Analisi del sonetto TEMI L'analisi tematica del sonetto passa attraverso la definizione del genere poetico al quale il testo appartiene e attraverso la precisazione delle circostanze biografiche e ambientali in cui si iscrive. Queste sono tratteggiate nell'apposito documento (al quale si rinvia). La definizione del genere poetico non può che partire dal titolo sotto il quale il sonetto (con i suoi affini Costor che fan sì gran disputazione e Poich'io partii da voi, Bartolomeo) è rubricato da Paolo Orvieto: Sonetti di parodia religiosa. Afferma infatti Orvieto (nell'Introduzione al settore specifico delle Opere minori) che «la parodia religiosa non denuncia tanto tendenze eterodosse del poeta [...] quanto normali riproposte del comico medievale, che appunto costruiva spesso l'ironia sulla parodia religiosa» (p. 193); e rinvia alla lettura che di questi sonetti aveva fatto in Pulci medievale (pp. 196-205), interpretando i testi in chiave tutta letteraria e sostanzialmente innocua. Adesso aggiunge che lo «scandalo» nasce quando il Pulci attacca Marsilio Ficino: «Allora la parodia religiosa si trasforma in strumento di contestazione della nuova religione di stato, di Ficino e dei suoi accademici, ora gestori delle ideologie e della religione [...]» (p. 194). Orvieto dunque minimizza l'importanza ideologica dei testi (nella prospettiva di un Pulci "innocente" che non sarebbe dispiaciuta neppure a Giovanni Getto), riducendone in sostanza la "pericolosità" ai rischi impliciti in una sorta di contesa per l'egemonia culturale nella Firenze laurenziana. Ora, non vi è dubbio che nella vicenda abbiano giocato un ruolo determinante le variabili ambientali e temporali: prima del 1473 vigeva a Firenze una larga e civile tolleranza per manifestazioni di cultura e di comportamento che dopo il 1473 saranno guardate con sempre maggiore sospetto e riprovazione, secondo una linea di tendenza che culminerà nei savonaroliani roghi delle vanità del carnevale 1497, ma che appartiene già agli ultimi anni dell'età laurenziana. Tuttavia, il fatto che quelle manifestazioni fossero tollerate non le rende di per sé "innocenti": l'eterodossia non perseguitata non cessa di essere tale; la passione del Pulci per l'oscuro e il proibito, la lettura amorosa di testi interdetti (Cecco d'Ascoli, Matteo Palmieri), le pratiche apertamente confessate di negromanzia sono segni altrettanto gravi nel 1470 quanto nel 1475; ciò che cambia non è la sostanza delle cose, ma la loro ricezione, le reazioni ambientali ad esse. E in ogni caso, per quanto ne sappiamo, tutt'e tre i sonetti incriminati appartengono al pieno della polemica del Pulci con l'ideologia egèmone a Firenze; la presunzione di "innocenza" (o di "innocuità"), che si può tutt'al più invocare per la "professione di fede" di Margutte (ma io non lo credo), non si vede come possa applicarsi ad essi. Ma l'argomento più importante è un altro. La parodia implica per definizione l'esistenza di un oggetto parodiato. Ora, nessuno può negare che l'incipit del sonetto In principio era buio, e buio fia rovesci malignamente il dettato della Genesi, contaminandolo per di più con l'esordio del vangelo di san Giovanni. Altri elementi parodistici si reperiranno con facilità altrove. Ma si tratta di elementi, cioè di componenti episodiche. La sostanza dei sonetti non sta nel capovolgimento per dileggio di un testo precostituito; sta nella derisione di convinzioni filosofiche e religiose e di pratiche devote che implicano il cuore stesso dei dogmi capitali della religione cristiana. Questa derisione si serve saltuariamente (sebbene – se si vuole – con particolare effetto d'urto) dell'arma della parodia, ma specialmente di altre armi, che non evocano affatto un testo specifico o comunque un paradigma noto. I tre sonetti non appartengono dunque al genere poetico della parodia, ma al genere del dileggio e del vituperio, anche se forse ne rappresentano una variante singolare. Ciò premesso, per affrontare specificamente il nostro sonetto possiamo prendere le mosse dall'apologia che il Pulci ne fece in Morg. XXVIII 42-46 e che si può condensare nei versi «e se pur vane cose un tempo scrissi, / contra hypocritas tantum, pater, dissi». In sostanza l'autodifesa del Pulci poggia sul duplice fondamento della derubricazione del testo a «cosa vana» (e non blasfema) e della riduzione della polemica a denuncia degli ipocriti e non dei veri devoti. Il primo cardine della difesa, specie nel contesto della terna poetica, non regge in alcun modo: non la leggerezza si può imputare a Luigi Pulci (se non forse nel valutare le conseguenze delle proprie azioni), ma proprio l'irriverenza e la blasfemia. Anche il secondo cardine non appare molto solido. Si può cogliere qua e là nel testo qualche accenno al motivo dell'ipocrisia: l'oggetto di scherno dichiarato nel terzo verso è costituito da gabbadei (che può valere genericemente 'imbroglioni' o specificamente 'ipocriti'); a una sostanziale ipocrisia si può ascrivere il comportamento dei pellegrini che la sera dimenticano la loro devota penitenza all'osteria. Ma sono aspetti e sfumature marginali. Protagoniste del sonetto sono le «squadre de' romei» (v. 6), i folti eserciti di pellegrini che per il giubileo si recano a Roma; ed è difficile credere che un tale suggerimento numerico possa applicarsi ai soli ipocriti. Non i pellegrini ipocriti, ma i pellegrini tout court sono oggetto di scherno e con loro le pie credenze e le sante istituzioni che determinano e governano il pellegrinaggio. Ma il contesto va ancora oltre nel cammino di uno scettico materialismo. Nel sonetto Costor che fan sì gran disputazione, dopo aver deriso le sottili disquisizioni dei neoplatonici sull'anima, il Pulci aveva concluso: Et chi altro crede ha 'l fodero in bucato: e que' che per l'un cento hanno promesso ci pagheran di succiole in mercato. Mi dice un che v'è stato nell'altra vita e più non può tornarvi, che appena con la scala si può andarvi; costor credon trovarvi e beccafichi e gli ortolan' pelati e buon vin' dulci e letti sprimacciati; e vanno drieto a' frati. Noi ce n'andrem Pandolfo in valle buia sanza sentir più cantare alleluia! Dunque «que' che per l'un cento hanno promesso / ci pagheran di succiole in mercato»: il vangelo, che assicura ricompense incommensurabilmente maggiori ai meriti, ci deluderà amaramente, lasciandoci con un pugno di mosche («dunque la Bibbia abbaia», rincarerà nel sonetto Poich'io partii da voi, v. 15). Coloro che attendono le dolcezze infinite della beatitudine sono dei poveri illusi, raggirati dalle astuzie fratesche. Il nostro comune destino dopo la morte è il buio. Qui «in principio era buio, e buio fia». Sentenza perentoria, ma tutt'altro che una chiara definizione cosmologica e teologica. Infatti si può intendere che il buio anteriore alla creazione tornerà a regnare nell'universo alla fine di tutto; ma, puntando sulla fonte evangelica («In principio erat Verbum...») e sulla clamorosa sostituzione del Verbo divino (increato ed eterno) con un buio primordiale (che sembra qualcosa di più delle tenebre della Genesi: non qualcosa che si contrappone a Dio, ma che sta al posto di Dio), si può anche intendere come una negazione dell'esistenza stessa di Dio. Ma è sicuramente chiedere troppo pretendere dal Pulci un ragionamento lucido e coerente, espresso in questi e analoghi versi. La poesia del Pulci non è una poesia razionalmente costruita (come quella di Dante, nella quale ogni voce è pesata e conseguente), ma una poesia allusiva, che procede per illuminazioni suggestive e approssimative (e lascia quindi un ampio margine di ambiguità) e alla quale sicuramente difetta anche un positivo sistema di pensiero. Non si possono chiedere al Pulci le risposte che lui stesso non aveva. E in effetti lo sviluppo del sonetto, se ribadisce il trionfo del buio contrapposto alla luce divina (v. 16), nello stesso tempo ripropone il tema della salvezza e della dannazione nei termini di un'iconografia tradizionale: le «porte» del paradiso «serrate», l'inferno raffigurato come la bocca spalancata di un mostro orrendo. E cresce l'oscurità la cifra esoterica del verso finale. [25 settembre 1995]
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