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TESTI
STUDI ROMEI Introduzione L'ambiente gibertino era regolato da severe norme formali e disciplinari, saturo di proibizioni e rigori, contro i quali il Berni manifesterà la sua avversione. Ma certamente la lunga convivenza con il Giberti non può essere ridotta semplicemente a questo aspetto; infatti comportò implicazioni ben più profonde che andranno ad influenzare la produzione letteraria dell'autore, la quale in questi anni assumerà aspetti sempre più contraddittori. Il datario, e vescovo di Verona, coltivava "progetti grandiosi e lungimiranti" sia in campo politico che religioso (caratterizzati da una volontà di "profondo rinnovamento morale"). Ed è all'aspetto religioso che, paradossalmente, si dovrà prestare maggiore attenzione, proprio "per quel pudore dei buoni sentimenti che il Berni ebbe sempre, a fronte dell'ostentata impudicizia della sua maschera comica" (p. 10) Nel 1526 compare il Dialogo contra i poeti che "è,
nella sostanza, un opuscolo acremente polemico, con punte di autentica
crudeltà [...], che denuncia e condanna l'inane protervia, lo squallore
morale, l'empietà della poesia umanistica [...]. Le complicità
ideologiche che traspaiono dal dialogo (la disputa rigorista contro la
poesia, la disputa sull'imitazione [...]) escludono perentoriamente che
vi si possa leggere una poetica delle 'bagatelle', del disimpegno giocoso,
o, al contrario, dell'impegno realistico, malgrado le istanze di petrosa
concretezza che vi sono espresse [...]: per la poesia non c'è scampo,
la giustificazione è soltanto nelle 'opere virtuose', nella rettitudine
morale. Quanto a sé, 'se quelle baie'
che ha fatto 'se debbono chiamare poesia',
il Berni conferma solennemente 'che si spoeta'.
[...]
Il 10 ottobre 1528 il Berni scrive una lettera a Maria Caterina Cybo, dicendole: lasciate "'ch'io vinca un poco questa mia poltroneria, con la quale ho combattuto tanti anni e sempre ho perso, come faceva colui con la cena, [e] la vostra eccellenzia conoscerà ch'io sono un uomo da bene, idest ho voglia di essere un uomo da bene; e che sia vero, son tornato a Verona per stare appresso ad un uomo da bene e provare se li essempli suoi mi possono far qualche giovamento'. Non che fossero venute meno le sue indocili ritrosie (nella stessa lettera confessava di non potersi togliere di mente l'allegra vita della Roma leonina; e di cenni di insofferenza [...] sono sparse le scritture coeve) né che il Berni si facesse troppe illusioni sul proprio conto (ebbe sempre chiarissima coscienza di un dissidio interiore fra le sue nobili aspirazioni e una radice negativa del proprio essere e del proprio conoscersi, che chiamerà ora 'natura dappoca', poi 'poltroneria', infine 'perversità'); e tuttavia, fatto adesso 'mezzo chietino' o 'teatino e romito' e digiunando 'in pane et in acqua' (non senza un riflesso di autocaricatura), s'impone che siano proprio quelle nobili aspirazioni a segnare la sua vita: con un impegno che, ben al di là di quanto apertamente egli ammetta, deve essere stato appassionato e solenne" (p. 13) Per quanto riguarda il rifacimento dell'Orlando innamorato "gli interventi di maggior peso, se si eccettua l'inserzione di gruppi di ottave come le note 'autobiografiche' (III vii 36-56), consistono nella serie indefessa dei proemi (69, si ricordi, benché non tutti di eguale importanza) che, a imitazione del Furioso, il Berni premise ai canti del poema, con una propensione moralistica e didascalica, talvolta devozionale e davvero 'chietina', che risulta abbastanza singolare e sconcertante. L'Orlando 'moralizzato' dal Berni (e spesso castigato nelle sue intemperanze), ingabbiato in una rigida armatura edificante che stride con la libera ed estrosa materia narrativa del Boiardo, non è, quale ci è giunto, troppo difforme dagli intendimenti del pio umanesimo veronese, santamente ispirato dal Giberti. Ed è, invece, il rovescio della poesia empia e negativa delle Rime [...]. Ipocrisia? Svogliata sottomissione a un programma imposto? Probabilmente no. Probabilmente le incertezze di uno spirito tormentato che non ha saputo risolvere le sue contraddizioni" (p. 14) "Tornato poco dopo a Verona [ottobre 1531], marcando il
definitivo distacco dall'ideologia gibertina, tornava alla poesia matta
e disperata - incredula, ormai, di ogni riscatto e di ogni impegno edificante
- dei capitoli di lode; non più equivoca, peraltro, ma schiettamente
paradossale. Scelto ad interlocutore il maître della magra
cucina del Giberti [...], il Berni cantava due volte la peste e
il debito e - a rovescio - Aristotele. Architettava un 'mondo
capovolto' [...], una società rovesciata in cui 'sei
te stesso e de gli altri signore' e in cui si vive 'con
nuove leggi e patti' (LII 109-12): contro ogni vulgata opinione,
niente di meno che il 'secol d'oro' ed il 'celeste
/ stato innocente primo di natura' (LII 143-44). È la poesia
dove gli acidi intellettuali del Berni sono più scoperti; si pensi
ad Aristotele (al quale stavano per affidarsi le dogmatiche certezze della
cultura controriformata), irriso come colui che tutte le cose comprende
e spiega e giustifica [...]. Mentre a lui la natura si rivelava ambigua
ed enigmatica, 'benigna ad un tratto e crudele'
(LIII 51); e la felicità... 'Ma questi son
ragionamenti vani, / però lasciàngli andar, che non si dica
/ che noi siam mammalucchi o luterani' (LXV 52-54)" (p. 16)
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