie parere, ancor peggio le beffe. | |-----------------------------------------------| | 20 Thaibo, accia, accia, e nasserì bizeffe. | |-----------------------------------------------| [25 settembre 1995]
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